LOVE & PEACE (2015), di Sion Sono

Al vertice della sua prolificità, Sion Sono nel 2015 ha sfornato ben 5 film (ma c’è chi dice 6, c’è chi dice 7) e ai più appassionati del suo cinema sono sorte subito molteplici perplessità: messi da parte, forse, i doverosi paragoni con Takashi Miike, autore di un cinema a volte simile e dei ritmi di produzione malsani (in poco più di 20 anni di carriera quasi un centinaio di film), è arduo riuscire ad immaginare che un regista postmoderno così geniale e pop possa mantenere alta la qualità in ogni suo sforzo. Tuttavia, con The whispering star, mostrato quest’anno a Roma, c’è riuscito, sfornando uno dei suoi film più intensi e importanti; con TAG, mostrato al Torino Film Festival, ha avuto un simile successo, creando una vera e propria epopea di cinema paradossale, autoironico e sanguigno; con Shinjuku Swan ha invece parzialmente fallito, costituendo un film prolisso e pieno di limiti. Il terzo dei film suoi presentati al TFF è proprio Love & Peace, ed è forse quello per cui le aspettative erano più alte; già dal trailer e dalla sinossi, si poteva intuire qualcosa di interessante e anarcoide, qualche reminiscenza di quell’epica del delirio, tra pop, punk e musica classica, che aveva contribuito al risultato conclusivo, ad esempio, di quel capolavoro di Why don’t you play in hell? (2013). La trama difatti ruota attorno ad un nocciolo tutto sommato parodistico: il film, distribuito come “il film di Natale di Sion Sono”, tratta la vita di Ryoichi, impiegato sfigato che sogna di diventare una rock star, e che un giorno decide di comprare una tartaruga, la cui sola presenza lo motiva ad andare avanti. Ma quando i colleghi lo sfottono per l’acquisto, Ryoichi butta nello sciacquone la creatura, che nelle fogne incontra una sorta di Babbo Natale nipponico, personaggio sospeso tra i padri ubriaconi dei film di Ozu, gli angeli custodi di Frank Capra e i magici protagonisti di Tokyo Godfathers (2003) di Satoshi Kon. Questi dà alla tartaruga la possibilità di soccorrere il proprio padrone, disperato per la sciocchezza che ha fatto, ma che finalmente potrebbe avere una possibilità per coronare il suo sogno.

Con varie autocitazioni (che è meglio non descrivere per non rovinare la sorpresa ai più accaniti appassionati di Sono) e tanto plasticismo grafico kitsch nel descrivere dinamiche da film natalizio family-friendly, Love & Peace risulta (volontariamente) come un qualcosa a metà tra gli altri due film del regista visti al TFF: non magnifico nè ambizioso quanto Tag nè discutibile quanto Shinjuku Swan, Love & Peace è una commedia tragica sull’amore e sulla pace (ma va’?) condita di lirismo poetico e virtuosismi antie(ste)tici. Ad esempio, in questa storia (che l’America avrebbe condito ancor di più di buoni sentimenti e cliché narrativi, che comunque non mancano) non c’è redenzione per il perdente che diventa egoista e perde la propria umanità, non c’è evoluzione dell’amore nell’individuo se non per la figura drammaticamente lobotomizzata (fino all’effetto comico immediato) della tartaruga, non c’è buon sentimento se non la sua apparenza, non c’è positività. Il barlume di speranza nel genere umano non risiede nella speranza di fama del protagonista bensì nel sacrificio del Babbo Natale di turno, un primus inter pares barbone e ubriaco che per portare la speranza e il futuro uccide il sogno per farlo rinascere. La speranza del Giappone risiede nello splendore delle Olimpiadi 2020 e la festività è più che mai violentata dall’occidentalizzazione. Insomma, in questo mondo colorato e pacchiano fino al ridicolo che si muove a ritmo alternato tra j-pop rock e riprese kubrickiane enfatiche vediamo il compiersi di un postmoderno folle e gigioneggiante, ipercinetico e che trova la speranza in un amore che non c’è davvero, un amore che è capace di salvare il mondo ma che si (di)mostra in maniera paradossale e parodistica, irreale, come nel finale di Love Exposure (2008), l’apice del regista: un amore salvifico ma fuori dal mondo, drammatico e ipotetico.

Stilisticamente, Sion Sono è semplice e quadrato, fa un film musicale che va poco a ritmo di musica e spesso rende drammaticissime scene con protagonisti oggetti inanimati portati in vita con doppiaggi patetici ed una computer grafica volutamente molto poco credibile, mettendo in crisi esistenziale entità che, altrimenti, sarebbero il fulcro comico della storia. Love & Peace non è né un film di corpi né un film di volti, è un film di modelli, di colori che si inseguono con frenesia. Il senso dell’umorismo esplosivo del film si conclude in un vortice di patetismo umano e destrutturazione dell’animo: l’uomo collassa sempre di più nel proprio stesso baratro, non esce, forse non intende uscire. Ma rimane una speranza? È la speranza della collettività che si innamora, anche senza una motivazione valida o un senso fondante, la collettività che si unisce nell’amore e nella pace, nel motivetto che rende la star tale più che nella star. Tra le commedie dure e pure di Sion Sono, Love & Peace è una di quelle meno incontaminate di metacinema, ma la sua follia fine a se stessa crea un mondo in cui è meraviglioso perdersi, come facendo collassare sul corpo dello spettatore l’esplosività dell’incomprensione del mondo moderno. Il mondo del musical, il mondo del Natale, il mondo del kaiju-film, il mondo di Sion Sono: con tutte le strane e plastiche complessità del caso, il risultato è senza dubbio un piccolo grande film, di quelli che coinvolgono emotivamente gli spettatori con un clamore da concerto.

Nicola Settis