LONG DAY’S JOURNEY INTO NIGHT (2018), di Bi Gan

Molto difficilmente, almeno nell’ultimo periodo, ci siamo trovati davanti a un talento purissimo come quello di Bi Gan, cineasta cinese classe 1988. Il suo esordio, un paio d’anni fa a Locarno, fu folgorante per molti, anche per chi scrive, e la sua seconda opera, presentata a Cannes 2018 in Un Certain Regard, era altamente attesa non solo dai più rigidi addetti ai lavori. In questo Long day’s journey into night, “lungo viaggio (o lunga giornata) verso la notte” di O’Neilliana memoria, torniamo a Kaili, dove non si ascolta più il blues del primo film, e dove giunge anche il protagonista di questa storia dopo anni di esilio. È qui che si consuma la prima parte, estremamente laboriosa e curata, costruita quasi ossessivamente su ogni inquadratura che definisce una specie di cortocircuito temporale attraverso una puntigliosa mappatura degli spazi e dei soggetti. Scorrono amore e morte, fra cosa si è perso per sempre e cosa è ancora possibile salvare, e in questi rapporti doppi del ragazzo si svela la prima ora di film, apparentemente senza continuità né fine. Poi si arriva al cinema, l’immagine si capovolge, e inizia l’immersione nello smisurato pianosequenza, questa volta tridimensionale come sorta di versione deluxe e notturna di quella che già era stata l’idea strutturale di Kaili Blues, di cui Long journey’s into night vorrebbe essere l’ideale evoluzione degli spazi e tempi. Ma questa volta l’esperienza immersiva progettata e realizzata da Bi Gan pare quasi costantemente, e inaspettatamente, gelida e distante. Il lavoro tecnico è estremamente complesso ed encomiabile, ma qualcosa non torna, mentre molti dubbi si addensano con la visione. Qual è il rapporto tra estetica e maniera? Come cambia l’approccio di un autore verso il suo film secondo diverse possibilità produttive? In quale modo il talento può distorcere l’idea originaria e la sua brillantezza?

Kaili Blues fu un’opera, in un certo senso, sconvolgente. Una visione pulsante e potente sul baratro di una Cina sconosciuta, tra passato e futuro; il pianosequenza era mobile e vorticoso, senza punti di appoggio apparenti, costantemente fluttuante tra il visibile e il fuori campo, in una deriva che penetrava e attraversava esistenze incapsulate, vite che ruotavano attorno a una canzone. Senza dubbio di spunto autobiografico, come questo d’altronde, rispostava continuamente la vicenda personale in un quadro più ampio, dove lo spazio era qualcosa di più che una quinta, e in cui coordinate e profondità di campo fungevano come elementi fondamentali per decodificare l’esperienza dello schermo. In questo doppio ritorno a Kaili (anche dal doppio titolo, quello internazionale derivato come detto dal testo di Eugene O’Neill, quello cinese Di qiu zui hou de ye wan da un racconto di Roberto Bolaño), tra crepuscolo e alba passando per la notte, le pulsioni sono invece anestetizzate, e il vigore dello sguardo pare dipendere direttamente dagli strumenti produttivi e tecnici messi a disposizione. La prima parte appare come un prologo, un tentativo quasi forzato di marcare nuovamente un territorio perso molto tempo addietro; qualcosa che si ritrova dalle parti del sogno come della suggestione, in cui la parola è lasciata a se stessa nel tentativo ermetico di invitare anche lo spettatore al cinema. E così la scena al cinema diventa il punto cardine, lo snodo in cui l’essere storia si divide dal guardarla, la porta attraverso una tridimensionalitá esplicita. Il pianosequenza é un virtuosismo puro, meno mobile e stupefacente del precedente ma estremamente più complesso ed elaborato: la macchina da presa vaga inseguendo i personaggi, li cerca mentre esplorano il villaggio oramai quasi fantasma, dalla collina piomba sulla valle e definisce i particolari di una realtà estremamente affascinante. Non ci accorgiamo nemmeno più della mancanza di stacchi, lo sguardo oramai abbandona l’idea di esser antropocentrico, perché sostanzialmente totale. Nulla sfugge alla macchina da presa, e anzi pare quasi che siano i protagonisti a cercarla per poter esser guardati e fissati.

Il punto però rimangono le domande del paragrafo precedente. Alla prima non sapremmo come rispondere: la componente estetica del film è fortissima e lo sguardo estetizzante di Bi Gan finisce per diventare già maniera non tanto nel ricostruire tracce del film precedente (cosa di per se estremamente affascinante), ma nel girare il reale quasi come un calco ideale della prospettiva evoluta del suo primo progetto. E qui entra in ballo la seconda domanda, ovvero la palese (sovra)struttura di questo sguardo rispetto alle nuove disponibilità (economiche ma non solo) che l’autore ha avuto in questa opera seconda – cosa che per i maligni significherebbe riguardare anche la prima sotto nuova luce – con il rischio di finirne sottomesso. E qui si apre anche la terza domanda, ovvero il talento che spesso non combacia con la consapevolezza dello strumento (e forse anche del linguaggio). Quello che appare è quasi un Wong Kar-Wai senza profondità, con dogmi viscontiani e freddezza nordica o russa. È uno straordinario quadro di visioni in movimento fatto di impianti a fune e di pedinamenti, di grotte e di strade deserte, di collina e di città, di steady e di droni (con tanto di tre direttori della fotografia a collaborare per rendere possibile l’impossibile, per filmare l’infilmabile), a cui mancano però la pulsione, l’epifania e la libertà. Perché il problema è più profondo di quello dell’ambizione (comunque, almeno per chi scrive, eccessiva), ma si cela attorno a una specie di negazione delle emozioni davanti alla macchina da presa. Long day’s journey into night è un saggio visivo che toglie il misticismo nei confronti dell’identità di Kaili Blues con un’esperienza che rischia di esser percepita quasi come videoludica, studiata sino alla meccanicità, e in fin dei conti un po’ fine a se stessa. Ed è questo il rischio che smorza sensibilmente le possibilità di un’opera pervasa da fascino e mistero, ma che allo stesso tempo pare non riuscire a conoscere la propria dimensione esistenziale, quasi sotterrata da tecnicismi ed estetizzazioni. Se l’esordio di Bi Gan era uno straordinario viaggio all’interno del flusso di una vita, qui sembra proprio che manchi l’impulso necessario per farlo respirare di vita propria. Quell’impulso che era (e che dovrebbe sempre essere) anche di riconciliazione nei confronti dell’immagine, mentre qui persino lo sguardo diventa talmente celebrale che si fatica a percepirlo. Cosa che spesso si associa a un secondo film che cerca una certa ambizione per emanciparsi forse da un esordio (troppo) eclatante come quello che era stato. Al terzo lavoro, forse, la risposta.

Erik Negro