LIVE FROM DHAKA (2016), di Abdullah Mohammad Saad

Dhaka è una specie di universo, composto da un movimento vorticoso e pulsante che lascia però poco spazio a chi lo abita. Sazzad è un ingranaggio del meccanismo, una parte che giustifica il tutto; giovane ambizioso alla ricerca della sua fortuna, più volte sarà costretto a scendere a patto con il destino, ad assecondarlo come a subirlo. Vorrebbe inizialmente avere a che fare con la finanza, ma il mercato azionario si è schiantato e dei suoi sogni rimangono solo i debiti. La sua disabilità gli impedisce di trovare altri lavori, mentre gli strozzini lo circondano sullo sfondo di un Bangladesh corrotto e violento, una pentola a pressione pronta a esplodere all’angolo di ogni strada. Anche il rapporto del protagonista con la sua fidanzata Rehana soffre una deriva psicologica oramai incontrollabile fra violenze e remissioni che non potrà che portare alla rottura; allo stesso tempo è logoro anche il rapporto con fratello tossicodipendente Michael, che comunica con lui unicamente per richiedere soldi. Sazzad vuole andarsene, andare all’estero, ma la Russia non accetta la sua domanda di ingresso. Il vortice della città è come un nervo scoperto che – letteralmente – lo fa ammalare: cede il suo fisico, e cede la sua mente. Quando muore il fratello non c’è motivo di restare, e la Malesia pare l’unico e ultimo luogo possibile per reinventarsi una vita. Ma la notte prima della partenza la ex gli comunica di non aver abortito. Tutto cambia, o forse.

Live from Dhaka è un’apparente presa diretta, è la realtà di un ragazzo come tanti colta nel suo progressivo (dis)farsi. È composto da scene spesso concise e quasi astratte, girate in un bianco e nero brulicante nella sua nervosa grana, simbolo forse della matericità della polvere e dell’inquinamento della metropoli, che coprono la città in un costante sudario grigio che immerge gli abitanti come gli spettatori. Il senso di costante minaccia e disperazione che prova Sazzad è quello che attraversa una società lacerata, che deve esprimere il proprio dolore con gesti di rabbia e violenza incontrollata, tanto che sarà proprio il protagonista a vedersi l’auto assalita e bruciata ad un un incrocio. Ogni attimo è vissuto al limite, con il rischio che possa essere l’ultimo, con l’ansia che l’universo Dhaka possa inghiottire e fagocitare altre anime. Emigrare, o almeno tentarci (anche in paese con il presente così travagliato come la Russia di Putin), non significa sostanzialmente ricercare la felicità, ma affermare un proprio diritto di sopravvivenza slegato da radici e legami che ti impongono di esistere in una realtà intollerabile. Sazzad sembra però costantemente impossibilitato a slegarsi da un destino gramo e amaro che lo ritrova sempre costantemente sconfitto, al cospetto di situazioni che in nessun modo è in grado di gestire. In questo senso sono le relazioni dell’uomo nella sua cattività più ostile, come in tante megalopoli del sud-est asiatico, ad essere indagate nel loro spettro di superficie e nei contrasti che da loro si amplificano. Le vittime di questa situazione, così, diventano quasi immediatamente carnefici di altre vittime (alla seconda), e questa è l’unica differenza tra coloro che quel destino lo accettano con tristezza e quelli che ancora cercano di ribaltarlo con la rabbia generalizzata.

La bravura di Abdullah Mohamad Saad sta nelle misure del suo esercizio di cinema, mai eccessivo e compiacente ma allo stesso modo senza nessuna slabbratura e nessuna deriva. Svolge ciò che si prefigge all’inizio, nell’apertura in medias res che lo porta sulle tracce di uno pseudo gangster movie, per poi virare su tinte quasi horror. Live from Dhaka è un film a basso budget che respira anche nell’uso del rumore di fondo, come delle musiche, e che impasta l’immagine rendendola più densa ed espressionista. I generi si mescolano con l’avanzare della storia, mentre sono le variabili ad intersecarsi e declinare la messa in scena; al centro c’è sempre il volto del protagonista, scrutato antropologicamente nei suoi dettagli comportamentali. La macchina da presa pedina Sazzad sempre più da vicino, nega e chiude lo spazio intorno a sé lasciandolo libero solo di respirare. E la realtà che si disfa al suo sguardo in un movimento che ormai non gli può più appartenere, compresso unicamente tra sofferenza e onirismo. Se prima era il mondo stesso a stritolarlo, ora è lui stesso a essere una macchina che distribuisce ed assorbe dolore. La posta in gioco diventa quindi la sopravvivenza, di un organismo come di una società che vive in un eterno presente smaterializzato e inquietante, fatto di bianchi e neri saturi in cui i grigi quasi stentano a trovare forma. Così è per Sazzad, e così è per molti dei quasi venti milioni di abitanti che vivono Dhaka, che la respirano e la subiscono. Del resto il fuoricampo rimane determinante nel film, come se potessimo intendere che un’esperienza ne racchiude possibili infinite. E proprio per questo l’esordio di Saad, presentato due anni fa a Rotterdam e ora ospitato nell’Open Doors locarnese dedicato ancora una volta al sud-est asiatico, è indubbiamente un film su cui confrontarsi, nonostante potesse forse essere più audace e libero, per prendere coscienza di un frammento e viverlo in tutto il suo ineluttabile dolore.

Erik Negro