29 Aprile 2018 -

LORO 1 (2018)
di Paolo Sorrentino

«Seguimi, nell’impossibile magia dell’amore
Ascolta la mia voce
Guarda la luce
E se hai paura dei tuoi sentimenti
Sconfiggila
Non annegare
Nei pentimenti
Apri il tuo cuore
Incondizionatamente
Cerca l’amore
Nella tua mente»
[M¥SS KETA, After Amore, da UNA VITA IN CAPS LOCK, 2018]

Umanizzare il potere. Questo è uno degli scopi del cinema sorrentiniano: dare alle figure più drasticamente insopportabili, uomini-immagine che esercitano al massimo la propria autorità schiacciando l’altro, la possibilità di una tridimensionalità che riveli tutti gli aspetti tragici e intimi che caratterizzano la psiche di ogni uomo; ma non ci si dimentica del reale, che può avere la funzione di allegoria assoluta ed estetica per aumentare l’approfondimento degli aspetti critici dei vari tipi di potere che il regista partenopeo decide di volta in volta di analizzare. Sono passati 10 anni da Il divo e Giulio Andreotti è diventato Silvio Berlusconi, non c’è più la Medusa per lapalissiani scontri produttivi, ma rimane Servillo, col suo volto iconico, ormai faccia-simbolo di praticamente tutti i film italiani di Paolo Sorrentino (l’unico senza è L’amico di famiglia…). Ci si può porre la domanda: cosa non è stato detto su Berlusconi, nel cinema? C’è stato Il caimano di Nanni Moretti, in cui peraltro appariva Sorrentino come attore, un film sull’antiberlusconismo e sull’impossibilità di carpire in immagini la figura di Berlusconi, un’opera teorica e difficile in cui il regista e il più grande magnate mediatico che l’Italia abbia mai avuto si confondevano in uno strano finale difficile da decodificare dal pubblico italico; e poi c’è stato Belluscone. Una storia siciliana, capolavoro di Franco Maresco a metà tra il documentario e il mockumentary, atto a descrivere la depressione di un uomo (sempre l’autore) mediante un flusso di excursus siculi e neomelodici progressivamente più grotteschi. Insomma, parlare di Berlusconi e del berlusconismo in maniera diretta è da sempre per il cinema un atto complesso, in cui lo stesso regista è costretto a mettersi in discussione, a dover selezionare le tematiche da trattare, a dover decidere le modalità formali con cui avvicinarsi a un qualcosa di così intoccabile, vero simulacro della nostra cultura popolare. Sorrentino anche procede con questa mentalità, decidendo di sperimentare con la forma del film sdoppiandolo: all’inizio i film avrebbero dovuto chiamarsi Loro e Lui, ma per magagne produttive tanto comprensibili quanto insopportabili, i film hanno finito per chiamarsi Loro 1 e Loro 2. ‘Lui’, è chiaro, è Berlusconi; viene esplicitato anche nel film, nel quale Silvio non è mai nominato (al massimo si vede un suo libro con la copertina ricoperta di strisce di cocaina), ma viene sempre echeggiato con questa parola. Ma ‘Loro’? Sono le figure di contorno della vita di Berlusconi, coloro che l’hanno aiutato a raggiungere il suo personale paradiso peccaminoso, fulcro delle controversie legali a lui legate e principale fonte di popolarità dell’ex-premier a livello internazionale, ma sono anche ‘quelli che contano’, come dice il film stesso, ed è anche “L’oro”, che smuove tutto, liquido quasi invisibile senza il quale nulla di ciò che è messo in scena avrebbe un senso logico-narrativo. Forse, divenuto celebre in tutto il mondo, Sorrentino ha deciso di conferire a Berlusconi un ritratto appetibile anche per gli americani, con un linguaggio a loro comprensibile, ma sinceramente non ci pare il caso, poiché molte delle scelte narrative e stilistiche del film sembrano agire in direzione di una percezione tutta italiana o al massimo tutta europea delle questioni trattate – al massimo, tra gli scopi dell’autore ci potrebbe essere il voler paragonare Berlusconi a Trump, figura centrale nella politica odierna a differenza del fondatore del PdL. Dopo aver visitato la mente di Andreotti e aver inventato un giovane papa pop statunitense, Sorrentino si dedica alla descrizione della realtà berlusconiana, non attraverso il realismo ma con un senso della verità e della veridicità che ha poco di logico. Si finisce per approdare in un reame quasi soap-operistico, di scontatezza, banalità e umorismo piatto: è un mondo cadaverico, molto più di quello de La grande bellezza, e in quanto tale è difficile penetrarvi come spettatore, rimane sempre una sorta di grande distacco.

Tuttavia la reazione di Alessandra Mussolini al film, che ha detto che dovrebbe essere vietato ai minori di 30 anni per come è lussurioso e disinibito immotivatamente, non ci può che far pensare: è davvero così? Certo, ci sono questi dialoghi plastici, grotteschi, fuori dai limiti dell’accettabile, ma le immagini come sono? L’estetica televisiva berlusconiana ha influenzato definitivamente lo stile registico di Sorrentino, che qui, in maniera estrema e inedita, si dedica a un’idea raffazzonata e strana di cinema. Si potrebbe rammentare Cane mangia cane di Schrader, un film pulp con alcune delle scelte di montaggio più antidogmaticamente pop che si ricordino, ma è vero che il discorso che Schrader fa sull’immagine è più di tipo teorico che di tipo sociale. Sorrentino decide di rappresentare così questo reale perché pare l’unica maniera in cui può essere rappresentato, l’unica maniera in cui può collegarsi a questo mondo con gli occhi del regista, con la sua nuova modalità, per molti manierista, di mettere in scena eccentricamente i propri personaggi, sempre meno isolati dal mondo e sempre più potenti, quindi sempre meno in fuga e sempre più bloccati rispetto alle necessità e alle pulsioni della fuga. Il fatto è questo, che molti possono criticare lo stile del regista appunto per questa imprevedibile e strana goffaggine di montaggio, ma allo stesso tempo nessuno può davvero rispondere “no” alla domanda «Sorrentino conosce la grammatica cinematografica?». Ci pare palese, infatti, nonostante i discutibili barocchismi in cui a volte l’autore si imbarca, che pochi in Italia hanno una così ricca conoscenza su come si muove una mdp, su come si agisce nell’ambito della costruzione di filmico e profilmico. In Loro 1 sembra quasi di assistere a un suicidio schizofrenico, un sacrificio autoparodistico, pretenzioso e autoreferenziale, perché Sorrentino, che appunto è perfettamente conscio di che cos’è la grammatica cinematografica, ha deciso volontariamente di strabordare, di andare oltre se stesso, di esagerare per voler fare riferimento alla ‘videocracy’ del centrodestra berlusconiano. È la maniera più onesta e coraggiosa con cui un regista che ha lavorato per Medusa può mettere in scena una storia così, perché, adeguandosi all’estetica di riferimento ma decidendo di eccedere nell’ambito del surrealismo e delle riflessioni teoriche, metacinematografiche e deliranti del caso, Sorrentino finisce per riuscire nell’arduissimo compito di riflettere non solo su una realtà che solitamente viene osservata con occhio moralista ma anche su questo stesso moralismo. Bisogna, diciamo così, «immergersi nel bunga bunga», in un mondo lussurioso nato negli anni ’80 e che forse non è mai davvero finito, e bisogna farlo a piene mani, come in un sogno postmoderno, erotico e mortifero allo stesso tempo.

La sperimentazione di Sorrentino però non è solo con l’estetica né solo con la divisione in due film, aspetto in ogni caso interessantissimo che comunque possiamo ritrovare in tempi recenti nel Nymph()maniac di Von Trier o anche addirittura nel Kill Bill di Tarantino come nuovo modo di attualizzare una specie di nuova serialità audiovisiva nella quale non può che materializzarsi un diretto confronto con la serialità televisiva “ufficiale” attuata dal regista italiano con The Young Pope appena l’anno prima del prodotto seriale definitivo, Twin Peaks – Il Ritorno. C’è anche, in Loro 1, una sperimentazione di tipo strettamente narrativo, legata alla logica consequenziale dello scorrere dell’intreccio del film. Se consideriamo tradizionale la trama cinematografica tripartita à la Syd Field, non c’è niente di più radicalmente fuori dal comune di quello che Sorrentino ha deciso di fare in Loro 1, dedicandosi per un’ora abbondante a un non-film corale e videoclipparo composto praticamente solo da piccole scene omnicomprensive che potrebbero reggersi da sole senza il bisogno del resto dell’impalcatura cinematografica. Ma soprattutto, di Berlusconi non v’è traccia. Protagonista assoluto pare Sergio Morra, versione fittizia di Giampaolo Tarantini col volto di Scamarcio. Tutti (o quasi) i personaggi che si susseguono in questa prima parte di film sono ispirati a personaggi reali (o sorte di crossover fra più personaggi reali, si veda il Bondi/Formigoni di Bentivoglio) ma non hanno il loro nome, mentre dopo un punto di volta (la macrosequenza festaiola a metà strada fra Spring Breakers e una puntata di Tg2 Salute, per molti il vero punto debole dell’opera almeno sinora e su cui ritorneremo a tempo debito) entra in scena Silvio e con lui Veronica Lario, e l’irreale del videoclip diventa un irreale teatrale, sospeso nel vuoto, casto, più vicino al reale in maniera soltanto apparente, con sprazzi di videoclip che sembrano flash nella memoria, nell’inconscio, o miraggi. In un film pieno di immagini specchiate che scappano dall’obiettivo, come non volendo vedere una realtà ulteriore oltre a quella manifestatamente futile e superficiale, questo tipo di narrazione frammentata confonde lo spettatore e lo fa perdere nei meandri di un qualcosa che già conosce, per poi spiazzarlo con la messa in scena di un qualcosa d’altro perfettamente comprensibile, ricollegabile all’immaginario collettivo. L’entrata sullo schermo di Servillo, truccato e vestito da odalisca con un sorriso fintissimo stampato sul volto e gli occhi perennemente semichiusi, è come l’entrata in scena di Luis Gnecco/Pablo Neruda nella seconda scena del Neruda di Larraìn: vediamo per la prima volta LUI in azione dopo che è stato tanto riecheggiato, ma non sappiamo chi stiamo vedendo perché LUI continua a celarsi, a percepire se stesso come plastico, violento, enigmatico, unico, finto. Si dice sin dalla locandina che tutto è vero e tutto è falso, sin dalla prima schermata, citazione delle parole di Manganelli, che «Tutto (è) documentato, tutto (è) arbitrario», e vedendo il film ci sembra di percepire che tutto sia folle e(ppure) tutto sia estremamente lucido. Come sia tutto radicale e compenetrante, basti pensare a quando Berlusconi si ritrova, con Apicella, a cantare in napoletano, portando dunque Servillo a dover cantare nella propria lingua ma con l’accento lombardo, il tono e la maschera di Silvio, e finendo per distorcere tutto ciò che li circonda.

Sì, è vero, Loro 1 alterna a costo di scadere in momenti dal gusto kitsch sesso, droga, potere e autocitazionismo, e la giustificazione del “brutto apposta”, fra ralenti e animali in CGI, potrebbe quasi sembrare una carta da giocare con codardia per difendere qualcosa di indifendibile. Ma non è solo il “brutto apposta” a portarci a salvare Loro 1: Sorrentino non passa tutto il film semplicemente a masturbarsi con l’obiettivo, perché decide di usare come coordinate svariati tipi di cinema che decide dunque di reinterpretare con grande foga, mostrando in maniera totalmente manifesta ed evidente un comparto stilistico traumatico e in perpetuo mutamento. L’autore, mai così ipercinetico nella propria precisione delirante e vignettistica, cita direttamente Fellini (La dolce vita e Lo sceicco bianco), anche più di quanto lo faceva ne La grande bellezza, ma soprattutto utilizza altri autori non solo come riferimenti visivi, ma anche come veri e propri veicoli del significante. L’assurdità in cui si aggirano i personaggi del film, in svariati momenti, sembra provenire direttamente dall’imperfezione formale del surrealismo di Jodorowsky, per esempio, mentre il personaggio di Scamarcio, che tira sempre su col naso, si sposta nel proprio ambiente con la naturalezza drasticamente alienante di un “primus inter pares” scorsesiano, fuori dal clan e capo del clan nel contempo, tra il Ray Liotta dell’ultima parte di Quei bravi ragazzi (ricordiamo in particolare la macrofase della paranoia per l’elicottero) e il Leonardo Di Caprio del più recente The Wolf of Wall Street. La prima parte di Loro 1 (quella “tarantiniana”, se passate il gioco di parole), peraltro, si conclude con tre scene filate che citano in maniera diversa e diversamente riuscita altri tre grandi film di altri tre grandi autori diversissimi tra di loro: abbiamo difatti prima una citazione di Mike Nichols, poi una rilettura in chiave lisergica di Michelangelo Antonioni, e infine quella già citata, “festaiola”, da Harmony Korine. All’inizio, vediamo tutte le donne che Scamarcio vuole portare in Sardegna da Lui che si preparano, e l’ultima a uscire dalla stanza pare dover essere Tamara (Euridice Axen), la donna di Sergio Morra. Tamara è al telefono, sta parlando col ministro Santino Recchia (Fabrizio Bentivoglio, già protagonista de L’amico di famiglia), e rivela praticamente di aver tradito il marito e di rischiare di essere incinta. In questo momento, come nel momento della rivelazione dell’identità della ‘donna matura’ ne Il laureato, la figura femminile in primo piano rimane per un tempo eccessivo fuori fuoco, finché (e qua la scelta stilistica è estrema e confusa) l’intero spazio inquadrato non è completamente sfocato. In ultima istanza, prima che Tamara esca, vediamo la parete dietro di lei a fuoco, concentrando lo sguardo dello spettatore verso l’ambiente più che verso lei – e difatti, dopo uno stacco scopriamo che nella stessa stanza, da un’altra parte, c’era proprio Morra a origliare. È una maniera intensa per mettere in scena uno scompenso dell’identità, ma allo stesso tempo anche decisamente complessa per lo spettatore medio italiano. Antonioni giunge invece in quella che forse è la scena al momento più criticata di tutto il film, in cui tutte le ragazze agghindate da sostanziali prostitute in giro per Roma, ennesimo rimando visivo a La grande bellezza (e alla realtà…) abbastanza evidente, finiscono per assistere a un incidente automobilistico in cui un camion si scontra con una pantegana (in CGI) finendo per volare nel Foro Traiano ed esplodere lanciando in aria spazzatura (anch’essa in CGI) e ricordandoci Zabriskie Point. È una scena che meriterebbe una discussione a parte, anche da un punto di vista tecnico: basti anche solo la necessità di interrogarsi se il fatto che il camion va al ralenti mentre il resto della ripresa è a velocità normale (o addirittura aumentata) sia volontario oppure no. La scena crea un forte spaesamento perché pare didascalica, pare casuale, ma forse è semplicemente un goliardico ed esplicitamente brutale pretesto per la transizione che porta nella macrosequenza centrale, il lancio per il jump-cut spaziotemporale ma (non ancora) tematico e stilistico. La spazzatura nel cielo si trasforma in una pioggia di pasticche di MDMA, e ci spostiamo in Sardegna, nella villa appena acquistata da Scamarcio/Tarantini per attirare l’attenzione di LUI, riuscire ad avvicinarlo, conoscerlo.

‘L’intellettuale dissidente’ dice, riguardo alla scena del camion, «La grande monnezza nella grande bellezza». Ha tutti i torti? Ancora non ci sentiamo in grado di rispondere. Anche perché una cosa è la monnezza vera, quella comunque computerizzata che invade esplosivamente il cielo romano, e una cosa è quello in cui la monnezza si trasforma. Dopo un pacchiano ma tutto sommato divertente infomercial sugli effetti dell’ecstasy, il mega-montage proto-pornografico à la Spring Breakers si materializza, semplicemente accatastando corpi su corpi in maniera volutamente deleteria. Sono solo corpi, che agiscono come corpi, interagiscono come corpi, e rimangono solo e soltanto corpi, nonostante i post-it stile Francesco Sole applicati sulla pelle di una ragazza, quasi a voler provare a dare una nuova profondità e un nuovo significato a una carne umana che ormai è solo e soltanto carne sessuale. Bigazzi li fotografa non con il senso estetizzante che dava ai corpi Benoît Debie nel film di Korine, ma con un approccio più vicino a quello di un video musicale hip hop, un film porno di Brazzers o il teaser di una festa discotecara in spiaggia a Gallipoli. Nella più erotica fra le sospensioni sorrentiniane, vediamo quasi tutto con l’occhio di Scamarcio, che mischia il corpo di Kira (interpretata da Kasia Smutniak, ideale alter-ego dell’ape regina Sabina Began) con quello di Tamara, in una simbiosi del desiderio che mescola le necessità della libido con una sorta di romanticismo fatto di distanza e scompensi. Tarantini/Morra/Scamarcio è una figura più facile da decostruire di quella di Silvio, e diventa perfetto specchio di un’illusione poetica d’amore, che si apre nello sconforto degradante dell’afterparty, quando Silvio non è ancora arrivato a sconvolgere. È per questo che quando arriva Veronica Lario (la perfetta e straordinariamente somigliante Elena Sofia Ricci) sembra quasi di trovarsi di fronte a un’icona di femminilità e amore traviata. Del resto, il suo uomo, l’uomo più potente dell’Italia da barzelletta che viene messa in campo, è un tatuaggio plastico sul culo di una puttana, «Per nulla» candida, di nome Candida, è una maschera grottesca e teatrale che cerca di trovare un’identità riciclando le frasi che sente, come il protagonista di Oldboy di Park Chan-wook; entrambi inetti, uno assetato di vendetta e l’altro, LUI, di potere. Silvio sente da un calciatore di colore che vuole acquistare col Milan la frase «tutto non è abbastanza» e la ridice lui stesso come se fosse propria – e poi va a eventi culturali con Noemi Letizia, dà della troia a Santino Recchia che gli recita una poesia, va in giro con un tirapiedi che fa da testimone silenzioso kieslowskiano (il non reale Paolo Spagnolo, interpretato da Dario Cantarelli) e ha un dialogo tutt’altro che implicito col nipotino sul tema «che cos’è la verità», in un campo-controcampo che contiene l’effetto Vertigo più avulso della storia, ennesimo arricchimento stilistico profondamente gratuito che conferisce al film un’aura ancora più sacrificale, nel senso di postmodernismo sperimentale del delirio. Ci si affeziona a questo mondo tragico e finto, ci si vuole immergere, scoprire qualcosa di più, perché molto ci è celato, a volte anche senza un’apparente motivazione, e semplicemente siamo in balìa dei desideri di una serie di caricature che si susseguono, si amano, si odiano, si toccano, si rivelano per quello che sono, ovvero, da un certo punto in poi, solo immagini, neanche più uomini. Sorrentino lavora per addizione così tanto da entrare nell’astrazione pura, creando delle cartoline caravaggesche di dolore umano e fuori controllo. Tutto è arbitrario, anche il potere del cinema. «Apri il tuo cuore, incondizionatamente», dice la diva del trash/pop/techno milanese M¥SS KETA, che abbiamo deciso di citare in apertura – anche in tutto questo delirio, il trash, l’estetica, il colore, la musica, compaiono l’amore e la potenziale bellezza della solitudine. Loro 1 è la ‘mappa per le stelle’ cronenberghiana di Sorrentino, con Hollywood che si tramuta in Villa Certosa, e il racconto di un fantasma che diventa il racconto di un vizio lussurioso ‘larger than life’. Non è, almeno per ora, un film sul potere come lo era Il divo. Così come non è un film su Berlusconi, sulla sua corte dei miracoli, sulla politica, sugli scandali sessuali, su Tarantini, su Veronica Lario. O meglio, Loro 1 è tutto questo, ma il suo vero obiettivo è ragionare sull’immagine in tutte le sue possibili accezioni. Sull’immagine cinematografica e televisiva, sull’immagine pop e menzognera di false citazioni e convinti sorrisi nel mentire, sull’immagine pubblica fatta di maschere e calcoli a filtrare ogni parola e ogni azione, sull’immagine politica di chi cerca la scalata e su quella manipolatrice di chi è perfettamente conscia di «saper fare la puttana», sull’immagine da cercare di ottenere attirando l’attenzione e su quella di chi al contrario deve difenderla dagli attacchi, dagli scandali, dai ricatti. Perché l’unica cosa che conta, nel tutto vero e tutto falso, è la capacità di essere credibili, di convincere chi si ha di fronte.

Ha senso accusare Sorrentino di essere kitsch? Forse sì, probabilmente sì. Ma, a parte che Picasso probabilmente è stato profetico quando ha detto che «il buon gusto sta uccidendo l’arte», il pacchiano di Loro 1 è quasi sempre funzionale al reale raccontato, anche quando le scelte entrano in un ambito eccessivo (in testa, nelle cadute di stile, l’inspiegabile rinoceronte che corre per Roma o il «38 rosso» urlato da Violetta Saba). Anche per questo, fra dubbi e riserve, abbiamo preferito aspettare la visione del più brillante e centrato Loro 2, completamento di quello che è un dittico che va necessariamente visto per intero, prima di di inserire la classica valutazione “semaforica” a inizio articolo, sulle prime lasciata in sospeso e aggiunta (meraviglie dell’editing web) solo dopo l’anteprima stampa del “secondo tempo” del film. Ci pare poi giusto in ultima istanza, in questo testo già di per sé forse troppo lungo, di dedicare le ultime parole a un’analisi di tre scene che sono decisamente le più enigmatiche e interessanti: il prologo, l’epilogo, e la scena, centrale, che mostra l’incontro tra Stella, la giovane prostituta interpretata dalla giovane modella Alice Pagani, già attrice in Classe Z di Guido Chiesa, e un individuo, che copre il proprio volto e il proprio inguine con asciugamani, che si fa chiamare “Dio” perché nessuno sa chi è. Parto proprio da questa scena, lynchana nel modus operandi registico e fotografico (viene in mente in particolare la parte iniziale di Strade Perdute), perché la contrapposizione tra il corpo sensuale della Pagani, una ‘puttana santa’ fassbinderiana che attira lo sguardo del Berlusca ballando da sola durante l’after party, e le rughe nel corpo di Dio ci pare tra le immagini più potenti, per quanto potenzialmente fastidiose, del film. Il corpo femminile supera per importanza e per purezza la necessità di un’identità per il corpo maschile, invece decadente, esteticamente orribile, potente e misterioso. Già la Pagani, per la purezza ‘dark’ della propria apparenza e per la propria sobrietà, si contrappone in maniera evidente a tutte le sue colleghe, in particolare alla Smutniak che fa sesso (interrotto, perché solo lei può tenere il gioco) con Scamarcio (solo) mentre parla con Berlusconi al telefono, e avendo premura di essere osservata dal voyeurismo tipicamente italiota e ‘videocratico’ delle persone sui terrazzi vicini. Il fatto che venga messa vicina a un qualcosa che per nome dovrebbe rappresentare il concetto più puro e ideale, che invece è rappresentato come marcescente, ci fa pensare: questo Dio cosa dovrebbe rappresentare? La religione e Dio sono dei grandi assenti in Loro (almeno per ora…), e perciò forse Dio non è l’uno e trino clericale, bensì potrebbe essere qualcun altro, come teorizza l’articolo ‘Guida ai personaggi di Loro’ de Il Post: «Morra ipotizza che possa trattarsi del capo della Protezione civile, per via del suo controllo su tantissimi appalti. Viene quindi da pensare che il personaggio possa ispirarsi a Guido Bertolaso, capo della Protezione civile sotto diversi governi Berlusconi e coinvolto in un supposto caso di massaggi erotici all’interno di un centro benessere (da lui sempre negato)». In questo senso, questa sequenza, tra le più bizzarre del film, potrebbe arricchirsi col secondo capitolo del dittico, oppure rimanere enigmatica e affascinante esteticamente per la propria gestione della nudità più che per il proprio contenuto socio-politico. Il prologo del film invece vede una pecorella smarrita, agnello (auto)sacrificale e membro di un gregge al contempo, entrare nella Villa di Berlusconi e morire, non di sindrome di Stendhal come il turista asiatico all’inizio de La grande bellezza ma di freddo, guardando una grottesca replicazione di un programma di Mike Bongiorno con il condizionatore al massimo. La bellezza è sostituita dal piattume di un linguaggio in formazione, ma soprattutto la forma televisiva uccide e atterra una creatura solitaria e sperduta. La sottomette. È una sequenza tranquillamente leggibile come metafora forse non troppo elegante di quanto le pecore si facciano rimbambire dalla televisione e dal suo distorto riplasmare la realtà, al punto di morire di un’altra realtà riplasmata e distorta a piacimento come un condizionatore che crea il gelo nella calura estiva di un’assolata Villa Certosa. Ma se la pecora non fosse, come hanno detto molti, il popolo italiano? Se fosse invece lo stesso Sorrentino? Se fosse l’autoritratto di chi, a suon di guardare Mediaset e di farsi produrre da Medusa, con questa scena ammette di aver inserito nel proprio DNA filmico il linguaggio audiovisivo berlusconiano e annuncia di voler ragionare proprio su quello? Letto così, quello della pecora in traballante CGI sarebbe un prologo perfetto, perché giustifica il film e ne dichiara gli intenti prima ancora che la parte più corposa, volgare e controversa del discorso possa cominciare. In questo senso, il finale è drammatico, ironico e poetico allo stesso tempo: Sorrentino mette in scena Berlusconi che chiama Concato a cantare Domenica Bestiale alla Lario al posto di Apicella, e ci viene da ridere perché Apicella è una figura patetica, ma ci viene anche da pensare che, sul set di Loro 1, è stato Sorrentino a chiamare Concato, non Berlusconi. È stato Sorrentino a esercitare il potere. Ha smesso di essere la pecora, ed è diventato, come Moretti/caimano, il “LUI” della situazione. E qui c’è un aspetto metacinematografico e personalissimo che potrebbe esplodere in Loro 2, mentre l’aspetto poetico/romantico/drammatico esplode nel breve frammento con cui il film si conclude: la visione di una giovane fanciulla che compare di fronte al Duomo di Milano e dice «Silvio, mi sono innamorata di te». Un fantasma sessuale senza identità? Un ricordo della Lario da giovanissima? È comunque un promemoria dell’identità complessa del magnate e del politico, delle sfaccettature plastiche del potere esercitato da un uomo, da un premier, da un magnaccia, da un regista. Della fine, e di un nuovo inizio.

Nicola Settis

“Loro” (2018)
Biography | Italy
Regista Paolo Sorrentino
Sceneggiatori Paolo Sorrentino
Attori principali Toni Servillo
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