LONELY RIVERS (2019), di Mauro Herce
«Lonely rivers flow
To the sea, to the sea
To the open arms of the sea
Lonely rivers sigh
“Wait for me, wait for me”
I’ll be coming home, wait for me.
Oh, my love, my darling
I’ve hungered for your touch
A long, lonely time
Time goes by so slowly
And time can do so much
Are you still mine?
I need your love
I need your love
God speed your love to me»Righteous Brothers, Unchained Melody
Quattro pareti, l’isolamento, la claustrofobia, lo sconforto, la sensazione di impazzire in quel sentore asfissiante di più assoluta solitudine. Subito fuori l’oceano, e quindi il nulla, o per lo meno l’impossibilità di fuggire se non con l’immaginazione, con quei pochi minuti di svago, con quel karaoke che diventa unico reale e possibile momento di gioco e divertimento in quegli infiniti quattro mesi di traversata e di lavoro a bordo della nave da cargo. Una nave fantasma abitata da uomini ormai ridotti a fantasmi, volontaria prigione galleggiante ancora diretta verso l’oscurità di una destinazione (ig)nota. A distanza di quattro anni da quell’intelligente commistione fra documentario e fantascienza su cui si imperniava Dead Slow Ahead, il cineasta catalano Mauro Herce ritorna con i ventisette minuti di canzoni e assordanti silenzi di Lonely Rivers alla montagna di ore filmate nel corso del suo lungo viaggio sulla Fair Lady, ritorna a quei volti di marinai soli e malinconici, ritorna a quelle depressioni, ritorna a quella lontananza, ritorna a quell’abbandono. In una sorta di controcampo ideale, dove non è più in alcun modo il lavoro il punto, non è più la nave la reale protagonista e non servono nemmeno più i dialoghi per esprimere la desolazione, ma è sufficiente concentrarsi su ciò che al tempo era rimasto fuori campo e fermarsi in una sola stanza, quella del riposo, quella in cui staccare con la musica e il karaoke, quella in cui provare disperatamente a sentire, fra un acuto perfettamente intonato su Delilah che quasi supera l’originale di Tom Jones e il contraltare di qualche clamorosa stecca su Feel da far rabbrividire non solo Robbie Williams, la dolce brezza di quella libertà che la clausura dell’imbarcazione fa a tratti sembrare un’utopia impossibile. Certo, i giorni e le notti di navigazione quasi si confondono nel chiuso di quei muri apparentemente invalicabili, e il Natale della Silent Night stupendamente rallentata da Bing Crosby cederà ben presto il passo alla noia nel pulire il tavolino dalle briciole come se fossero i granelli del disgregarsi di ogni illusione: non esiste reale possibilità di fuga per chi è a bordo, circondato da muri di ferro a loro volta circondati solo da onde, e questo tutti i marinai lo sanno alla perfezione. Eppure, nel loro ritrovarsi insieme nel locale condiviso, con la televisione accesa e il testo che scorre sullo schermo, non rimane loro che chiudere gli occhi e gonfiare i polmoni per cantare oltre i confini della stanza, oltre i confini della nave, oltre i confini dell’oceano. Oltre i confini della frustrazione, a perdifiato, come se almeno la voce potesse volare e giungere fino alla terraferma, fino agli affetti, fino a quell’amore rimasto ad aspettare da qualche parte nel mondo. In un canto che da pura disperazione diventa attesa, auspicio, fantasia, chimera, sogno, filosofia, liberazione dai demoni interiori, forse l’unica reale possibilità per riuscire a sopravvivere.
È una stanza rigorosamente chiusa quella di Lonely Rivers, presentato fra i corti fuori concorso al 72mo Locarno Film Festival prima di viaggiare come la sua nave dal DocLisboa al TFFdoc del Torino Film Festival, fino a chissà dove. Una stanza nella quale in ogni inquadratura c’è sempre un angolo o una parete alle spalle dei protagonisti a negare loro qualsiasi visibile prospettiva di apertura, ma il microfono che passa fra le loro mani è una sorta di testimone della possibilità di sognare, un segno di amicizia, di uguaglianza e di solidarietà nella babele multiculturale di nazionalità dell’equipaggio. Mangiano insieme, vivono insieme, lavorano insieme, cantano insieme e sono di fatto reclusi insieme, mentre insieme immaginano di sfuggire allo straniamento della loro realtà proprio come le note di una melodia vibrano e sfuggono inafferrabili nell’aria. Mauro Herce si concentra sugli uomini, sui loro occhi lucidi, sui loro volti segnati dalla più angosciosa malinconia che finalmente trovano un istante di sorriso. Si concentra sulle sigarette incenerite, su quell’avvilimento ossessivo che giorno dopo giorno si fa sempre più opprimente e insostenibile, sull’imperturbabilità di chi sembra stare in un angolo troppo stanco e catatonico per partecipare all’illusione di festa, ma prima o poi non potrà che ritrovarsi insieme agli altri a dimenticare, se non altro per un momento, i corridoi ferrosi e le gocce sugli oblò, con la nuova certezza che quel mare infinito da solcare, senza (mai) nulla all’orizzonte, prima o poi finirà e ridiventerà terra. Non è certo un caso che i marinai intonino quasi solo canzoni d’amore, da Love of a lifetime dei Firehouse a To all girls I’ve loved before di Willie Nelson e Julio Iglesias passando per i Maroon5 di This Love, come a esorcizzare nella musica e nei testi romantici tutte le loro carenze affettive, tutto il loro spasmodico, crescente e umanissimo bisogno di affetto. Incorniciati sempre dalle stesse quattro pareti, così uguali e così diverse nella luce e nel buio, nel giorno e nella notte, negli illusori picchi e nei fisiologici crolli dell’umore, nel continuo e incessante girare delle lancette dell’orologio senza che apparentemente cambi mai nulla, ma con un minuto, un’ora, un giorno in meno da passare sulla Fair Lady. In quelle cuccette tutte minuscole e impersonali, sotto i poster religiosi che dovrebbero proteggere i marinai, fra un ponte e l’altro di un colosso dei mari. Fino all’emergere dei sottotitoli da karaoke che cambiano colore a tempo su quelle parole dei Righteous Brothers e della loro Unchained Melody che, nel contesto, si stratificano e si fanno più profonde fino a cambiare significato. Dalla storica straziante, struggente e strabiliante esibizione obesa, strafatta e sudaticcia di Elvis Presley – altro uomo (auto)distrutto quanto magnetico nei suoi bassi e nella sua decadenza – che i protagonisti riguardano durante i titoli di testa, i «Lonely rivers flow to the sea, to the sea, to the open arms of the sea – Lonely rivers sigh “Wait for me, wait for me”, I’ll be coming home, wait for me» si ergono nel karaoke finale a sorta di inno per quei “fiumi solitari” che solcano il mare piangendo la mancanza degli amori rimasti a casa. Per sopravvivere alla solitudine, all’isolamento e alla paura non resta che cantarla con tutto il trasporto possibile, con impegno, con voce, con passione. Più forte dei confini delle quattro pareti, alla ricerca di una (im)possibile catarsi: «Oh, my love, my darling, I’ve hungered for your touch a long, lonely time». Ritrovandosi, tutti insieme appassionatamente, finalmente sereni in un momento di gioia condivisa. Liberi forse, o per lo meno più leggeri. E di sicuro un po’ più vicini a casa.
Marco Romagna