LOS HIPERBÓREOS (2024), di Cristóbal León & Joaquín Cociña
Affondano ancora una volta le radici nelle spirali della Storia, i cileni Cristóbal León e Joaquín Cociña. Da una parte quella racchiusa nel cassetto oscuro dei rapporti molto peggio che ambigui fra il Cile e il nazismo, con cui già nel loro folgorante esordio La casa lobo i registi prendevano di petto e metaforizzavano l’eredità di estrema destra con cui loro Paese continua a non voler fare i conti, e dall’altra – forma e contenuto, forma è contenuto – la storia del cinema, dell’illusionismo in live action su schermo e delle possibili (e impossibili) tecniche di animazione, dei livelli metatestuali e del senso stesso dell’immagine in movimento. Per un film tanto apertamente (e quando necessario provocatoriamente) politico quanto straordinariamente audace e radicale nei suoi numerosi meta-livelli e nei suoi costanti mutamenti di forma, tanto profondo e stratificato nel suo studio della psicologia di una nazione quanto sorprendentemente vicino a Méliès nella purezza pionieristica e rigorosamente analogica dei suoi effetti speciali caserecci e solo apparentemente abbozzati. Un’infinita fucina di idee e di soluzioni artigianali quasi interamente in live action in cui però quasi tutto è animazione, filo che tira una quinta teatrale, trucco a vista, ombra cinese, marionetta, cartapesta, acquerello, lucido, scritta a video, personaggio in carne ed ossa che si sposta trascinato su un carrello invisibile, mascherino che cambia in diretta direttamente di fronte all’obiettivo, disegno alla lavagna da modificare dal vivo, volto sintetizzato su un computer, suono onomatopeico che appare scritto su un cartone, passo uno, arresto e sostituzione, bianco e nero, colore, digitale, CCTV, 8mm, videoludica. Artificio. Vera e propria ipnosi di chi guarda. Sospesa da qualche parte fra la cinefilia e l’orrore, fra la realtà e la finzione, fra il senso di meraviglia e il senso di colpa. È per questo che inizia con una spirale trasmessa su uno schermo televisivo, il duro e sofferto Los Hiperbóreos. Come se volesse introdurre sin da subito uno stato di trance collettiva, che da una parte è la potenza espressiva della settima arte, della magia di veder prendere vita a immagini ferme, della possibilità di poter fotografare oppure disegnare e poi lasciar muovere la propria idea, e dall’altra è quasi all’opposto il suo utilizzo per propaganda, per fare il lavaggio del cervello, per raccontare menzogne con cui portare i popoli dalla propria parte plasmandoli e in qualche modo riprogrammandoli su un’ideale sbagliato, e quindi la potenziale complicità del cinema e di chi lo fa nel mettersi proni al servizio di mostri per aiutarli a creare altri mostri, nell’affascinare e poi maliziosamente trasmettere messaggi che decostruiscono e riscrivono la Storia, nel ridurre progressivamente la libertà d’azione degli altri diventando a sua volta un’arte, se non proprio formalmente fascista, per lo meno virtualmente controversa, un’arma che finisce nelle mani del Potere anziché essere brandita per combatterlo. Tanto che i due registi non possono che meta-mettersi in gioco in prima persona, come orwelliani burattini di cartapesta che dirigono il film e forse anche qualcosa di molto più pericoloso e profondo, sempre più autoritari verso la loro attrice che li insulta, si pente della firma sul contratto e non capisce più che cosa le stiano facendo fare fino ai potenti disvelamenti, di trama ma soprattutto di senso, del doppio e magnifico colpo di scena finale.
Basta un claustrofobico teatro di posa ricolmo di quinte, di silhouette in cartoncino da muovere in primissimo piano, di elementi di scenografia su ruote e di pupazzi di ogni tipo, a Los Hiperbóreos. Basta (poco più che) una sola protagonista, l’attrice e (realmente) psicologa junghiana Antonia Giesen, che interpreta se stessa fra la carne e un döppleganger pupazzo in uno spazio meta-teatrale di dispositivi svelati e di immaginazione, di (ri)combinazioni e di movimenti a schiaffo, di fiori di carta e di neve che cade nel bianco. E poi basta inventare la storia di un film girato e poi scomparso, rubato dalla sua stessa produzione (o forse dall’ennesimo malgoverno di un Paese martoriato non solo dagli anni di Pinochet) prima che potesse uscire e ora ricostruibile solo a partire dalla memoria, a sua volta ispirato alla vita e agli scritti di Miguel Serrano fino al 2009 della sua morte figura forse più nota e pericolosa del (neo)nazismo e dell’hitlerismo esoterico cileno, scrittore, diplomatico, negatore seriale dell’Olocausto e suprematista pronto a rileggere tanto il folklore dei miti greci quanto la Bibbia alla ricerca di supposte metafore della preminenza ariana. Idee mistico-deliranti secondo le quali l’umanità, composta da sostanziali avatar degli dei e da razze impure da schiavizzare, sarebbe stata creata dagli Iperborei, uomini-divinità presenti nella tradizione letteraria già dal VI Secolo a.C. che la dottrina di Serrano rileggeva in unici depositari della purezza del sangue, e che León e Cociña rielaborano e portano ben oltre le più estreme conseguenze fra teste (di cartapesta, mosse parzialmente da fili o del tutto dalla stop motion) senza più il corpo e corpi perfettamente intercambiabili con pupazzi in due o tre dimensioni, pozzi-Sfinge senza fondo e quel regno sotterraneo in Antartide in cui ancora sarebbe (stato) vivo Adolf Hitler, telepatie mentali e metallari da trasformare in sceneggiatori, e poi ancora anime malvagie e pezzi di pellicola, pistole vere e morti false, trasferimenti di personalità e vecchie Betacam che diventano armi per l’una o per l’altra parte. Passando magari per genitori anziani/bambini a cui dover correre al capezzale, per una cabina telefonica dalla quale iniziare a smarrire la direzione, o per l’ordine improvviso di cambiare ruolo e storia – «Da questo momento sei una poliziotta» – e ritrovarsi così al servizio dell’ennesimo ministro (o magari regista) corrotto. Un viaggio allegorico e incubale fra i linguaggi (e le tecniche) del cinema e quelli dei fumetti, fra la Storia e il racconto, fra formati che cambiano e fascismi cileni che invece sono sempre (stati) uguali nella loro censura e nella loro tirannia, nel quale la figura di Miguel Serrano nient’altro è che il paradigma di un male ancora più profondo e forse ancora più inquietante: un male atavico, inestirpabile, comune, ancora inaffrontato dalla coscienza collettiva. Un male doloroso, e proprio per questo nascosto sotto il tappeto, a crescere e a rinnovarsi, anziché fronteggiato una volta per tutte per poterlo finalmente lasciare cicatrizzare. E poco importa, a questo punto, se forse non proprio tutto è allo stesso livello, nel film presentato in pompa magna dai due registi cileni nella Quinzaine des Cinéastes annessa al 77mo Festival di Cannes, con una (breve) parte centrale altrettanto densa nelle tematiche e nel profluvio di tecniche visive ma in definitiva meno coesa e non allo stesso sfavillante livello della costruzione iniziale e del crescendo dell’ultima sezione. Anzi, è assolutamente indispensabile che Los Hiperbóreos sia così frammentario e disorientante, che porti a smarrirsi e poi (filosoficamente e psicanaliticamente) a ritrovarsi, che faccia andare avanti di pari passo tanto un racconto necessariamente urticante quanto l’atto stesso della sua creazione. Che rompa con precisione scientifica ogni singolo schema precostituito, mescolando senza soluzione di continuità l’Espressionismo tedesco e lo stop motion, lo spazio scenico e lo spazio mentale, l’esistenzialismo di un intero popolo e la Storia travagliata di una nazione atrocemente collaborazionista e da sempre affascinata dalle svastiche. La potenza politica urticante, il coraggio sconfinato e il puro incantesimo di un’ora e poco più di grandissimo, travolgente, sconvolgente cinema.
Marco Romagna