LOOP (2016), di Isti Madarász
Quello del viaggio del tempo è uno dei temi più celebri della fantascienza. È un terreno sempre fertile, che permette di costruire storie che, nonostante la loro connaturata impossibilità, sono in grado, mediante le loro complesse strutture, di “smontare” e analizzare elementi fondamentali della vita dell’uomo, come il ricordo, il destino e la libertà di scelta. Più vanno avanti gli anni, più questo topos assume caratteristiche sempre più intimistiche e lontane da ogni immaginario futuristico o spettacolarizzazione, diventando un dispositivo funzionale ad altri scopi narrativi.
Un perfetto esempio di questa tendenza è proprio Loop (in originale Hurok), esordio al cinema dell’ungherese Isti Madarász presentato in anteprima italiana al Trieste Science + Fiction Festival, che racconta di Adam e della sua ragazza Anna. Alla ricerca di un futuro migliore, i due hanno deciso di tradire il loro capo e rubargli un carico di un farmaco illegale che avrebbero dovuto smerciare per lui, ma quando Anna scopre di essere incinta torna sui suoi passi, stabilendo che non vuole vivere una vita in perenne fuga ma in pace e tranquillità. A quel punto Adam decide di abbandonarla e fuggire dal Paese con il carico, ma Anna, dopo un duro confronto in cui dice all’uomo che l’ha abbandonata addirittura di averlo visto mentre veniva ucciso, si ritrova a morire investita da un’ambulanza.
Dopo essere tornato a casa, il protagonista si mette a vedere una videocassetta che gli aveva dato la ragazza in cui lui stesso aveva prima registrato un messaggio per lei, scopre che la telecamera ha continuato a riprendere il suo salotto per tutta la giornata ed è così che si rende conto di essere finito in una sorta di “loop temporale”. Gli eventi di quel giorno stanno continuando a ripetersi, e Adam ha quindi la possibilità di muoversi in questo spazio-tempo chiuso, ripercorrendo le proprie scelte e le conseguenze delle proprie azioni, per potersi redimere e per poter riuscire a salvare Anna.
L’aspetto più interessante del film è proprio il modo in cui viene gestito questo “loop”: a questo fenomeno non viene data alcuna spiegazione narrativa, né tantomeno scientifica, eppure riesce ad essere perfettamente integrato e giustificato nella trama da elementi prettamente simbolici, sia che siano oggetti fisici (come la videocassetta e il segno dell’infinito sulla mano del protagonista) sia scambi di battute allusivi che mettono in evidenza gli assi tematici del film.
L’impeccabilità e la chiarezza di una struttura narrativa del genere sembrano avere come modello di riferimento un altro esordio cinematografico, ovvero il Memento di Nolan, del quale Loop ricorda anche il tono fotografico e registico generale, ma soprattutto i suoi risvolti intimisti. Al centro del film di Madarász vi sono la scelta del protagonista, i suoi ricordi, i suoi sensi di colpa, ma soprattutto la sua lotta contro sé stesso: tutto il film potrebbe essere interpretato come una sorta di lunga riflessione di Adam in merito a come sarebbero andate le cose se si fosse comportato diversamente. Il finale del film non mostra un reale “cambiamento”, non mostra una situazione compiuta, bensì una compresenza di entrambe le possibilità, un’impossibilità di soluzione, un dilemma aperto. Un dramma interiore, eterno e ancestrale tormento.
Il tempo torna ciclicamente su sé stesso, ma la coscienza del protagonista rimane una sola e continua a procedere diritta e imperturbabile, trasformando questo cerchio in una spirale infinita.
Loop risulta essere un film perfettamente riuscito, figlio di tutti gli aspetti migliori dei thriller nolaniani, dotato di ritmo serrato, fluidità e moltissima suspense nonostante sia abbastanza facile, soprattutto per uno spettatore allenato, capire molto velocemente quale sarà l’andamento dell film (se non addirittura la conclusione). Ciò che non stanca di questa visione è come il regista riesca a condurre lo spettatore, come Adam, attraverso questo poliedro narrativo che riecheggia vagamente l’immenso ultimo Skolimowski di 11 minut, mostrandogliene ogni lato, ogni anfratto, ogni bivio, ogni punto di vista. E data la classe con cui Madarász, fra inseguimenti mozzafiato e colpi di pistola, fra corridoi e magliette insanguinate, fra invadenze televisive e schermi ecografici, fra scelte di vita ed eterni ritorni, ha portato a termine questo lavoro, ci aspettiamo e speriamo che possa avere presto altre possibilità di mettersi in gioco e dimostrare il proprio talento nello scenario cinematografico contemporaneo. E che la sua carriera possa diventare un loop, un costante sfornare prodotti così quadrati, così sapidi, così concreti. Fino all’ultimo abbraccio sul metrò.
Tommaso Martelli