L’ISOLA DEI CANI (2018), di Wes Anderson
Non ci piace farlo, e se ci leggete saltuariamente o spesso lo sapete già, ma a volte è davvero necessario: usare i termini soggettivi, i vari “io” e “mio” che esprimono pareri soggettivi senza nemmeno dare l’illusione delle potenzialità di un’opinione decisa dai toni pseudo-oggettivi. Con Wes Anderson, autore di cui non ci siamo mai ritrovati a scrivere niente sino a oggi, per il sottoscritto è impossibile non partire con termini affettivi, legati a esperienze personali più che a un’ipotetica importanza nella storia dell’audiovisivo.
Potrei esordire dicendo che I Tenenbaum (2001), a oggi probabilmente ancora il suo film più riconosciuto e apprezzato, è stato uno dei primi film a coinvolgermi a livello empatico in direzione di una vera e propria passione per il cinema; e la scena con in sottofondo Needle in the hay di Elliott Smith rimane probabilmente l’apice drammaturgico della filmografia di Wes. Ma sarebbe insincero, e un po’ paraculo, da parte mia, perché finirei per dare al mio rapporto con l’autore un’importanza che non è poi così pregnante. Da poco tempo a questa parte, posso autodefinirmi uno “studente di cinema”, ed è un’etichetta strana da affibbiarsi perché, se unita a quello che in teoria è il mio compito su questa testata online, significa che sto contemporaneamente seguendo due sentieri destinati a incrociarsi, con l’idea di cinema che diventa componente sia attiva sia passiva, e gli occhi che si incrociano andando sia verso il fuori che in profondità. L’isola dei cani l’ho visto in anteprima, non a Berlino (come qualcun altro di noi di CineLapsus…) ma a Milano come parte “extra” del percorso scolastico in atto, in un periodo denso di studi tecnici che da una parte arricchiscono il mio sguardo e dall’altro rendono più complicata la costruzione di un punto di vista, di un giudizio. Circondato da compagni studenti, ognuno con interessi differenti e competenze differenti, da chi ha grandissima capacità analitico-tecnica nei confronti del cinema ma non sopporta Antonioni fino a chi sa tutto ciò che è possibile conoscere sull’ottica e sulla fotografia (a differenza mia) ma non ha mai visto, per fare un esempio illustre tra tanti, un magnifico saggio visuale come lo può essere Il conformista, non ho potuto che notare che nei confronti di Wes Anderson tendenzialmente la cinefilia si può dividere in due categorie nette: c’è chi lo ama sconsideratamente per il suo umorismo e la sua immaginazione e chi, invece, mal sopporta la sua zuccherosità, anche probabilmente a causa proprio della possibile irritante sopravvalutazione derivante dall’attrazione mediatica nei confronti di ogni sua nuova uscita da parte degli hipster e degli appassionati dell’ultim’ora. Ci sono anche innumerevoli zone grigie, e io intendo collocarmi proprio tra queste perché con Anderson ho un rapporto decisamente strano: a malapena lo considero degno di nota in situazioni normali, ma mi piace tantissimo ogni volta che guardo un suo film. E certo, I Tenenbaum rimane importante per me, ma in un certo senso lo possono essere tutti i suoi film, al punto che nel periodo, svariati anni fa, in cui ho deciso di recuperare per intero la sua filmografia, mi sono reso conto che sotto certi punti di vista ogni suo film per me è il suo miglior film.
Bottle Rocket (1996) è il più bello perché è il più umile, prima sperimentazione in direzione della formazione di uno stile. Rushmore (1998) è il più bello perché è il meno barocco, un quasi classico ‘bildungsroman’ anti-Nabokov che unisce in maniera sottile John Hughes ad Antoine Doinel. I Tenenbaum è il più bello non solo per i motivi affettivi che ho già ampiamente spiegato, ma anche perché è quello in cui il meccanismo di narrazione corale funziona in maniera più strutturata ed empatica. Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) è il più bello perché ha trovate visive, pur spesso parodistiche e vicine al divertissement casuale, che nei momenti più inattesi deflagrano in dramma, portando anche a sentiti tributi a David Bowie. Il treno per il Darjeeling (2007) è il più bello perché è il più maturo e drammatico, il più esplorativo e funereo, uno dei più cinefili (si sprecano i paragoni divertiti a Satyajit Ray e al cinema parallelo bengalese degli anni ’50) e forse il più implicitamente romantico, in particolare tenendo in considerazione come parte del film il cortometraggio minimalista mélo Hotel Chevalier con Jason Schwartzman e Natalie Portman che andrebbe accompagnato alla visione come ideale prologo. Fantastic Mr. Fox (2009) è il più bello perché trasporta le figure e le idee estetiche del cinema di Anderson per la prima volta nell’ambito dell’animazione, utilizzando la stop-motion per creare una vitalità ironica e un sottotesto politico precedentemente inediti. Moonrise Kingdom (2012) è il più bello perché è il più espressivo, il più tecnicamente impeccabile, il più “facile”, volendo, da inserire in un’ottica di cinema di culto. E The Grand Budapest Hotel (2014) è il più bello perché è diverso, sperimenta con i formati e la narrazione citando innanzitutto Zweig ma poi, in egual misura, Umberto Eco e James Bond, finendo poi per lavorare su una struttura corale di racconti dentro racconti dentro racconti che trasforma l’ennesimo gioco cinefilo di mise en abyme in una vera e propria epopea barocca, a volte addirittura spietata, con uno stile mai così lucido e complessa (la vittoria di Iñàrritu alla regia nel 2015 rimane un mistero). E ugualmente L’isola dei cani è il più bello perché “supera” Fantastic Mr. Fox in termini di animazione e di metafora politica, divenendo un visionario collage di evidenti tributi cinematografici ed esponendo con chiarezza fiabesca un’idea di cinema che, ironicamente, non è mai stata così adulta e interessante da visitare.
Riassumendo la trama: nel Giappone di un ipotetico bizzarro futuro, all’incirca 20 anni dopo il nostro presente, dilaga una malattia tra i cani che rischia di infettare anche gli esseri umani. A Megasaki (città fittizia il cui nome storpia nel contempo Miyazaki e Nagasaki…), il sindaco Kobayashi, nel suo piccolo una specie di dittatore fascista, decide di ovviare a questo problema spedendo tutti i cani infetti su un’isola di spazzatura poco distante dal porto della città. Il primo cane a essere esiliato è Spots, il cane da guardia di suo nipote Atari, che perse i genitori da piccolissimo in un incidente d’auto. Sei mesi dopo, Atari ruba un aeroplanino per arrivare sull’isola alla ricerca di Spots. Qui si ritrova a stringere un forte legame con un gruppo di cani che lo vuole aiutare, mentre a Megasaki il sindaco e il suo vice, di nome “Maggior-Domo”, vogliono evitare che si trovi un antidoto per la malattia. Nel frattempo, Tracey, una giornalista di una gazzetta liceale, proveniente da Cincinnati e innamorata di Atari, cerca di organizzare un colpo di stato, percependo che c’è qualcosa che non torna nella versione dei fatti fornita da Kobayashi. Una storia, come al solito, complessa, pregna di colpi di scena, momenti spiazzanti per l’inaspettato tasso di tematiche adulte, ma anche molto divertente; e, come sempre, con un cast stellare (vocale: i cani, “tradotti in simultanea dal loro abbaiare” parlano tutti in inglese, mentre ogni altro personaggio parla con la propria lingua madre, con i lunghi dialoghi in giapponese tradotti da una Frances MacDormand “dietro le quinte” e Tracey che parla quasi sempre in inglese) che include molti habitués del regista, come Edward Norton, Bill Murray, Bob Balaban, Jeff Goldblum, F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Tilda Swinton e Kara Hayward, ma anche una serie di nomi nuovi, tra i quali spiccano Bryan Cranston, Liev Schreiber, Greta Gerwig, Scarlett Johansson, Ken Watanabe e persino, in un ruolo piccolissimo, Yoko Ono. L’operazione, così presentata, non sembra dissimile dagli altri lavori del regista, ma, considerato il lungo exploit del paragrafo precedente, mi pare importante sottolineare che sotto certi punti di vista nessun suo film è davvero “simile agli altri”. Ci sono sempre dei richiami, tra gli attori, i toni nei momenti umoristici e le storie d’amore, ma i progetti e i punti di riferimento partono sempre da nuove ispirazioni, da nuovi scopi e soprattutto da nuove costruzioni narrative. L’isola dei cani è uno strano “mondo straordinario”, perché è tanto una scenografia da favola quanto un campo di sterminio, tanto un nuovo regno magico come il Grand Budapest quanto una rappresentazione pseudo-esopica di una distruzione dell’umanità sulla scia della Nanchino occupata dalle forze armate Imperiali nipponiche. Wes Anderson qui usa l’animazione per dare un nuovo tipo di vitalità, tutta in salsa passo uno (con gli schermi televisivi ucronici e retrò che proiettano immagini in animazione 2D), creando un vero e proprio mito morale in cui le tinte di humor, tanto evidenti quanto leggere, servono come mai prima d’ora più che altro ad accentuare le pause drammatiche, le divergenze analettiche e la sintassi di un ‘passaggio del testimone’.
Come (e più che) in Fantastic Mr. Fox, in cui la volpe titolare aveva uno scambio silenzioso con un lupo attraverso il semplice gesto del pugno alzato, sembra subentrare una quasi inattesa componente ideologica, attraverso la quale pare evidente che l’ecologismo e l’animalismo, sincerissimi e resi attraverso una costruzione poetica (v. l’haiku che recita «che fine ha fatto il migliore amico dell’uomo?»), sono comunque, almeno parzialmente, un pretesto per far passare un messaggio tutt’altro che tradizionalmente democratico: un invito alla resistenza, se vogliamo, con continui richiami al comunismo, pur filtrati attraverso un’estetica da libro pop-up. La staticità simmetrica delle figure tradizionali del cinema di Anderson, personaggi estrapolati da un mondo vicino al realismo poetico ma resi vignettistici per accentuare la dimensione più strettamente lirica dell’imprevedibilità emotiva della condizione umana, trova ne L’isola dei cani un nuovo equilibrio dal respiro più ampio, in cui l’importante non è lo specchiarsi dell’immagine quanto la delineazione di un nucleo centrale dell’inquadratura, attorno al quale fluiscono colori e sogni: di mondi futuri, poetici, liberi. Il cane, anche nella voce narrante del film stesso, rimanda a un termine inglese sotto certi punti di vista intraducibile, ovvero «underdog», perdente, reietto, scarto della società. In una sommossa proletaria, anche il cane randagio può brillare e resuscitare in una metamorfosi eroica che può salvare la sua specie. E il termine stesso «cane randagio» non può che ricordarci qualcos’altro, un epocale capolavoro del cinema; e non è Stray Dogs (2013) di Tsai Ming-Liang, ma Cane Randagio (1949) di Akira Kurosawa, un film sulla crisi post-bellica in Giappone ma anche sulla ricerca di una fratellanza, di una soluzione per i problemi e le violenze del futuro. E Kurosawa è stato per Anderson un grosso punto di riferimento, come si può notare non solo dalla scelta della colonna sonora, che prende direttamente un brano dalle partiture composte da Fumio Hayasaka per I Sette Samurai (1954), ma anche dalla tensione nella gestione dei campo-controcampo, dalla costruzione dei team dei personaggi, dai cenni shakespeariani, dalle scenografie. Ma il cinema giapponese non finisce lì. C’è ovviamente lo Studio Ghibli (Wes Anderson cita Miyazaki come ispirazione, ma a noi viene soprattutto in mente Pom Poko (1994) di Takahata) e una serie di anime distopici, come Akira (1984) di Otomo, che possono fungere come galleria di immagini di partenza, ma c’è anche la fazione più colorata e delirante della Nuberu Bagu, tra le scenografie di Pistol Opera (2001) di Seijun Suzuki e i filtri cromatici psichedelici di Pastoral: to die in the country (1974) di Shuji Terayama, che sembra fare capolino, forse casualmente, in qualche sequenza, in particolare in quella della galleria di bottiglie. È, forse, un potpourri postmoderno e forsennato in un citazionismo decisamente tutt’altro che innovativo, ma estremamente sentito, tanto da interrompere le gag più fisiche e ‘à la Looney Tunes’ con l’arrivo dei fantasmi del passato dell’arcipelago nipponico, trasformando ogni piccolo momento esplosivo per rimettere in scena il fungo atomico, spettro di Hiroshima, icona di un fallimento politico e di una ferita che ha squarciato per sempre la Storia in due.
E quindi? Ha senso vedere L’isola dei cani? È diverso dal resto della filmografia di Wes Anderson (ma, ripeto, per quanto mi riguarda, e so di essere abbastanza isolato, quasi tutti i suoi film, per qualche ragione, sono diversissimi dagli altri), è un tributo mai superficiale al cinema giapponese, un film estremamente politico e sinistrorso senza vezzi letterari. E ci sono molte altre cose da dire, dal design di Maggior-Domo che si ispira a Carel Struycken ai manifesti di Kobayashi che ricordano il Kane wellesiano o alla colonna sonora principalmente composta da tamburi, in una maestosa allegoria omnicomprensiva, discendente diretta del teatro kabuki, che in un modo o nell’altro fa penetrare in un mondo che non smette mai di stupire e sconvolgere lo spettatore. Ma ripeto, ho un rapporto strano con Wes Anderson. Domani o dopodomani forse l’entusiasmo per il film sarà parzialmente svanito, e quando lo rivedrò, se lo rivedrò, mi ci re-immergerò completamente, facendomi inondare in un amore verso la sua idea di cinema che ha pochi appigli razionali. Perché ha ragione anche chi dice che può essere stucchevole o che può essere inutile e vacuo, chi lo accusa di piattume visuale e di freddezza programmatica. Ma ci si perde, a volte, come nella magnifica scena, forse la più bella di tutta la sua filmografia (insieme a quella de I Tenenbaum citata all’inizio, all’inseguimento nel museo di Grand Budapest e al doppio funerale de Il treno per il Darjeeling) in cui, in un breve flashback, si assiste al primo incontro tra Atari e Spots. Quello è un momento strappalacrime vero, privo di retorica, in cui con poche parole, pochi suoni e grande stile si crea qualcosa che è difficile descrivere, ma che funziona. Funziona in maniera incredibile.
Nicola Settis