LOLA (2022), di Andrew Legge
«Ground Control to Major Tom, check ignition and may God’s love be with you», canta David Bowie nel videoclip di Space Oddity nel momento stesso in cui Thomasina e Martha, il primo ottobre 1938, accendono per la prima volta il pionieristico tubo catodico della loro LOLA sul futuro di una trasmissione televisiva che sarebbe andata in onda nel ’73. Forse la stessa occasione, di certo lo stesso schermo tondeggiante, in cui il Duca Bianco avrebbe presentato di lì a poco la «seat with the clearest view (and she’s hooked to the silver screen)» della sua nuova Life on Mars?, entrando così di prepotenza nell’immaginario e nelle passioni delle due giovani sorelle del Sussex da diventare (sopran)nome, da quel momento semplicemente Thom e Mars in onore della straordinaria musica che sarebbe arrivata nei decenni successivi. Forse l’unico modo per trovare almeno qualche scheggia del loro tempo, intrappolate a cavallo fra gli anni Trenta e i Quaranta eppure già donne e scienziate per lo meno dei Sessanta-Settanta, libere, indipendenti e intraprendenti, anticipatrici dei tempi per sfacciataggine nella seduzione e/o per androginia e look protoqueer. Del resto è proprio per questo che, nella finzione fantascientifica a cavallo fra il mockumentary, il found footage e il videodiario home-movie di LOLA, le due protagoniste inventano quel gigantesco e omonimo macchinario meravigliosamente steampunk, capace di intercettare con le sue valvole e con le sue antenne le onde elettromagnetiche delle trasmissioni che verranno: un viaggio audiovisivo nel tempo con cui scoprire la musica e i film del futuro come vera e propria ricerca di identità culturale, come liberazione dalle pastoie di un presente destinato nel giro di pochi mesi a precipitare. È solo questione di impostare il timer di LOLA su una data più vicina per vedere in anticipo l’avvento della Seconda Guerra Mondiale, i bombardamenti e i massacri di civili innocenti. Tragedie che il marchingegno rende possibile sventare, prima nell’anonimato dell'”Angelo di Portobello” che propaga via radio le sue informazioni attraverso la rete del gas e poi in collaborazione con l’Intelligence britannica, avvertendo per tempo i residenti delle zone che stanno per essere colpite e facendoli riparare al sicuro. Eppure, come ogni ucronia fantascientifica insegna, è sempre pericoloso giocare con la Storia, modificarne gli eventi e le variabili, creare paradossi temporali. Sempre gli stessi di Philip Dick, sempre gli stessi della fotografia da cui spariscono i protagonisti non (ancora/più) nati di di Ritorno al Futuro, (quasi) espressamente citato quando Thom e Mars cantano You really got me dei Kinks (1964) a una festa degli ufficiali del ’41 proprio come Marty McFly cantava Johnny B. Goode alla festa scolastica in cui fare re-innamorare i suoi genitori come unico modo per poter esistere. Questa volta però è David Bowie che scompare dagli schermi del futuro. Sono Bob Dylan e Nina Simone, sono Stanley Kubrick e John Lennon. Non necessariamente cancellati come esseri umani dalla Storia, ma non più artisti necessari, al posto giusto nel momento giusto. La prima avvisaglia di ciò a cui può portare «accecarsi della propria stessa luce» e giocare a sostituire Dio, il destino, lo scorrere naturale degli eventi.
Del resto è tutto un paradosso temporale in LOLA, interessante esordio del britannico Andrew Legge che, fra i mascherini dai bordi morbidi del suo 16mm bianco e nero in 4/3 girato a mano direttamente dagli attori con Bolex, Arriflex e ottiche del tempo (inframezzati da falsi cinegiornali realizzati invece in 35mm con attrezzatura Newman Sinclair del ’27 e da reali immagini d’archivio Pathé e Getty, con almeno un paio di soluzioni di montaggio particolarmente brillanti nel rendere perfettamente credibile e coerente la visita di Adolf Hitler alla casa contenente il retrofuturistico marchingegno), giunge al Trieste Science+Fiction Festival 2022 dopo la prima fuori concorso a Locarno e i recentissimi passaggi a Sitges e alla Festa del Cinema di Roma. A partire già dall’incipit, con il cartello introduttivo che parla di una pellicola del ’41 ritrovata nel 2019 nella vecchia casa delle inventrici che, a sua volta, inizia con una videolettera di Martha/Mars alla sorella con cui tentare di cambiare il passato prossimo attraverso il futuro di una trasmissione da fare intercettare a LOLA nel passato remoto, in tempo per capire quali errori non ripetere, per distruggere il marchingegno e per riportare la linea del tempo alla sua normalità. Senza più trasmissioni false da mandare apposta in onda nel momento in cui il nemico capisce il gioco, senza più false accuse di doppiogiochismo e inevitabili passaggi al nemico per salvare la pelle, senza più bisogno di creare una Resistenza al nuovo regime, senza più attentati falliti e ancor più tragici epiloghi, ma con gli idoli degli anni Sessanta e Settanta di nuovo al loro posto, contro un sistema pieno di falle ma democratico, e con le due sorelle finalmente riunite, vive, felici. Un film meta-costruito da una delle due protagoniste, china sulla moviola a montare la storia della loro vita per tentare di salvare l’altra, che il regista immagina nelle ellissi del suo costante farsi, nell’ossessione casereccia per filmare e filmarsi, nell’intarsio fra Storia e melodramma, nella capacità delle geniali sorelle di inventare prima di chiunque altro la pista audio direttamente sulla pellicola, e quindi la prima macchina da presa con il sonoro incorporato. Il risultato è un falso documentario dalle venature fantascientifiche, fantastoriche e melò girato per lo più in soggettiva, fra immagini “rubate” e immagini consapevoli, fra ricostruzioni, archivi e pura immaginazione what if, che celebra la pellicola rovinata dal tempo e il senso del linguaggio cinematografico fino all’aperto gigioneggiare, all’ammiccamento, al consapevole sfruttare il potere di seduzione che l’emulsione graffiata intrinsecamente possiede nei confronti di qualsiasi cinefilo per nascondere sotto la grana e fra le ellissi come qualche soluzione narrativa possa sembrare a volte troppo semplice o frettolosa (in testa la morte tutto sommato stupida del tenente Holloway innamorato di Martha, ma anche la fuga di lei dal carcere mentre tutti la credono morta, o la foto finale che sembra citare al contempo il finale di Shining e la copertina Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band per esplicitare in maniera forse un po’ pleonastica ciò che era già perfettamente chiaro). Consapevole di come si tratti di piccoli limiti perfettamente perdonabili a un’opera prima, limitata nel budget ma non nella passione, nelle idee, nella capacità di immergere in una linea storica parallela. E se è vero che forse Legge avrebbe potuto osare qualcosa in più in questi ribaltamenti storici, magari sfruttando la nave civile americana usata come esca dagli inglesi per annientare la flotta nazista – «Un pedone per la regina» – per immaginare la reazione di un’improbabile alleanza fra Germania e Stati Uniti contro la Corona anziché limitarsi al τόπος, oramai un po’ abusato, della svastica che invade e conquista Londra per la vittoria nazifascista e della Norimberga al contrario in cui processare Winston Churchill, LOLA non smette nemmeno per un momento di funzionare e affascinare, rimanendo ben saldo nei suoi punti di equilibrio fra generi, istanze e formati differenti. Un film (ancora) imperfetto ma capace, un po’ come la sua LOLA, di fare già vedere l’autorialità che sarà, il talento, la riflessione sul cinema di ieri, di oggi e di domani. Un po’ come se un giovane regista, appena arrivato in orbita con il suo primo film, avesse appena aperto il portellone finalmente pronto a spiccare il volo. «This is Major Tom to Ground Control / I’m stepping through the door / And I’m floating in a most peculiar way / And the stars look very different today». Il resto lo potrà dire solo la Storia. Basta seguirla e vedere cosa accadrà.
Marco Romagna