Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo.
Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla.
Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente.
L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia,
non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male,
non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità;
soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.
L’amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita;
poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo;
ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito.
Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino.
Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.
Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore.San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi
Essere esposti all’amore significa essere fragili di fronte a qualcosa di talmente grande da essere assolutamente incomprensibile. Ma, in questa sua incomprensibilità, l’amore è probabilmente il più importante tra i motori del sentire umano. Sion Sono ne è conscio nel momento in cui mette in scena Love Exposure (2008), suo capolavoro al quale siamo tutti legati e affezionati da tempo immemore, che quest’anno compie un decennio. Ieri abbiamo avuto modo di rivederlo in quella che è la sua collocazione naturale, la sala cinematografica, proiettato allo Spazio Oberdan di Milano, e la libertà deflagrante della ‘magnum opus’ dell’Anticristo del cinema giapponese ha ancora una volta inondato gli sguardi degli spettatori con la sua lunghezza fluviale eppure mai prolissa, ricca di dettagli e di scelte stilistiche in continuo scozzo e in continua evoluzione, ricca di contrasti, di (im)possibilità, di lucido cinedelirio. La storia è talmente folle e imprevedibile che forse non è importante né necessario davvero raccontarla: si tratta del racconto formativo, bildungsroman “basato su una storia vera” che più falsa di così non si può, di Yu, che vuol dire «acqua calda», orfano di madre, figlio di un prete cattolico, peccatore e pervertito voyeuristico per il semplice gusto di peccare (il peccato cristiano è un pretesto per discutere l’esigenza dell’individuo di scappare dalle situazioni prestabilite muovendosi anarchicamente, ed è poeticamente geniale come questa necessità nasca nel bisogno d’attenzione e di amore di un figlio che ha perso la madre e cerca a ogni costo il perdono da parte di un padre da rinconquistare attraverso la sua nuova vita), esperto fotografo di mutandine femminili e devoto cristiano. Ma è anche la storia di Yoko, che vuol dire «neve» (un nome che la pone sullo stesso spettro di Yu, ma all’opposto), orfana di madre, demolitrice di case, pseudo-punk disadattata, figlia di un commesso violento e incorretto che ha innescato in lei l’odio viscerale verso il sesso maschile e che ha frequentato decine di donne come “figure materne sostitutive”, tra le quali Kaori, ex-compagna del padre di Yu, che si porta Yoko dietro nel viaggio verso la riscoperta dell’amore. Ed è anche la storia di Aya Koike, elemento esterno all’amore strano tra Yoko e Yu, anch’essa vittima di violenze da parte di un padre che ha evirato appena tornata dal riformatorio dopo aver ucciso una sua fiamma. Direttrice di una setta di derivazione cattolica chiamata Chiesa Zero, decide di sfruttare le situazioni peculiari che si aggirano attorno al legame tra Yu e Yoko per intromettersi con lo scopo di convertire la loro famiglia al proprio culto, aiutata dal fatto che il primo incontro tra Yu e Yoko, nel quale Yu si è reso conto che lei è la donna che ha sognato di incontrare per tutta la sua vita, la “Maria”/Madonna salvatrice e ‘Beatrice’ dantesca che ha sempre idealizzato a partire dalle parole della madre e che è l’unica donna che può fargli avere un’erezione, sia avvenuto con Yu travestito, per scommessa, da Sasori-san o Miss Scorpion, una donna criminale ispirata al personaggio di Nami Matsushima, interpretata da Meiko Kaji nel thriller Female Prisoner #701: Scorpion (1972) di Shunya Ito, derivato a sua volta dal manga omonimo di Tooru Shinohara. Dopo tale incontro Yoko si è innamorata di Scorpion, che crede essere una donna, senza riconoscere nel suo volto i tratti fisiognomici di Yu che nel frattempo è diventato suo “fratello adottivo”.
Certo, l’intreccio è complesso, fatto di amore, disprezzo e intromissioni che si fondono e incrociano apparentemente inestricabili, e introdurlo in maniera anche solo parziale, come abbiamo (invano) tentato di fare nel precedente paragrafo, significa automaticamente rivelare in pratica ciò che è messo in scena nella prima ora abbondante del film. Ma dopo la prima ora ce ne sono altre tre in cui il tono cambia in continuazione, come in una sorta di postmoderno flusso di coscienza ultra-pop e umanista di redenzione e di sentimenti, in cui l’identità del genere cinematografico è destinata a mutare in maniera radicale e imprevedibile grazie a un montaggio che, quasi fosse una sorta di storia del cinema dissimulata nei riferimenti culturali e nella tecnica, alterna in continuazione e con straordinaria disinvoltura registro e ritmo. C’è l’aspetto della commedia, gestito sia come commedia sentimentale degli equivoci sia come commedia demenziale, c’è un pregnante senso di surrealismo implicito che viene fuori soprattutto nei momenti di sospensione e proiezione mentale, c’è un aspetto strettamente erotico, e poi ci sono svariate scene d’azione e di violenza intervallate da molteplici momenti in cui il tutto è sommerso nel puro dramma, strappalacrime, colmo di suspence, genuinamente melodrammatico. Love Exposure è un intreccio fitto quanto scorrevole e senza un solo minuto di troppo di amore e sadismo, di sofferenza e peccato, di tosatsu e crudeltà, di risate e sofferenze, di fascino (letteralmente) eccitato nei confronti del proibito e sensi di colpa per aver peccato. È un film orgogliosamente inclassificabile, inedito, fra la commedia e la riflessione psicologica, fra l’erotismo e la religione, fra l’amore e la ferocia, che nello scorrere dei suoi capitoli innesta, senza mai perdere la matassa, infinite trovate, colpi di scena e ribaltamenti nella trama che mai ne minano la coerenza o la stupefacente fluidità. È una bomba a mano, è un ufo, è un sogno, è un film (im)possibile, è un trattato d’amore nei confronti della settima arte, di quel cinema che tutto rende possibile, che tutto rende “una storia vera”. In un certo senso, Love Exposure esplicita le potenzialità del cinema narrativo di aiutare lo spettatore ad affezionarsi a situazioni e a personaggi che non possono che evolversi in maniera irrealistica seguendo realisticamente il flusso emotivo e vitale attraverso un ordine fattuale apparentemente incoerente. È una caratteristica di pura Nouvelle Vague, o di pura Nuberu Bagu, nonostante il mondo in cui è collocato Love Exposure sia un mondo fatalista, contaminato dal pop e dalla cultura occidentale: il cristianesimo – che in Giappone enumera assoluti fanatici ma rimane una minoranza pressoché esigua – è visto in maniera nietzschiana, percepito come una serie di valori ormai privi di significato e vicini al nichilismo e come cultura dello sminuimento umano e del dolore, ma è solo la principale di una serie di onnipresenze d’esportazione europea, che includono anche, come simboli o accenti poetici, il Bolero di Ravel, la Settima di Beethoven, Kurt Cobain, Nina Hagen, i Pretenders e Patti Smith. Il crocifisso è il simbolo di tutto questo, come raffigurazione di uno Yu passato: le nuove sofferenze dell’uomo sono sofferenze sentimentali e sessuali, da inserire in un’ipotetica “ucronistoria”, necessario neologismo, che procede per fasi allegoriche in cui la formazione sta nel gestire il legame col primo grande amore adolescenziale nonostante le intemperie e i conflitti che si possono creare con lo spirito, con la coscienza “che intralcia” (Aya Koike), con i propri dubbi di tipo sessuale (Sasori-san), con i propri amici e la propria famiglia che cambiano sempre ruolo. E alla fine o ci si evolve o si rimane lì, ma il primo amore, come dicono banalmente i proverbi, non si scorda mai. La croce è più un promemoria di un qualcosa che deve tornare in funzione, come un membro in erezione, come ‘riattivando’ i sensi e la capacità del soffrire e del sentire insieme dell’uomo. Diventa simbolo ossessivo fino a perdere il proprio significato, proprio come i valori del cristianesimo, ma in un certo senso così cerca di acquisire un nuovo senso per un altro tipo di sacrificio, una nuova penitenza per una nuova salvezza. È per questo motivo che nei momenti di maggiore tensione e complessità escono fuori frasi come «Yoko, ti amo più di quanto amo Dio» – perché Dio è importante, ma la cosa più importante sembra allontanarlo, o citarlo allontanandolo e pensando ad altro. Sembra quasi di risentire i fratelli Strugackij quando in È difficile essere un Dio scrivevano «quando sono con te, non ho bisogno di Dio»…
Sion Sono, parlando di Love Exposure, lo definisce orgogliosamente un B-movie. Ma il regista, poeta e artista nipponico, accanito cinefilo e intellettuale cresciuto a Tarkovkij e sperimentazioni, conosce alla perfezione le stratificazioni del quale il suo “B-movie” è innervato nel corso dei suoi 237 minuti, ed è pienamente consapevole della sua semiotica, del suo approfondimento psicologico sull’amore come insostenibilità e della sua teoria (meta)cinematografica nella destrutturazione e sublimazione di ogni genere in un qualcosa di inedito, esplosivo, mai (più) visto, “follemente” libero. Nell’ambito del cinema (non solo) giapponese, infatti, Love Exposure rappresenta di per sé quello che dovrebbe rappresentare l’opera omnia di Sion Sono, ovvero uno squarcio, appunto, libero e anarchico, che oltrepassa l’estetica cinematografica in maniera totalmente fuori dagli schemi e dagli schermi. Il regista inquadra i suoi soggetti facendosi influenzare a varie forme diverse dell’audiovisivo, dal telegiornale (le rivolte a Shibuya) al documentario di inchiesta, dal videoclip alla Nouvelle Vague, dalla velocità di un montaggio concettuale di presentazione a ritmo di Ravel alla lentezza programmatica di un dialogo sulla spiaggia che, inaspettatamente commovente, cita istericamente la Bibbia tra movimenti di macchina schizofrenici e lunghissimi primi piani a mdp fissa. Nel panorama del cinema nipponico contemporaneo, in mezzo agli anime e ai prodotti crossmediali e transmediali legati al fumetto e al videogioco, Sion Sono è una scheggia impazzita capace di integrare nella propria estetica l’universo generalizzato di quest’estetica pop, che funge da maschera-identità del Giappone, pur virandolo verso direzioni inaspettate grazie alla propria formazione cinematografica, basata sul documentario sperimentale (come I am Sion Sono!, I am Keiko e Utsushimi) e sull’horror a tematica socio-politica (Suicide Club e il suo sequel pirandelliano Noriko’s Dinner Table, e anche Strange Circus), entrambi (sotto)generi di derivazione puramente personale e che nulla hanno a che fare con le derive ‘weird’ del cinema giapponese a cui Love Exposure apparentemente fa parte. Love Exposure crea uno spartiacque metacinematografico nella filmografia di Sono, perché, con la sua messinscena di un’osmosi tra personaggio protagonista e osservatore/operatore/voyeur, compie un passo ambizioso e complesso verso la composizione di un film d’immagine che si pone automaticamente come unico nel suo genere. Da Love Exposure in poi, la riflessività di Sion Sono ha espanso ulteriormente i propri orizzonti, in particolare con i deliri imprevedibili di Why don’t you play in hell? e Tag o con la Fukushima di Himizu e The Whispering Star. E i semi di tutto questo erano presenti già da Love Exposure, in particolare dal dialogo in manicomio tra Yu e Yoko, in cui Yoko dice a Yu «tu sei Yu», sottolineando l’assonanza tra il nome del protagonista e la parola inglese «you». Tu sei tu, «io sono Yu», io sono tu: Yoko e Yu si trovano sulla stessa linea, l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione, il cinema e il regista, lo spettatore e il film, entrandovi, penetrandovi con occhi e corpo. Anche per questo è importante la sospensione dell’incredulità, per tutto il film ma specialmente nella conclusione, in quella corsa a perdifiato fuori dal tempo e dal realismo gridando il proprio amore all’inseguimento disperato di una macchina in corsa, in cui permane un patetismo che ha bisogno del montaggio per diventare plausibile (pur ironicamente) e soprattutto lirico. Anche le erezioni non vengono più mostrate in maniera ravvicinata e volontariamente ridicola e umoristica, ma diventano una lotta fisica che non viene inquadrata, un combattimento tra Yu e se stesso, tra un Io e la sua pulsione, il suo Es, il suo Id, che lo indirizza a sessualizzare l’oggetto di un desiderio idealizzato e puro come Yoko-neve. E se da una parte ci possono essere miriadi di riflessioni interpretative a livello allegorico, dall’altra c’è l’impossibilità di un finale perfetto, che può creare una simbiosi tutt’altro che realistica. È una speranza che, messa in scena, crea speranza, apre nuove porte verso nuove caverne, a metà tra il ricordo lontano de L’ultima risata di Murnau o di Taxi Driver e l’anticipazione del primo lungometraggio di Hertzfeldt, It’s such a beautiful day, che sarebbe arrivato nel 2012, quattro anni dopo, estremizzando ancora di più in maniera cosmica la possibilità di annullare la morte e ampliare lo spettro narrativo della vita. È per questo, e per mille altri motivi, che Love Exposure è un film necessario, che dieci anni dopo ci pare giusto confermare descriva alla perfezione le fasi di passaggio dell’estetica cinematografica tra pellicola e digitale, tra Bresson e il videoclip, tra il passato e il futuro. Tra la Lettera ai Corinzi di San Paolo e l’hentai. In ciò, ogni inquadratura, nella sua tendenziale semplicità, sembra mastodontica e di una libertà semplicemente impossibile da spiegare a parole. Si può solo vivere, nel buio della sala, nel corso dei duecentotrentasette minuti più corti di sempre. Duecentotrentasette minuti di pura gioia cinefila, di passione, di esposizione all’amore in ogni sua forma e contraddizione. Duecentotrentasette minuti che forse non ci basteranno mai, duecentotrentasette minuti per i quali, una volta tanto, gridare a squarciagola la parola “capolavoro” non è affatto uno sproposito.
Nicola Settis, Marco Romagna