If you want me to
I will be the one
That is always good
And you’ll love me too
But you’ll never know
What I feel inside
That I’m really bad
Little trouble girlSonic Youth, Little trouble girl
«Ti attrae il pene o la vagina?» «Come faccio a saperlo?» «Lo senti nelle viscere!». Eppure la timida, introversa e un po’ repressa Lucia, 16 anni passati fra scuole religiose, un’educazione rigidamente cattolica e una madre che, dopo averla redarguita come se fosse il diavolo per un filo di rossetto, ancora si affretta a cambiare canale quando passa una scena di sesso in televisione, non sa ancora riconoscere e dare un nome a quel tipo di formicolio interno, a quel ribollire di pensieri e di ormoni, a quella brama chimica e profondissima di intimità e di corpi che segna ineluttabilmente il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Un risveglio sessuale al femminile, con la conseguente formazione di un’identità di genere fra attrazioni, dubbi, contraddizioni, incroci di sguardi (o magari di lingue) e vibrazioni della carne contrapposti a un’atavica e ossessionata paura (anche sociale) della tentazione e del peccato, su cui si incentra lo sguardo di Little trouble girls (in originale Kaj ti je deklica), con il quale la slovena Urška Djukić, prendendo in prestito (e rendendo plurale) il titolo dall’omonima hit dei Sonic Youth e guardando almeno a tratti dalle parti della Céline Sciamma di Portrait de la jeune fille en feu e ancor più di Naissance des pieuvres, esordisce al lungometraggio con un film di dettagli e di increspature che scorrono al di sotto della superficie, di vojeurismo sempre meno innocente e di ambiguità che si fanno sempre più aperte tensioni erotiche ora etero e ora omosessuali, ma anche di avvicinamenti, fughe, respiri mozzati e imbarazzati silenzi, di istintivi e chimici messaggi di seduzione che non è più possibile ignorare né ha senso tentare di dissimulare, e non certo in ultimo di simboli eleganti e inequivocabili fra i fiori che devono sbocciare (o magari essere letteralmente penetrati e impollinati da un’ape), la colossale vulva di pietra vero e proprio idolo pagano con cui si apre il film e una lunga crepa nel muro su cui far scorrere le dita come a volerle dare piacere. Un film con cui continuare, nel passaggio dalla terza alla prima età, quel discorso sulla sessualità nelle diverse fasi di vita delle donne che la regista già aveva iniziato nel 2021 con il cortometraggio d’animazione Granny’s sexual life, questa volta prendendo per mano fino al suo (letterale) rinascere come una novella Venere che emerge dalle acque una giovanissima e strenuamente virginale ragazza che, a differenza della stragrande maggioranza delle compagne del coro del quale fa parte, non ha ancora avuto quella prima mestruazione che segna l’ineluttabile punto di non ritorno fisico fra una bambina e una donna, non ha (ancora) mai baciato, non si è (ancora) mai masturbata, non ha (ancora) mai conosciuto le sensazioni del desiderio dell’orgasmo, non ha (ancora) mai visto un uomo nudo e forse nemmeno una ragazza, e proprio per questo non si sa spiegare quel brivido di attrazione che le scorre lungo la schiena e in giro per le zone erogene di tutto il corpo quando si ritrova a fissare i muscoli (e magari più da lontano i piselli) in bella vista degli operai oppure il seno, l’ombelico e le labbra rosse di quella sua compagna di corso decisamente più disinibita, che sembra sin da subito averla presa sotto la sua ala protettrice per accompagnarla nel definitivo percorso verso l’età adulta.
Eppure è paradossalmente proprio per i suoi maggiori pregi che rimane in bocca un retrogusto in qualche modo amaro, mentre scorrono i titoli di coda di Little trouble girls. Un coming of age dagli infiniti spunti di interesse e dall’indiscutibile talento nella capacità di eroticizzare, senza mai nulla di morboso ma anzi con grande raffinatezza e delicatezza femminile, i piccoli stravolgimenti del quotidiano come fossero disarmonie e note leggermente stonate nella ricerca di armonizzazione dell’intero coro, a sua volta intrinsecamente metafora della parte per il tutto, dell’unione di più voci in cui basta un minimo errore del singolo per far saltare l’intero equilibrio sonoro, della disciplina e del sacrificio in qualche modo sportivo-militare che farne parte comporta, della necessità di controllo fra la respirazione diaframmatica e gli armonici della bocca, e soprattutto del dover necessariamente vincere la timidezza e «metterci il cuore»; ma inevitabilmente anche del desiderio di un primissimo piano che si stringe sulle labbra, e che annulla tutto il resto in una sensazione di imbarazzo e inadeguatezza. È per questo che spiace profondamente per come Little trouble girls finisca alla lunga per soffrire di un prefinale e di un finale magari ‘giusti’ nella definitiva emancipazione e nella rinascita come individuo adulto e sessuale di Lucia, ma in definitiva troppo bruschi e forse rivedibili nei loro passaggi narrativi e ancor più simbolici, nel frantumarsi degli equilibri che porteranno il direttore del coro all’umiliazione pubblica e alla plateale cacciata della protagonista, nelle (in)decisioni, nelle incomprensioni e nelle serpeggianti gelosie che porteranno a una netta separazione proprio dove sembrava poter nascere qualcosa, e poi in quella cavalcata onirica e allegorica fra un (altro) coro di suore perfettamente armonizzate in una cripta e la solitudine di chi, con la testa ormai definitivamente da un’altra parte, si è finalmente aperta alla vita (con tanto di capelli sciolti e aria da vamp in monopattino) ma ha perso la voce e la voglia di farla uscire come dovrebbe. Un finale non all’altezza del resto del film che finisce inevitabilmente per depotenziare l’opera prima di Urška Djukić, presentata fra le Perspectives della 75ma Berlinale ed ennesimo film “non male” ma a cui manca qualcosa per essere davvero “bello” di questa edizione, che dopo una straordinaria capacità di costruire cinematograficamente (e musicalmente, con la mente che quasi inevitabilmente corre a Gloria! con cui lo scorso anno Margherita Vicario sempre a Berlino aveva saputo sorprendere più o meno tutti con la sua freschezza) tutte le premesse e buona parte dello svolgimento – dai sogni fanciulleschi ad occhi aperti di chi è ancora bambina a quel bagno pubblico in cui, fregandosene delle risate delle compagne che da fuori la sentono gemere o forse al contrario morendo dentro per la vergogna, per la prima volta scoprire fisicamente il piacere –, finisce per incastrarsi in un cul-de-sac senza via d’uscita fra il rifiuto di qualcosa di differente da un rapporto di amicizia, un aitante restauratore con cui scambiare (rigorosamente solo) sguardi prima di fuggire spaventata, e un insegnante (per lungo tempo unico uomo del film) al quale ritrovarsi ad aver detto troppo, finendo per distruggere l’idillio di quel ritiro in convento a Cividale in cui prepararsi assiduamente per il concerto. Certo, rimane la denuncia verso le pressioni psicologiche del diffuso bigottismo religioso, rimane la capacità di trasporre sullo schermo la formazione di un desiderio multiforme e ancora da riconoscere e stabilizzare in quanto tale, rimangono i feromoni e la sensazione positiva per tutto il corpo di un bacio, rimane il fermento di una sessualità nascente (e inevitabilmente peccaminosa, come due facce della stessa medaglia di pressioni sociali e familiari) per la quale inevitabilmente ritrovarsi a rimettere in discussione i propri valori, le proprie convinzioni, le proprie relazioni, il senso stesso del coro e della sua armonia. Così come rimangono i momenti di ottimo cinema, dai dettagli corporali del coro all’obbligo e verità con cui le ragazze indicate a turno dalla bottiglia raccontano le proprie esperienze (o inesperienze) e canalizzano le loro tensioni erotiche (magari cercando, nel disperato ultimo tentativo di non peccare nemmeno quando costrette a «dare un bacio appassionato», sì delle labbra ma rigorosamente della Vergine Maria), dai particolari in primissimo piano sulla respirazione e sul cantato ai tagli di luce che rendono se possibili ancora più eleganti le inquadrature nel (raro ed accurato) formato 3:2, dalle statue in giro per la città alle gambe “proibite” che spuntano sotto la gonna. Passando da quel bacio «di prova» prima con le proprie mani e poi con la bella Ana-Maria alla tentazione notturna di riprovare quella sensazione, e dalla ritrosia impaurita quando si intuisce che qualche cosa possa iniziare ad andare al di là del gioco. Ma rimane anche un qualcosa (in realtà troppo) di irrisolto, di insoluto ben più che solo oscuro, con cui Little trouble girls arriva fino a un certo punto e poi si ferma, fa trenta ma non trentuno, alza l’asticella ma poi sembra in qualche modo soffrire di vertigini, preferendo in sostanza scendere dalla giostra che aveva così brillantemente creato, e inevitabilmente aprendo alle praterie del rimpianto per quello che sarebbe potuto essere.
Marco Romagna