Pensavamo che il confine fra Texas e Louisiana fosse una mera linea sulla mappa degli Stati Uniti, fosse solo un tracciato politico all’interno di una repubblica confederata, e non certo un muro invalicabile di etica e umanità. Roberto Minervini, regista nativo di Fano ormai stabilmente inserito nel cinema indipendente statunitense, ci aveva del resto abituati molto bene, forse troppo, con la sua meravigliosa trilogia texana, nella quale era riuscito a portare sullo schermo, in un’originale quanto efficace commistione fra documentario e finzione, tutto il vitale e straziante atlante sentimentale di un’America rurale e primigenia. Non c’era distanza, nei film di Minervini, non c’erano imposizioni registiche di alcun tipo, c’era solo il convivere con le persone, entrare in confidenza, permettere loro di esprimersi ignorando la presenza della macchina da presa. Si parlava di crescere nonostante una società a volte oppressiva, si parlava di religione, si parlava di valori e di idee -giuste o sbagliate che fossero-, senza mai un giudizio né una parola fuori posto. Si parlava di famiglia, tradizioni, futuro, con il rodeo come atto d’eroismo e le armi parte integrante e fondante di una società forse western, forse bigotta, forse arretrata, ma profondamente sincera, viva, pulsante. Prima con The Passage, poi con Low Tide e in ultimo con il sublime Stop The Pounding Heart, Minervini lasciava che le persone si raccontassero da sole e che la loro storia diventasse, fra le loro vite e un canovaccio meno scritto possibile, paradigma di una parte d’America forte e radicata. Con uno stile fotografico e registico via via sempre più impeccabile, la documentaristica d’autore era riuscita ad arricchirsi di uno sguardo puro, emotivo, catartico. Uno sguardo che abbiamo ritenuto, e continuiamo a ritenere per quanto riguarda la trilogia, necessario. E che mai avremmo pensato, con un semplice spostamento in The other side, quella Louisiana confinante con il Texas così squisitamente rappresentato in precedenza, che potesse passare così rapidamente e drammaticamente dall’altra parte della barricata, rivelando un cinema che al contrario rinuncia a tutta la sua profondità per rivelarsi insincero, falso, ipocrita, giudicante, eticamente offensivo. Inaccettabile.
Mark e Lisa, protagonisti di questo nuovo lavoro, fanno parte di quel 60% di Louisiana disoccupato, tossicodipendente e in difficoltà. Ma l’approccio di Minervini è ben lontano da quell’aggraziata umanità che permeava i lavori precedenti: con l’indiscutibile avanzare delle capacità tecniche (gira obiettivamente sempre meglio) e la profusione di meritati premi e congratulazioni, il regista marchigiano sembra essersi montato la testa, sembra quasi sentirsi superiore in base a un qualche ipotetico diritto terreno o divino, sembra svuotare del tutto la sua profondità di sguardo e la sua capacità di porsi sullo stesso piano dei propri protagonisti, condividendo con loro gioie, dolori, crescita. Passando, cinematograficamente parlando, dal nostro amatissimo Alberto Grifi al nostro odiatissimo Ulrich Seidl. Minervini, in Louisiana – The Other Side, mette da parte condivisione e partecipazione per dirigere il film da una sorta di insopportabile palchetto sopraelevato, dal quale guarda e quasi si compiace della marcescenza dei propri disgustosi personaggi senza minimamente intervenire per salvarli o aiutarli, dando vita a quello che si rivela, in sostanza, un film pornografico, ben al di là dei centimetri di pelle scoperta e delle ripetute scene di sesso. Mark e Lisa pensano solo a drogarsi, vagare nudi e accoppiarsi selvaggiamente, creando sì un nuovo spaccato dell’America, ma stavolta disumano, insincero, cinico. E soprattutto Roberto Minervini si sente superiore e li giudica, sembra quasi godere dei loro mali e della loro vacuità, li mette in scena anziché lasciarli andare e si compiace del risultato, mettendo da parte le loro vite e pensando piuttosto alla cura fotografica, o al movimento di macchina elegante. The Other Side è un film troppo scritto e costruito, che anziché vivere con i propri personaggi con approccio documentaristico e umano li inquadra come animali allo zoo, sorridendo del loro progressivo avvicinarsi alla morte, guardandoli sfiorire, crogiolandosi nella loro putrescenza. E violando ben oltre il tollerabile la loro intimità. Mark e Lisa fumano crack, si bucano, scopano in continuazione senza minimamente porsi domande sul mondo intorno a loro che prescindano da una retorica squallida e xenofoba contro “il negro” Obama. Ci si sente a disagio a guardarli, ci si sente invasivi, ci si sente fuori posto, ci si sente voyeur luridi. E la mente torna inevitabilmente agli sconquassi emotivi di Sara in Stop The Pounding Heart, la pecora in spalla e le prime pulsioni sessuali: dov’è finito quel cuore, dove quella bontà d’animo, dove quel brav’uomo, prima ancora che bravo regista, che la inquadrava?
Lo sguardo mutato e annullato di Minervini sta tutto nelle donne incinte: in Stop The Pounding Heart, una donna in gravidanza si divertiva a giocare con il fucile, sparando alle bottiglie secondo tradizione texana. Era una sequenza forte, capace di contestualizzare e quasi nobilitare, sicuramente umanizzare, anche l’arma da fuoco dispensatrice di morte. In The Other Side Minervini mette in scena nuovamente una donna incinta, che però, a differenza delle tradizioni rurali, si inietta eroina per poi esibirsi sul palco di un night, fra vecchi bavosi ubriachi che le infilano banconote laddove non batte il sole e la totale noncuranza nei confronti del futuro e del bambino. Quella che era un’immagine forte diventa un’immagine fastidiosa, disgustosa, eticamente inaccettabile al pensiero che il regista fosse lì non solo a non intervenire, ma addirittura a cercare, con una drammatica freddezza, la luce migliore per accompagnare l’ago nella vena. L’opposto di Alberto Grifi, l’opposto di Anna, l’opposto di ciò con cui siamo cresciuti e che più amiamo su uno schermo, e che lo stesso Minervini ci aveva illuso fosse servito a qualcosa. Anche nelle sequenze che dovrebbero essere più cariche di emotività si respira un odore di finzione stantia, dalla proposta di matrimonio perfettamente in favore di camera, con quell’anello messo al dito esattamente dinanzi all’obiettivo, alla visita di Mark alla madre anziana e ormai moribonda. Sul finale, il film si sposta su una sorta di gruppo paramilitare che, in una profusione di magliette bagnate e fellatio eseguite con la maschera di Obama, continua la sua tensione ben più pornografica che umana. È un film che vuole provocare, anche a costo di azzerare la partecipazione, la veridicità, la funzione stessa del Cinema, ancestrale strumento di emozioni e riflessione. Vogliamo provare a sperare che si tratti di un incidente di percorso, vogliamo provare a sperare che Roberto Minervini tornerà a fare i suoi film profondamente umani e paradigmatici nel raccontare storia e crescita di una nazione. Ma temiamo che la nostra sia solo una mera illusione, perché qui il problema non è strutturale, non è linguistico. Il problema è puramente etico. Minervini in montaggio sceglie la frase fastidiosa al momento ‘giusto’, si addentra nell’apparenza piuttosto che nell’intimità, si bea delle disgrazie altrui giudicando i personaggi e tirandosene al contempo al di fuori, come mosso da un’aura di superiorità. Pensavamo che il confine fra Texas e Louisiana fosse una mera linea sulla mappa degli Stati Uniti, fosse solo un tracciato politico all’interno di una repubblica confederata, e non certo un muro invalicabile di etica e umanità. Ed è per questo che siamo così amaramente delusi, amareggiati, furibondi.
Marco Romagna