LOVE AFFAIR (1939) / AN AFFAIR TO REMEMBER (1957), Il Grande e Splendido amore secondo Leo McCarey
Love Affair / An Affair to Remember, o se si preferisce Un grande amore / Un amore splendido, oppure semplicemente Elle et Lui, che li racchiude entrambi. Un caso unico, e forse irreplicabile, nella storia del cinema. Per Leo McCarey era probabilmente un’ossessione rigirare quella pellicola, considerata da molti come la più grande storia d’amore mai filmata; un vedersi più volte alla prova come metteur en scene con differenti budget, con differenti attori e differenti possibilità tecniche. Un gioco, nel giocattolo terribilmente serio che sono gli studios. Ed ecco dunque questo miracolo filmico, questo doppio apogeo del melodramma che ribadisce ancora una volta la centralità (mai troppo valutata) di una figura come quella di McCarey nell’apparato dell’industria cinematografica statunitense, recuperato dalla retrospettiva locarnese nelle stampe originali in 35mm e restituito sullo schermo del GranRex con, rispettivamente, una luminosità dei bianchi e una saturazione dei colori che rimangono a bruciare in fondo agli occhi, là dove inizia il cuore. Forse quegli stessi colori usati dal pittore gentiluomo che, sulla nave verso New York, incontra una ricca ereditiera. In attesa della visita nell’oasi della madre, dell’appuntamento all’Empire State Building, dell’incidente che ri-scrive ancora la loro storia. I momenti di questi film sono diventati gergo comune in buonissima parte del melò moderno (e contemporaneo), così come la costruzione minuziosa delle inquadrature e il mirabile lavoro de/sugli attori. Ma questo dittico meraviglioso, completato con diciotto anni di distanza fra il primo film e il suo autoremake, significa molto di più, diventando metafisica del set e della scrittura, dell’autore al cospetto della sua opera. Sono due film che, a differenza di altri casi di autori che tornano sulla propria opera (viene subito in mente il doppio L’uomo che sapeva troppo, con il secondo realizzato da Alfred Hitchcock nel ’56 come un sostanziale perfezionamento tecnico del primo che aveva dovuto sottostare agli ovvi limiti del 1934), non possono esistere separati, perché sopravvivono proprio nella stessa memoria l’uno dell’altro. Sono da vedere assieme, nel loro sdoppiamento continuo, nel ritardo come nell’anticipo di una battuta, nel movimento di macchina differente del secondo che spiazza al ricordo del primo (e viceversa). E in questo Love Affair e An Affair to Remember ridiscutono, forse inconsapevolmente, anche il ruolo dello spettatore, esigendo in lui la scelta (quasi inconscia) tra la versione migliore, o almeno la scena preferita, o l’attesa di una lacrima che può scendere come no. Lei e lui così si guardano, nel triangolo inconsapevole e sdoppiato che creano con noi mentre li stiamo guardando. E per sempre li guarderemo.
Ma da che cosa deriva l’unicità di questo dittico? Essenzialmente dall’essere un’opera unica. Dovremmo forse dunque usare il titolo francese, Elle et Lui, lo stesso che usa Fabianne Costa nel suo saggio estremamente interessante e assai originale dedicato al doppio amore secondo McCarey. Perché sarebbe un errore differenziarli, sarebbe un bypassare il rischio dell’ovvia confusione (sui titoli) per uno scontro da partito preso – e perso – attorno a un esperimento che trasla la massima autorialità possibile nella perfezione dell’industria. Non è la fusione tra i due film e nemmeno il loro possibile dualismo a descriverne il fascino, ma solo la straordinaria espressione di coincidenze (anche umane) che vanno a collimare. L’invito di McCarey è quello di voltarsi indietro, come se il secondo fosse l’eco distante del primo, una corrispondenza ampliata a dismisura che coinvolge diverse visioni e generazioni all’interno di una società (e di un cinema) irrevocabilmente cambiata in quel lasso di tempo del secolo breve. Da una parte Charles Boyer e Irene Dunne nelle nebbie del bianco e nero, dall’altra Cary Grant e Deborah Kerr abbaglianti nel colore. Si conoscono e si inseguono, nello spazio di una nave (la breve scena in piscina del secondo è l’unica a non comparire nel primo) come in una piccola oasi di memoria, si abbandonano al destino e vivono nella sprezzante attesa che esso possa intercedere per loro. Sarà il fato però a ostacolare il loro bisogno viscerale di appartenersi, come se potessero solo rimanere legati in una realtà parallela, con altre regole a cui (dis)obbedire. In tutto ciò è come se il remake si sovrapponesse all’originale, come se lo riprendesse estendendolo, ampliando i principi estetici e le invenzioni pittoriche del primo per restituirli con una pulsione forse più mediata e razionalizzata. Ma tutto ciò è simbolo anche di un’altra provvisorietà, quella che riportò McCarey alla regia dopo sei anni (a seguito del fiasco di My Son John, uno dei suoi capolavori assoluti) e per la prima volta con le tonalità del Technicolor. Fu lo stesso autore a sottolineare come tra le due versioni non ci fossero molte differenze, ma proprio in quel “tra”, ovvero nel confronto fine a se stesso, per molti anni ci si è incaponiti in un esercizio critico sterile, che spesso si sofferma alle differenza qualitative dei film senza nemmeno provare a considerarli un raddoppiarsi, un riflettere, un integrarsi l’uno con l’altro. Come se la (ri)scrittura di McCarey non si limitasse al frammento, ma prendesse in esame un percorso di riflessi e di libere associazioni, un atto d’amore nei confronti dell’amore. Prima di tutto ci sono loro due, e ci saranno per sempre.
Come emerso anche nella Tavola Rotonda organizzata a Locarno71 da Roberto Turigliatto alla quale erano presenti personalità come Miguel Marìas, Sergio Germani e Jean Douchet, questo dittico quasi inafferrabile coglie quindi gran parte della sintassi filmica del cinema di Leo McCarey. È la rincorsa possibile della creazione di un futuro attraverso il cinema, dove il presente è eternamente sdoppiato – anche nello stesso set, nel film, attraverso la durata del suo farsi. Perché lo spazio di McCarey, qui come in altre opere, è l’istante, quello che permette a una commedia di tramutarsi in tragedia (e viceversa), quello in cui guardiamo lo sguardo degli stessi spettatori, e quello in cui sono anche gli stessi attori a guardarsi nell’attimo del recitare. Anche per questo Michel (o Nickie) e Terry – ma potremmo Irene e Charles come Cary e Deborah – esistono unicamente in rapporto con l’altro, esistono nelle interazioni con l’altro, ascoltano e si rendono partecipi dell’esperienza altrui. Così l’improvvisazione di Love Affair diventa perfezione in An Affair to Remember, restandone però una riflessione distorcente, una specchiatura unica che non coinvolge solo le inquadrature o le ellissi che sostengono la scrittura del film, ma tutto il senso di una carriera unica dietro la macchina da presa. L’ordine e il disordine, i valori e l’anarchia, l’improvvisazione e poi, appunto, la perfezione: l’esperienza del cinema di McCarey resta racchiusa nei gesti che lo riportano improvvisamente al muto, nei momenti che lacerano il tessuto filmico per rivelarne una profondità altrimenti sconosciuta, nel lavoro profondissimo di esistenza che si apre alla vita, nel tentativo continuo di filmare vite nel loro esercizio anche più semplice come tentativo di comprensione e di conoscenza. Un lavoro che parte dal periodo burlesque per risolversi in una filmografia più tarda e mai troppo compresa, un percorso che qui viene condensato attraverso due (o quattro, o infinite) anime che attraversano orizzontali il fotogramma pittorico lottando contro il destino, l’intolleranza e la convenzione. Tutto questo va molto oltre al genio inventivo di McCarey, coglie la sua attenzione e sensibilità nel comprendere gli esseri umani e i loro comportamenti, anime costrette a convivere con la loro fragilità e sempre a contatto con il fato (spesso costrette a combattere con le prime per tentare poi di trovarsi di fronte al secondo). Anime forse non troppo dissimili da quella del proprio padre sul grande schermo, un cineasta unico e ora più che mai irripetibile; spesso ignorato e ancor di più incompreso anche davanti ad un’operazione di un coraggio disarmante come questa. Non potremo mai sapere se questo film (uno dei due o entrambi, poco cambia) sia stato la storia d’amore più bella mai vista al cinema, ma senza dubbio rimane una storia unica di come il cinema possa guardare l’amore e di come, con quello stesso amore, si possa guardare il cinema. Un altro triangolo, un altro cortocircuito infinito. Quello che resta è il lieto fine, anche se a tutto ciò la parola fine non sarebbe lecito aggiungerla.
Erik Negro