Loro 2. Loro due. Due Silvio. Due Servillo. Due Veronica. E poi Silvio e Veronica, Servillo ed Elena Sofia Ricci, Servillo e Scamarcio, Silvio e Sergio Morra, Sergio Morra e Giampaolo Tarantini, Silvio e Paolo Spagnolo, Silvio e Dio. Senza dimenticare Silvio e la Veronica del passato, Veronica e i “doppi” di Veronica che si susseguono, Silvio e l’Italia, Milano e Milano 2, e forse soprattutto Silvio e Paolo Sorrentino. Ma anche Loro 2, i recensori Nicola e Marco, perché si sdoppia il film, cresce esponenzialmente, diventa oggetto ancor più difficile da maneggiare, e si sdoppiano di conseguenza anche gli occhi e le mani al lavoro sulla materia di scrittura. Con il completarsi del nuovo (doppio) film di Paolo Sorrentino, il cacofonico Loro 1 della prima parte finisce per acquisire una seconda dimensione, per acquistare quelle stratificazioni che, con i titoli scelti originariamente, Loro e Lui, sarebbero state impossibili. Già dal titolo, infatti, Loro 2 esplicita tutte le doppiezze del film, portando a conclusione quegli svariati confronti che la prima parte del dittico solamente suggeriva attraverso la ripetizione ossessiva del τόπος visivo della figura umana che svanisce dalla propria riflessione specchiata. Si sdoppiano i Berlusconi, perché da una parte c’è la maschera grottesca autoimposta e plastica, scudo di sorrisi forzati e insinceri verso le intemperie del mondo, e dall’altra c’è il vero campo di ricerca del film, l’interiorità di Silvio, la sua psicologia del vincente di fronte al quale si spalanca il baratro della sconfitta, del crepuscolo, dello sguardo (ormai) spento che si intravvede tra le fessure delle palpebre socchiuse attraverso i vetri e gli specchi, e si sdoppiano pure i Servillo, a partire dallo spiazzante campo-controcampo che irrompe poco dopo l’inizio del film nel quale Silvio si ritrova vis à vis con Ennio Doris, fondatore di Mediolanum presentato come un leccaculo paradossale, che gli suggerirà come tornare il venditore («di sogni») di un tempo per comprarsi i senatori in uscita dalla maggioranza di centrosinistra causando la crisi e non fiducia che a inizio 2008 sarà fatale al secondo governo Prodi. In questo marasma di doppiezze, Silvio si confronta con Veronica, creando una dinamica di coppia e quindi un nuovo doppio che naturalmente diventa anche un rapporto attoriale. Silvio Berlusconi si sdoppia poi con Sergio Morra, la sua versione minimizzata, il pesce piccolo che ha puntato sul cavallo vincente appena questi ha cominciato a perdere, si sdoppia con Paolo Spagnolo, il suo misterioso lacché/biografo, (ch)e si sdoppia con Dio, il potere oscuro, imperscrutabile, mafioso e massonico. Si riflette negli occhi della Veronica del passato, nei suoi «Silvio, mi sono innamorata di te», e cerca di sostituire l’amore perduto e la sensualità sbarazzina di quella Veronica con quella di altre donne, altre Veroniche che si riflettano in Veronica e altri corpi che si connettono a Silvio, da Violetta Saba a Kira, fino a Stella e alle ruote del suo trolley che, alzando la polvere della sconfitta, rotolano via da Villa Certosa. Silvio Berlusconi si riflette nel paese che ha diretto per anni, si confronta con il sogno di diventare Presidente della Repubblica e con le occhiate severe e imperturbabili di Giorgio Napolitano, e si ritrova, solo in un malinconico e breve flashback, a confrontarsi con la sua città, Milano, sempre sospesa a metà strada tra i miracoli neorealisti di De Sica e il metacinema randomico dell’Happy Family di Salvatores. Una città simboleggiata dall’immagine fissa e immobile del Duomo, un’immagine finta, un fondale, un promemoria simbolico non solo delle origini (la città non è mai nominata, fatta eccezione per Milano 2), ma anche dell’incidente del modellino del Duomo buttato in faccia a Berlusconi da Massimo Tartaglia nel 2009, evento chiave su cui Sorrentino, così come sulla figura di Ruby Rubacuori, ha intelligentemente glissato. Già, perché non bisogna dimenticare Paolo Sorrentino, regista sempre fuori campo eppure sostanziale protagonista, perché anche lui continua a specchiarsi in Berlusconi, a dare al suo Silvio/Servillo capacità smaccatamente metacinematografiche, e dunque a se stesso la potenzialità di regnare sul subconscio generalizzato di un paese fatto tutto di messinscena, di fondali, di finzione. Di menzogna raccontata bene, magari messa in scena con l’estetica pop dell’impero televisivo berlusconiano.
Al di là dello stimolante titolo di questo secondo e ultimo capitolo, però, di fronte al dittico Loro finalmente concluso non si capisce più quale sia la reale ragione – e utilità – della sua divisione in due parti. Per quanto siano due film effettivamente differenti per stile e per coerenza, per cadute (o meno) nel pacchiano e per arguzia di scrittura, il discorso umano, politico e metacinematografico di Sorrentino viene portato avanti come lo si porterebbe avanti in un film unico, e le complessive quattro ore paventate prima che Loro venisse concluso e consegnato alle sale si sono rivelate in realtà poco più di tre, quindi una durata in linea con, per dire, un solo atto di Novecento. Di fronte al gran rifiuto di Cannes e al rischio flop in sala al quale andrà quasi inevitabilmente incontro Loro 2 dopo le reazioni non entusiastiche – e spesso superficiali e ingenerose – nei confronti di un lungo prologo interessante quanto poco capito (e qua e là, va detto, effettivamente discutibile nel gusto e in alcune scelte di messa in scena, coerenti sì con la destrutturazione linguistica che Sorrentino vuole portare avanti ma anche a volte smaccatamente fastidiose) come Loro 1, viene anzi da pensare che questa scelta produttiva e distributiva potrebbe forse portare al film e al suo autore più effetti controproducenti che vantaggi. La scansione in due distinti prodotti consente sì durate più accessibili, ma obbliga a uno sviluppo e a conclusioni giocoforza parziali, che spezzano il flusso e il ritmo del film rischiando di disperderne agli occhi di chi lo guarda parte dell’efficacia e delle stratificazioni. Se Loro fosse uscito come prodotto unico, probabilmente, sarebbero state ben meno acri e denigratorie le critiche alla sua prima parte, e più in generale sarebbe stata maggiore la sua visibilità e sarebbe stato ancora più chiaro e preciso il senso del suo lavoro, con un (a questo punto magnifico) cambio di tono centrale a impreziosire un lungo e articolato film nel quale si rincorrono stili e intuizioni anche opposte. Del resto, Sorrentino è autore divisivo, spesso amato o odiato senza i necessari equilibri, spesso autoreferenziale e di un gusto che di certo non ha paura di procedere sui sentieri del kitsch. Le sue sospensioni possono infastidire, la sua tensione al vuoto può essere letta come vuoto nelle tematiche da affrontare, le sue metafore possono essere a volte viste come ineleganti o didascaliche, ma, ben al di là dei giudizi di merito, la sua autorialità non può essere messa in discussione. Paolo Sorrentino è autore puro, vero, pienamente riconoscibile, importante anche quando (come in This must be the place) sbaglia tutto o quasi, e di fronte al quale sono sempre infinite, che il film “piaccia” o meno, le riflessioni che la sua opera suscita. Massimalista, postmoderno, radicale nelle sue iperboli, nel suo procedere per accumulo (di personaggi, di tematiche, di eventi, di immagini) e nelle sue scelte stilistiche, Sorrentino si interroga sempre, grossomodo, sulle stesse tematiche e sulle stesse tipologie di esseri umani, rendendo progressivamente più complessi e stratificati i concetti che da sempre imperniano la sua opera di doppiezze e potere, di maschere e di emozioni, brucianti eppure trattenute anche nel più smaccato overacting. Sin dal principio della carriera, parallelamente al suo sodalizio fotografico con Bigazzi e alle loro variazioni sul tema della sua “stylo-cam” più o meno mobile ma sempre profondamente barocca, Sorrentino ha deciso di applicare sempre le stesse ossessioni psicologiche, lo stesso approfondimento sentimentale e lo stesso trattamento sul filo del rasoio della moralità a personaggi profondamente diversi, come ‘ricreandosi’ (o, perlomeno, ricreando delle riconoscibili contraddizioni umane) all’interno di qualsiasi suo protagonista, sia esso un Papa fittizio, un Andreotti, un Jep Gambardella, un Fred Ballinger o un Silvio Berlusconi. Ma anche un Bondi/Formigoni, un Eugenio Scalfari, una proiezione di Robert Smith di fronte al reale David Byrne, un (già doppio) Antonio Pisapia ulteriormente sdoppiato su carta nei racconti in prima persona di Tony Pagoda, oppure il peggiore immobilismo autoreferenziale, al contempo retrivo e radical chic, della più arroccata borghesia romana. Cambiano le caratterizzazioni, cambiano i contesti, cambiano le ambientazioni, ma il cinema di Paolo Sorrentino è sempre La grande bellezza. È sempre lo stesso il sottobosco umano decadente, e sempre in quello il regista e scrittore campano ogni volta torna ad aggirarsi, aggiungendo progressive stratificazioni, rendendo sempre più complessi e contraddittori i concetti e i personaggi, lavorando in maniera sempre più radicale sul linguaggio e sulla messa in scena.
Nella sequenza d’apertura, Loro 2 mostra Tamara/Euridice Axen intenta a depilarsi l’inguine a bordo piscina. Si parte da un’immagine laterale e non esplicita, ma pur sempre vaginale, simbolo di nuova rinascita, ma in questa nuova (non-)Origine del mondo la protagonista (negata) è la vulva di una donna che, si verrà a scoprire poco dopo, ha appena abortito, già annunciando la tematica del decadimento naturale. Dopo il fallimento umano comportato dall’orgiastico sacrificio di Loro 1 si ricomincia, e si ricomincia da Lui che è solo, o meglio da quel Loro 2 che (ne) è lo sdoppiamento. Tutto questo è ben presto evidenziato in una sequenza estremamente dialogata, una telefonata a un numero preso a caso da un elenco telefonico con cui Silvio, spacciandosi sotto falso nome per il sostanziale imprenditore edile di un tempo, vuole ritornare ai fasti del suo passato da venditore e costruttore, essere umano solitario ma con uno scopo, capace di mentire e di risultare plausibile tra faccia di bronzo, frasi altrui spacciate per proprie e false citazioni. Ha bisogno di (ri)scoprirsi convincente, di (ri)trovare la sua verve di un tempo, di (ri)conquistare quell’autostima che la crisi personale con Veronica e politica con quei 25mila voti per i quali ha perso Palazzo Chigi gli stanno facendo vacillare. Berlusconi indossa così la maschera, si tramuta di nuovo in animale sociale grottesco, come in uno scatto d’ira che lo caratterizza ma al contempo lo deteriora nella voce camuffata che lo spersonalizza. C’è un preciso momento nel quale Sorrentino mette in bocca a Servillo le parole «Io conosco il copione della vita», identificando quindi nuovamente il potere in una questione di messinscena cinematografica o, ancor meglio, di «un’intera vita di messinscena» con cui si crea il confronto tra il regista partenopeo e l’imprenditore più controverso e invadente degli ultimi trent’anni di politica italiana, esplicitando in un certo senso quelle riflessioni autobiografiche e metacinematografiche di identificazione di Sorrentino in Berlusconi che già era possibile leggere, in ultima analisi, fra le righe visive e metaforiche della prima parte. Dopo questo momento, l’interlocutrice di Berlusconi lo accusa di essere un imbroglione, ma Silvio non si fa abbattere da queste cose, LUI non si offende (quasi) mai. Dopo un breve istante di silenzio con lo sguardo perso nel lusso della sua villa, il venditore di bugie preso in castagna re-indossa la maschera e con lei si rinforza, ripartendo come se nulla fosse nella sua opera di convincimento, nella sua parlata fluida e quasi epica, nel suo «vendere sogni» (o fuffa, che poi è la stessa cosa) come suggerito a tavola da Ennio Doris. Il che è tragico, pagliaccesco, patetico, ma allo stesso tempo funziona, sblocca la staticità del corpo e del dialogo, riporta LUI, Silvio Berlusconi, a essere il frontman direttamente sotto i riflettori della vita, del commercio e della politica. Così l’immagine, sia essa pubblica, privata, televisiva o cinematografica, si confonde e sfuma nella maschera, ed entrambe si influenzano e dialogano con l’interiorità più impenetrabile, quella che crea i conflitti esterni nelle relazioni umane così come nelle relazioni di tipo politico. Alla fine il vero macrotema di Loro pare essere il fallimento, la sconfitta dell’uomo, la rovina. Le macerie, per la precisione, quelle che stanno nel senso figurativo dell’implosione plastica dell’Ego/Silvio e della destrutturazione programmatica dei suoi rapporti umani, con Veronica che scompare da una parte e la vita di Morra/Tarantini che va in scatafascio dall’altra, così come quelle fisiche, reali, le macerie dell’Italia, le case distrutte dal terremoto all’Aquila, simbolo di un qualcosa che ha avuto un contatto con Silvio Berlusconi, e che nemmeno Silvio Berlusconi all’apice del suo potere e dei suoi deliri di onnipotenza ha potuto controllare. In tutto ciò, Loro 2 si pone come un film molto più compatto e quadrato rispetto al predecessore, più dinamico del primo capitolo nei movimenti di macchina ma attento, a differenza della sua prima parte, a non eccedere nell’ambito del pacchiano videoclipparo a cui Sorrentino è tanto legato, e che è un aspetto tanto interessante quanto spesso fallimentare del suo cinema. Ed è un film nel quale torna finalmente al centro la scrittura di Paolo Sorrentino, estremamente dialogato, con un’esposizione del contenuto di stampo politico talmente verbalizzata ed esplicita da essere (necessariamente) didattica, (necessariamente) banale come banale è (stata) la retorica populista berlusconiana, mentre tutt’altro che banali e didattiche sono le riflessioni, le caratterizzazioni, le psicologie. È probabilmente il miglior Sorrentino dai tempi de Il divo, che scioglie parte (non proprio tutte) delle riserve sul pur già interessante primo capitolo del dittico immergendo in un senso ben più focalizzato l’intero progetto, che ridiscute il suo stile rendendolo di nuovo funzionale a un discorso (meta)cinematografico, umano e (auto)biografico e non più l’orpello troppo spesso kitsch e autoreferenziale che stava rischiando di diventare, che ragiona con compiutezza su ogni aspetto di verità e finzione intorno all’uomo e all’immagine. Tornando dopo un percorso ondivago fatto di alti e bassi al, se non proprio grandissimo, grande film.
Loro 2 è un’aperta parodia che però non smette mai di sottolineare l’aspetto melodrammatico nelle relazioni, siano sentimentali come quella tragica tra Silvio e Veronica o più superficiali come quella tra Silvio e la senatrice Cupa, una Santanchè particolarmente viscida e ipocrita che Berlusconi osserva attraverso lo schermo televisivo con uno sguardo che urla «tu quoque Brute». Silvio Berlusconi, prima di tutto, è un insondabile mistero, è colui che anche di fronte alla moglie, così come di fronte ai giudici, quando viene messo con le spalle al muro si rifugia nel «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», ed è un uomo così smaccatamente immagine, e quindi falso in ogni sua parola e in ogni sua azione, che per cercare di sondarne l’animo non si può che «procedere per tentativi», come lo stesso Sorrentino dichiara nelle note di regia. Uscendo per un attimo dal flusso narrativo del/dei film e dai discorsi sull’effettivo senso o meno della sua/Loro divisione, sfiora il geniale la gestione oculata e profondamente metalinguistica del montaggio dei trailer delle due parti di Loro. Il trailer di Loro 2 presenta un ri-montaggio, sostanzialmente anticronologico e unicamente impostato sull’aspetto umanistico dell’analisi, di alcune scene che presentano solo Silvio e Veronica, creando giochi di sguardi che nel film sono inesistenti. Ma è ancora più interessante il trailer di Loro 1, che presenta un ri-montaggio di una scena che in realtà è in Loro 2, nella quale cui Berlusconi canta Malafemmena ai suoi ospiti accompagnato dalla chitarra di Mariano Apicella. Nel trailer, Silvio è mostrato da lontano, nell’aura di mistero che avvolge il personaggio anche nel film stesso per più di un’ora, e ci si concentra sugli ospiti, su “loro”, su “quelli che contano”, su “quelli che guardano”. In Loro 2/Lui la scena è montata invece con la concentrazione unicamente attorno a Silvio, ai suoi sguardi ancora innamorati verso Veronica, al mistero attorno alla sua maschera, al sorriso, alla doppiezza metafilmica dell’azione del cantare in napoletano. È un campo-controcampo estremamente emotivo, con cui Sorrentino quasi invita lo spettatore a guardare oltre la facciata, oltre la maschera, cercando il Silvio Berlusconi uomo. Che rimane un arcano, e dunque un’umanizzazione solo parziale, probabilmente impossibile da completare. Silvio è uomo misero e miserabile, ma questo conta qualcosa di fronte alle sue malefatte, ai suoi crimini, al suo ruolo sostanziale e grottesco nell’assetto politico italiano odierno e del passato? Forse ci svela molto, riguardo a tutto questo, il rapporto che si crea tra Silvio e Stella, la Alice Pagani che ‘spiccava’ per purezza (e bellezza) tra le ragazze/prostitute di Loro 1: c’è un rapporto quasi padre-figlia, ma molesto e oscuro, pieno di non-detti, di gentilezza e di infantilismo, di correzioni, di corruzioni, di imprecisioni, di confusioni, di ruoli di potere che si scambiano. Il dialogo con lei, figura chiave che si concede a Dio ma rifiuta Silvio Berlusconi, lo ossessiona perché gli ricorda che non è vero quello che ha detto a Santino Recchia, ministro a metà tra il Bondi delle poesie idiote e il Formigoni delle camicie «da frocio» e del tentativo di scalata al centrodestra, ovvero che «Io sono giovane, tu sei vecchio». Anche Berlusconi è vecchio, indossa una dentiera, ed è l’odore della sua pasta, quell’odore «né maleodorante né profumato che mi ricorda mio nonno» l’umiliazione più grande per chi si crede eterno, indistruttibile, sempiterno adone. La maschera cade, si rivela il deterioramento del corpo che sconfigge tutte le insicurezze sulla statura, si accetta la parabola che porta a diventare esseri fallimentari. Stella, con il suo “due di picche” a chi si crede onnipotente e intoccabile anche dal tempo, è la facciata definitiva, è il crollo dell’autostima, è il momento in cui anche il seduttore multimiliardario si vede costretto ad ammettere la fine della sua epopea. Non c’è malizia o volontà di offendere, nella frase di Stella, non c’è alcuna cattiveria. C’è solo la sincerità, la verità sbattuta in faccia a chi ha vissuto una vita di bugie. E non basterà il solito sorriso falso e la rassicurazione di non essersi offeso per dissimulare il profondo sconvolgimento di Silvio Berlusconi di fronte a un’insuccesso forse mai vissuto, forse mai sperimentato, ma ora tangibile, quasi corporale nel corpo che si allontana per sempre all’orizzonte. Non basterà fare finta di nulla per dissimulare il suo terremoto emotivo, il suo crollo umano.
Già, il terremoto. Perché tutto si può riconnettere in fondo a un’allegoria di tipo edile: la vendita della casa come vendita di se stessi, della propria immagine, del virtuosismo berlusconiano; la casa-villa sarda come dimora del vuoto compulsivo di Berlusconi; il Duomo di Milano come edificio per simboleggiare un’epoca e una collocazione spaziale importantissima; e infine le case dell’Aquila squarciate dal terremoto, che cadendo creano uno squarcio nel film, annullandone in maniera totale l’umorismo e segnando un decadimento totale, una botta irrecuperabile. E proprio nella scena del sisma, ricreata necessariamente e vistosamente in CGI, si sente tutto il bisogno del finto di Sorrentino. Si può pensare, e forse non è un paragone troppo slanciato, all’uso che faceva Fellini dei set di Cinecittà, con l’irreale più lapalissiano che spesso si palesava nelle macrostrutture geografiche dell’impostazione di una scena, a partire dal mare nero pece del Casanova e di Amarcord ricostruito con bidoni della spazzatura vuoti e attaccati tra di loro, mossi dal vento. Sorrentino, che Fellini lo ama e lo cita in maniera talmente dichiarata che è davvero ormai inutile parlarne, sfrutta le potenzialità dei mezzi moderni per ricreare lo stesso tipo di messinscena del reale. L’effetto speciale sottolinea l’aspetto del «tutto documentato, tutto arbitrario» che regna nelle didascalie iniziali di entrambi i film, e del resto, in un dittico sulla maschera e sull’immagine, non avrebbe avuto alcun senso presentare i fatti tragici dell’Aquila attraverso le immagini reali dei telegiornali o attraverso il realismo: per essere coerenti con il progetto Loro, con il suo senso e con la teoria linguistica alla sua base tutto deve essere finto, ricostruito, appunto «arbitrario», secondo volontà del regista/deus ex machina. Così come è necessariamente finto, ma questa volta irresistibilmente spassoso, il trailer dell’improbabile fiction Congo Diana con tanto di grafiche del “prossimamente” Mediaset in alto a sinistra; così come è necessariamente finto e ricostruito, ma questa volta ribaltato nella danza provocante delle olgettine, il video di Meno male che Silvio c’è, forse il punto più basso e inconsapevolmente ridicolo dell’epopea berlusconiana che in Loro 2 ritorna come l’antipasto della festa, come la preparazione per fare colpo su LUI, come la via più breve per giungere a quel mondo altrettanto finto, ipocrita, cangiante e raccomandato che è il “suo” cinema di consumo Medusa. Un mondo spezzettato, che trova specularità nella frammentazione estrema dell’unico split screen che irrompe sullo schermo, e non è certo un caso che il volto scelto da Sorrentino come ponte fra Berlusconi e la Medusa sia quello di Max Tortora, sostanziale sostituto di Christian De Sica dal momento stesso della rottura della storica coppia-cinepanettone con Massimo Boldi, che a sorpresa – notizia proprio di oggi – tornerà insieme questo Natale. Nell’adeguarsi all’estetica del linguaggio berlusconiano senza però mai adagiarsi sulla sua ripetitività, Paolo Sorrentino la destruttura, scava nel suo profondo, la ricostruisce esplicita nella sua finzione, proprio come ricostruisce come esplicita finzione il terremoto de L’Aquila. È una ricostruzione mai volgare e sempre assolutamente rispettosa e silenziosa nei confronti dell’evento, che pur nella sua natura di palese ricostruzione crea comunque una sospensione, riporta alla realtà pur esplicitando il distacco con essa. È una questione di estetica. E – come giustamente osservato dal nostro giovane amico pisano Leonardo Greco, per ora esterno a velleità critiche ma spettatore appassionato e intelligente, questa volta più che mai interlocutore illuminante che non possiamo non citare insieme al mattoncino con il quale, forse suo malgrado, si ritrova a partecipare al brain storming di questa lunga e speriamo accurata lettura –, l’estetica in Loro è spesso ricostruita a livello compositivo da Paolo Spagnolo, l’inquietante personaggio interpretato da Dario Cantarelli, che segue Berlusconi ovunque vada e che nessuno sa davvero chi sia. Viene detto, in Loro 2, che il suo ruolo è creare pareti tra Berlusconi e le persone attorno a lui. E, alla fine, il suo ruolo compositivo è sempre quello di creare una profondità nell’inquadratura, di formarne una geografia, di porsi, insomma, come muro da cui partire per costruire un’immagine. Un’immagine che può essere quella filmata da Sorrentino e proiettata sullo schermo così come può essere un’immagine simbolica, allegoria e facciata del personaggio, di Silvio Berlusconi. Paolo Spagnolo, caratterizzato come un personaggio interessante perché talmente «asociale» da essere «l’unico a saper gestire le relazioni sociali», ha da una parte questioni interpretative complesse da sollevare incluso il suo probabile legame con il misterioso uomo che si fa chiamare Dio (del resto, chi è il vero Dio? Guido Bertolaso? Licio Gelli?), e dall’altra una sottotrama piuttosto inconsistente, che lo vede come antagonista di una sorta di Lele Mora che spunta ogni tanto quasi a irritare la superficie delle relazioni sociali del mondo di Silvio. Talmente inconsistente da renderlo ancora più misterioso, e quindi interessante.
Veronica dice a Silvio: «sei solo un bambino che ha paura della morte», e in questo semplice insulto è contenuta la più grande e profonda verità esistenziale di Loro, non solo applicabile all’uomo di potere ma anche, volendo, a ogni essere umano. Di fronte alla verità e alla disfatta, anche il corpo volgare può rivoltarsi dentro se stesso e partorire un’idea – come dice Nietzsche, «bisogna avere il caos in sé per generare una stella che danza», o, come dice il cinema, il Gerard Depardieu/Dominique Strauss-Kahn di Welcome to New York può comprendere la natura intellettuale e solitaria della condizione umana solo dopo il confronto diretto e fisico con la sconfitta e il proprio patetismo. Ormai inerte e demoralizzato dal proprio destino, Silvio Berlusconi tratta in maniera inspiegabilmente ingrata, proprio come nella realtà, anche Mike Bongiorno, invitandolo a casa propria e trattandolo con sufficienza dopo tutto l’apporto economico e l’influenza mediatica fornita con Mediaset, e dopo tutta la rivalutazione sociologica attuata da Umberto Eco nei confronti dei TV show a quiz di Mike in quanto principale riunificazione del linguaggio popolare italiano attraverso il medium televisivo. È un ultimo confronto vacuo, anch’esso misterioso, che dichiara un ultimo abbandono a se stessi, un ultimo abbandono a qualcos’altro di buono che non si è capito. Il bambino che ha paura della morte si allontana dall’odio, dalla gratitudine, dal perdono e dall’amore, da Kira e da Veronica, da Violetta Saba e da Sergio Morra, dalla propria virtù n.1: quella di essere ancora, per qualche motivo, capace di far innamorare, come un eroe ‘noir’ comparso a ciel sereno. Una capacità relazionale che il Berlusca ha attuato anche nel campo politico, e che ora pare dissolta negli anni passati e negli inganni scoperti, nel fare i conti con l’amaro sapore della sconfitta, dal calciatore di colore che rifiuta il Milan in Loro 1 perché «tutto non è abbastanza» a Stella che rifiuta la corte del (non più inguaribile) puttaniere in Loro 2. Toni Servillo incarna un Berlusconi straordinario, crepuscolare, fatto di silenzi e di sguardi a mezz’asta, di accenti fasulli e di caduta degli inganni, mentre Paolo Sorrentino spesso taglia le sequenze all’apice, sui momenti più importanti, come a ulteriore riprova che non conta la S/storia, non conta la realtà, ma contano solo i personaggi, le loro psicologie, le loro reazioni, il loro fare parte del mondo berlusconiano. Perché in Italia, volenti o nolenti, siamo tutti berlusconiani. Chiunque abbia vissuto a qualsiasi età, vicino o lontano, interessato o meno, ascesa e declino della Seconda Repubblica è inevitabilmente berlusconiano. Che lo si ami o che lo si odi – anche visceralmente –, Silvio Berlusconi è stato il perno centrale di vent’anni di Storia italiana, e non solo per la svendita della cultura perpetrata dai suoi canali e dalle sue politiche (quando non riforme scolastiche, dalla Gelmini in giù). Condottiero o male assoluto, speranza o unico nemico, Berlusconi ha cristallizzato sulla sua persona due decadi di vita politica, o a favore o contro, e il più grande errore della Sinistra è stato probabilmente quello di identificarlo così apertamente come il pericoloso avversario, come il bersaglio, di dargli troppa importanza focalizzando contro di lui e contro il rischio di una sua (drammatica, ma tant’è…) rielezione ogni campagna elettorale. Il risultato è stato così il berlusconismo, il regalargli più volte un Paese da riplasmare a proprio piacimento fra leggi ad personam, mosse populiste pagate a prezzo salato da ogni cittadino, politiche economiche “creative” che hanno portato l’Italia sull’orlo del default economico. Ma Loro, intelligentemente, parla solo in maniera marginale di tutto questo, perché il punto è un altro, il punto non è l’uomo politico, ma semplicemente l’uomo, diventato LUI fondandosi anche sul più innegabile antiberlusconismo, perché pur sempre, anche se per negazione, berlusconismo. Quello stesso berlusconismo che porterà anche il senatore che gli vomita in faccia tutte le sue colpe, rifiutando inizialmente di passare dalla sua parte, a essere il suo ultimo e decisivo voto contro Prodi.
Silvio Berlusconi è (stato) un fenomeno nato dal culto della persona, dalla figura dell’uomo di successo, da una presenza fisica fatta di capelli trapiantati e continui ritocchi estetici, ed è stato il centro, la maschera, il LUI intorno al quale è stato impossibile non ruotare, intorno al quale anche la Storia non ha potuto fare a meno di ruotare. Ora, nella realtà come in Loro 2, la maschera ha ceduto, e Berlusconi si mostra per quello che è: un vecchio rincoglionito politicamente e umanamente finito, incapace di farsi da parte, incapace di arrendersi all’evidenza del suo declino. Ma forse, anche qui, la realtà è «arbitraria», e anche questa è solo una nuova maschera, questa volta patetica e vespertina, a suo modo tragica, sulla quale il cerone non riesce più a nascondere le rughe, i segni del tempo, la pelle che, intervento dopo intervento, finisce inevitabilmente per cadere. E con lei il potere, la centralità, LUI, non più in grado di tenere discorsi a braccio, non più in grado di sobillare le folle con le sue menzogne raccontate bene, non più in grado di caricare – fra bugie, false promesse e danni incalcolabili e irreparabili nascosti sotto il tappeto delle tette e dei culi di Canale5 – tutta la vita politica di un Paese sulla sua figura e sulle sue spalle, perché ormai la sua figura non esiste più, è inerme, è schienata, proprio come è inerme e schienato il Cristo di marmo estratto dalle macerie nel finale. È un Cristo imbragato e pronto a volare come in una sorta di versione decadente dell’incipit delLa dolce vita di Fellini, perché anche fra le macerie dell’Italia berlusconiana, specialmente ricordando il parallelo fra Berlusconi e l’artista Sorrentino, parrebbe essere rimasta per lo meno la speranza di qualche sparuto sprazzo d’arte da sostenere e salvare, ma quello estratto dai detriti di quella che era l’imponente facciata di una chiesa ormai ridotta a un cumulo informe di rimpianti è anche un Cristo di pietra, bloccato, immobile, impotente, proprio come il Silvio Berlusconi-uomo che Loro 2, molto più puntuale e acuto di Loro 1, mette in scena. Mentre i titoli di coda scorrono sui volti dei Vigili del Fuoco, quella parte d’Italia che si lancia fra le macerie e le fiamme proprio per scavare e salvare il salvabile, a Villa Certosa rimane solo la solitudine del ricco triste, e rimane quel ridicolo vulcano fatto costruire in giardino dal novello (ex) Napoleone d’onnipotenza, azionato con un pulsante da Silvio Berlusconi quasi come se fosse lui stesso, nel rimestare il sottosuolo, ad aver scatenato il terremoto con il quale ricrearsi una nuova maschera di eroe buono. È la maschera che indossa quando giunge dalla vecchietta aquilana che ha perso la dentiera, ennesima immagine necessariamente retorica di una vita fatta di becero populismo, immagini e comunicazione, è la maschera con la quale si pone ancora una volta, forse l’ultima, come il salvatore, come l’eroe, come quello stesso Cristo estratto dalle macerie. Alla stregua di un membro ormai impotente, il vulcano della villa spruzza la sua poca lava, mentre la dentiera all’anziana terremotata, quella dentiera per l’odore della quale Silvio Berlusconi deve ammettere la propria senilità, la propria sconfitta e il proprio tramonto, sarà l’unica promessa mantenuta, probabilmente l’unica in tutta una vita di menzogne, di compromessi, di “furbate” con le quali arrangiarsi, ben al di là del confine con la delinquenza, per costruire un impero, per costruire un’immagine, per costruire una maschera in un mondo di maschere. Loro 2 è finito, Berlusconi, incandidabile e senile, sbeffeggiato e ormai sputtanato, probabilmente anche. Ma siamo sicuri, tanto per citare l’Eduardo De Filippo mille volte riportato sul palcoscenico da Toni Servillo, che in un’Italia che nemmeno riesce a fare un governo e nella quale Silvio Berlusconi è ancora lì con addosso la sua nuova maschera, ormai di cera, la nottata sia davvero passata?
Marco Romagna, Nicola Settis