THE AWFUL TRUTH – L’ORRIBILE VERITÀ (1937), di Leo McCarey

La leggenda vuole che sul set di The Awful Truth furono molteplici le problematiche di produzione tra il regista Leo McCarey e Cary Grant, poiché, a quanto pare, l’attore aveva problemi con lo stile improvvisato dell’autore. È strano perché, a vedere il film, ciò ha in realtà portato a un equilibrio miracoloso tra eleganza e follia, tra forma e contenuto; la macchina da presa si muove con grande lucidità, senza sbagliare un colpo e seguendo con quadratura le azioni cambiando spesso registro senza mai perdere tatto, mentre sono gli attori, proprio Grant e la sua co-star Irene Dunn, a dare un’assoluta parvenza di naturalezza improvvisata. Si respira tra loro il sentimento di un amore imbarazzato e confuso, vivo ma indefinito, vuoto ma colmo, insomma, paradossale; ed è tutto composto da un gioco di sguardi costante, che costruisce impercettibilmente il legame indissolubile tra i due partecipanti del macro-gioco del sentimento e dell’amore in campo. È una commedia ‘nuziale’, uno dei sottogeneri preferiti da McCarey, e come in ogni film del genere che si rispetti, lo scopo del film è riunire i due coniugi sotto la stessa cupola matrimoniale dopo che qualcosa si è interrotto. Grant e la Dunn sin dall’inizio giocano a una partita universale e biunivoca, di scherzetti emotivi e relazioni che si spezzano e si ricompongono, e che dunque spezzano e ricompongono il corpo della relazione stessa. La Dunn interpreta una mogliettina con uno stuolo di spasimanti, e tra i vari divari famigliari che si susseguono smuovendo l’interno dell’organismo-film questi uomini entrano sempre più nell’acqua degli affluenti del fiume narrativo, creandosi i loro blocchi, i loro rapporti con la donna, il loro rapporto con la storia, McGuffin cadavericamente parodistici. Perché alla fine l’unica cosa che importa è l’incontro, la collisione, il pre-, il post- e il durante del rapporto tra Lui e Lei. Il re-innamoramento è la migliore versione manifestabile della rinascita dopo la morte, della resurrezione. Attraverso l’«amor vincit omnia», la storia cosmologica ed eterna di una coppia, di un’«orribile verità» come dice il titolo, si mischia con se stessa su vari piani, onnicomprensiva come Aurora di Murnau. Novelli Adamo ed Eva statunitensi, Grant e la Dunn si inseguono per i corridoi di casa all’inizio, in situazioni sempre più disparate e private più in avanti e, nel maestoso finale, tra due stanze collegate da una porta che cigola con imbarazzo. Cani e gatti si inseriscono nella trama proprio come nelle comiche con Davidson, con Chase o con l’Harold Lloyd di The Milky Way, e nella sublime conclusione, la sperata riunione appare in scena con ritmi simbolici, come una danza all’interno di un orologio un po’ strano, e all’improvviso The Awful Truth diventa verbo fiabesco di un amore immortale e fuori dal tempo.

Nel presentare il film, Jean Douchet ha parlato a lungo della distinzione tra comico e commedia, e del fatto che McCarey è un autore che crea una simbiosi tra i due generi proprio a livello di passaggio storico tra muto e sonoro. Il comico delle comiche, in questa versione di Cary Grant così fluida e apparentemente improvvisata, diventa il comico della commedia, le regole drammaturgiche smettono di essere le regole della gag e diventano le regole di un incontro tra personalità brillanti, in un’idea di messinscena e di rappresentazione che deve avere un lieto fine. E la commedia, esplicita Douchet, in McCarey si basa sull’incontro tra doppi, e per doppi non intendiamo i doppelgänger di Lynch né gli sdoppiamenti narrativi della Veronica di Kieslowski o di alcuni film di Hong Sang-soo, bensì dei doppi interiori, impercettibili, dell’individuo universale: Cary Grant che ama e Cary Grant che non ama, Cary Grant che dice la verità e Cary Grant che mente, e Irene Dunn la stessa cosa. Alla fine la simbiosi umana e l’amore nascono dall’incontro tra queste necessità dei doppi, perché all’inizio i doppi sono sconnessi e lentamente si riconnettono perché le duplicazioni interiori riescono a combaciare, a incontrarsi, a trovarsi. La spontaneità magica delle conversazioni, dei dialoghi e della recitazione porta a dei meccanismi leggeri, che peraltro in alcuni momenti sono replicati esplicitamente nel suo successivo cortometraggio propagandistico Tom and Jerry (1955), che aiutano a creare un’atmosfera di grande naturalezza. L’impostazione registica di McCarey, che per questo film ha vinto l’Oscar alla regia (il primo delle tre statuette conquistate durante la sua carriera), ha un’eleganza nella messinscena che è unica, forse, all’interno dell’organismo della screwball; rispetto a Susanna o a A qualcuno piace caldo, L’orribile verità si allontana dai dogmi ma è a suo modo anch’esso un dogma. Non trattandosi di conquista ma di riconquista, si respira nelle immagini di McCarey la nostalgia, la melanconia, il bisogno di riconciliarsi col passato – un passato che rimane fuori campo, una nascita di un amore che non vediamo, anche se possiamo percepirne la resurrezione. Non c’è niente di spirituale (anche se il cristianesimo di McCarey, tra il cane riportato in vita di Part Time Wife, la “manifestazione” luminosa del figlio in My son John e il prete di e il prete di You can change the world, è spesso piuttosto evidente) ma rimane, anzi sopravvive nel finale, quello che Schrader chiamerebbe trascendenza del cinema: succede qualcosa di immateriale, e noi possiamo solo vederne le conseguenze materiali. E sta in questo la grande commedia di McCarey, nella possibilità di dare soluzioni visive quadrate per descrivere qualcosa che quadrato non è, ovvero l’emozione. E si ride, si ride tantissimo perché lo ‘slapstick’ permane con vitalità all’interno dell’immagine e anche fuori da essa, contaminando infantile e adulto in maniera che quasi sembra teorizzare che l’adulto è un’illusione, che lo spettatore e il personaggio della screwball sono in simbiosi nel recupero dell’innocenza, del divertimento. E allora quello che importa diventa solo e soltanto l’esperienza, la commozione, il diletto.

Nicola Settis