22 Maggio 2023 -

LOST COUNTRY (2023)
di Vladimir Perišić

Siamo in Serbia, è il 1996, un anno (all’interno di quel decennio) non qualsiasi; il giorno dopo le discusse elezioni nazionali il paese è quasi in subbuglio. Attraverso gli occhi e le emozioni dell’adolescente Stefan entriamo all’interno di uno spaccato di realtà comune di quei giorni, in quei luoghi. La madre Marklena spesso compare in tv, lavora negli uffici di comunicazione del presidente Milosevic; gli amici invece sono attivisti che scorrazzano per la città proprio a sottolineare l’assurdità di quel regime. Lui vive questo conflitto interno al conflitto esterno. Quando i coetanei mettono i crisi il suo sistema di valori familiari, anche lui inizia a porsi interrogativi sempre più profondi. Il processo di formazione del nostro protagonista procede a scatti, spesso simbiotico con il proprio periodo, a volte astratto nei suoi pensieri più intimi. Eppure, verrebbe da dire, in qualche modo si cresce. Per chi, come quelli della nostra generazione, è nato all’alba dell’ultimo decennio del secolo (e pure del millennio) precedente, le vicende dell’allora Jugoslavia rappresentano forse il primo ricordo di conflitto vissuto in diretta; la contingenza degli scontri, il ponte di Mostar, le migliaia di sfollati, la tragedia di Sebrenica, addirittura le faide sportive interne (come non pensare al mondiale di basket) furono uno dei primi contatti con la criticità politica e sociale intrinseca del reale. Una percezione televisiva, radiofonica, narrata ma mai realmente percepita con l’apparente limpidezza dello sguardo di Stefan davanti alla storia nel suo (dis)farsi.

Lost Country, opera seconda che Vladimir Perišić costruisce partendo da un’esperienza personale (sua madre per davvero lavorò negli uffici di Milosevic, anche se a piani più bassi di quelli rappresentati qui) e mette in mostra alla Semaine de la Critique di Cannes 2023, è un film pulsante, retto da un sottile simbolismo materico e diegetico nel sottolineare lo scorrere (come le derive) degli eventi. Le domande che si accendono nella mente di Stefan, inizialmente quasi refrattario a interpretare la realtà, rappresentano la coscienza di quella giovinezza, qualsiasi fosse la parte in causa. Le elezioni sono davvero andate così o qualcuno le ha truccate? Davvero esiste una brutalità della polizia verso la gente comune? Dove possono spingere quelle pulsioni del popolo in sommossa? Quello che emerge è una sorta di (auto)esame della colpa generazionale balcanica, incapace forse di definirsi realmente all’interno del dramma di una storia così complessa, urticante e probabilmente sbagliata. La rappresentazione appare come specchio di un’inquietudine sempre più urgente e provvisoriamente infinita (pensiamo all’oggi, spingendoci poco più a sud, con le recenti amministrative kosovare e i nuovi tumulti interni) nelle sue radici secolari, fra un presente incerto e un futuro d’impossibile definizione. Proprio in quel contesto Stefan e tutti i suoi amici devono diventare grandi, confinati e quasi dilaniati da crescenti dilemmi etici e morali. Gli stessi che – in modi e tempi assai diversi, ampiamente imprecisati – abitavano Ordinary People (il primo lungometraggio di Perišić, presentato sempre alla Semaine nel 2009) in cui la guerra era stilizzata nella giornata di un ragazzo/soldato nel bel mezzo di un’estate, a confrontarsi con la propria anima divisa tra il dovere militare e ciò che si sente dentro.

L’apertura, affidata a una scena conviviale dai parenti di Stefan, è l’unica scena rasserenante di questo film. Il nonno pallanuotista olimpico jugoslavo, la madre serena a casa, il cane che gioca con loro. La tempesta è solo un’apparenza distante, fuori dalla finestra della casa di questa campagna agreste. D’ora in poi quel viso imbronciato del ragazzo (il non professionista Jovan Ginic, eccellente in questo suo esordio) sarà calato tra le storie della Storia, spesso nella propria solitudine definita da inquadrature chiuse e stratificate a sottolinearne una simbolica impossibilità d’uscita, di respiro; nemmeno l’abbozzo, la possibilità di un amore apparentemente può salvarlo da questo dilemma esistenziale (e forse politico) in cui inconsapevolmente si ritrova. «L’unica cosa certa è che il Presidente, per l’ennesima volta, è contro la mia volontà, tiene strette nelle sue mani le redini della mia vita […] La nostra volontà, il nostro sapere e i nostri diritti come esseri umani hanno un qualsiasi ruolo in ciò che ci accadrà?». Questo scriveva Dušan Veličković, grande autore serbo controcorrente mancato proprio pochi mesi fa, di quei giorni, di quel sentimento di volontà in potenza che il nostro Stefan rappresenta splendidamente. Al di là della sceneggiatura (co-scritta con Alice Winocour) è proprio la resa visiva – fotografica e autoriale – di questo progetto che riesce a calarci in quell’esperienza; immagini plastiche e morbide, luci tagliente e colori tenui, una pasta dell’immagine che ci restituisce la provvisorietà di fine secolo. L’isolamento di Stefan, anche all’interno dell’inquadratura, diventa man mano quello di coloro che lo guardano vagabondare all’interno di un ritratto della giovinezza cangiante ed espanso, vibrante nel montaggio e nell’uso delle musiche, minimale nella narrazione e nello scavo psicologico di chi lo attraversa. Eppure si cresce, direbbe il nostro tenero Stefan, com’è cresciuto in quei tempi e spazi lo stesso Perišić. Si cresce, se non altro per il desiderio di raccontarlo.

Erik Negro

“Lost Country” (2023)
Drama | France / Serbia / Croatia / Luxembourg
Regista Vladimir Perisic
Sceneggiatori Vladimir Perisic, Alice Winocour
Attori principali Jasna Djuricic, Boris Isakovic, Marija Skaricic
IMDb Rating N/A

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