UNA MADRE UNA FIGLIA (2021), di Mahamat-Saleh Haroun
È lo stesso titolo internazionale The sacred bonds a suggerire “legami sacri” come traduzione per il ciadiano Lingui, destinato alla distribuzione italiana come Una madre, una figlia. Eppure c’è un senso ancora più profondo, nella parola originale. Un senso destinato a sfuggire a ogni tentativo di trasporla in qualsiasi altro idioma, legato a doppio filo al vivere e convivere in un determinato tessuto sociale. Un senso che affonda le radici nella tradizione e nella cultura locale, nella «famiglia» musulmana e nella labirintica provincia di case di fango che si estende ai margini più poveri delle città. Un senso comune di connessione e di reciproca appartenenza, di solidale mutuo rispetto e di vicendevole soccorso, nella consapevolezza che l’intera esistenza è strettamente collegata a quella degli altri e che solo combattendo fianco a fianco ogni battaglia della quotidianità sarà possibile andare avanti. Implica intrinsecamente un vincolo, la parola Lingui. Non (necessariamente) un legame di sangue, ma un impegno condiviso di tutta la comunità per diritto di nascita, per appartenenza, per atavica essenza. E non è certo un caso che Mahamat-Saleh Haroun, ventidue anni e una quindicina di film dopo essere stato già nel 1999 primo regista del primo lungometraggio ciadiano di sempre con Bye bye Africa, l’abbia scelta come titolo e concetto chiave del suo nuovo (e, tanto vale dirlo subito, debole) lavoro, presentato come ormai di consueto in concorso a quel Festival di Cannes frémauxiano che dieci anni esatti fa lo volle anche in giuria. Proprio per la sua sostanziale intraducibilità, proprio per il suo legame inscindibile con i luoghi e con le culture africane, proprio perché è un qualcosa che semplicemente c’è e si sente, come una fratellanza condivisa più forte delle storture delle leggi e delle religioni, più forte degli abbandoni e dei ripudi familiari, più forte delle condanne sociali e delle repressioni del patriarcato islamico. A volte l’unico appiglio, specialmente per una donna sola che da quindici anni, la metà esatta della sua vita, deve crescere una figlia nei sobborghi assolati di N’djamena. Un luogo dove non c’è spazio per una ragazza madre, abbandonata dall’amato del tempo, dalla comunità e perfino da una famiglia che mai ha accettato il disonore di una gravidanza all’infuori del matrimonio, ma in cui la protagonista Amina ha saputo cambiare quartiere, fingere di essere vedova e in qualche modo rimboccarsi le maniche e ricominciare.
Inizia con il suo lavoro Lingui, intenta a incidere e smontare un vecchio pneumatico da camion per estrarne la piccola anima di fil di ferro e trasformarla nelle tradizionali ceste da andare poi a vendere, rigorosamente accatastate sulla testa, in giro per il villaggio. Una sequenza che, con il senno di poi, già contiene in nuce tutte le qualità e i problemi che saranno del film, ai limiti del sontuoso nel suo evidente e curatissimo talento visivo quanto problematico e farraginoso in una sceneggiatura che alla tenuta e credibilità narrativa preferisce il simbolo e la retorica ad effetto. Perché è indubbiamente un’immagine potente, quella di Amina che si suda e si sforza in un lavoro così ingrato e pesante, costretta a cavarsela da sola con tanta fatica e risultati giocoforza modesti per badare a se stessa e alla figlia adolescente Maria conservando il rispetto di una comunità ostile a tutto ciò che il Corano e la Legge Islamica non consentono. Ma è pure difficile non pensare a come, fra i tutti possibili materiali di recupero, se ne possano trovare a dozzine molto più adatti allo scopo, con una percentuale di ferro nettamente più alta, con una lavorazione molto meno gravosa e soprattutto privi di centinaia di chili di inutile gomma da smaltire – dettaglio che il film, semplicemente, omette. Un sostanziale anticipo di tante soluzioni di scrittura poco felici, ora telefonate nella loro retorica e ora forzate ben oltre i confini del credibile. A partire da una sorella benestante con cui si è tagliato ogni rapporto al punto di non volersi più sentire nemmeno al telefono che, nel giro di un solo dialogo, dimenticherà ogni attrito e in nome del ritrovato lingui si toglierà persino i gioielli che indossa pur di aiutare economicamente Amina, passando per un tentativo di seduzione che vorrebbe essere l’apice della drammaticità e invece sfiora il ridicolo involontario, fino alla restituzione del tutto immotivata della cifra pagata per l’operazione illegale già eseguita e perfettamente riuscita «perché ormai siamo sorelle, e le sorelle non pagano». Per non parlare della «falsa infibulazione» con cui ingannare gli uomini, oscura pratica medica di solidarietà femminile e lingui che tutti prendono per buona, ma che nessuno minimamente spiega in che cosa consista e come possa sembrare “vera”. Ma a ben vedere anche la figura dell’imam che ripetutamente perseguita Amina per le sue assenze da qualche preghiera in moschea o per il capo scoperto nel cortile della propria casa è talmente esacerbata nella sua funzione da finire per sembrare quasi più uno stereotipo del maschilismo islamico da dare in pasto al pubblico occidentale che un personaggio, come una sorta di villain ipocrita che incarna tutto il male del patriarcato senza possibilità d’appello. Ed è solo di poco più stratificata la caratterizzazione del vicino di casa Brahim, il cui progressivo disvelamento da timido pretendente che propone il matrimonio ad Amina a colpevole dello stupro della figlia è in realtà più che intuibile ben prima della rivelazione su cui Haroun baserà il principale colpo di scena, già evidente nella sua gentilezza fuori misura contrapposta alle sue ronde per il quartiere armato di fucile, nella sua melensa affabilità contrapposta al disprezzo e al timore con cui Maria ogni volta lo guarda rigorosamente nascosta da un angolo o dalla porta socchiusa. Fino all’inevitabile epilogo, un bastone per vendicare e riaffermare (pur senza arrivare alla colpa di uccidere) la dignità delle due donne, e poi la fuga in quel dedalo di case tutte uguali che sulla carta sarebbe una metafora pressoché perfetta delle difficoltà di uscire dalla condizione femminile, ma viene depotenziata dal fatto di essere messa in scena una sola volta, come l’ennesima forzatura aggiuntiva dopo che in tutto il film nessun protagonista si era mai perso.
Dispiace, perché sarebbe stata in potenza estremamente interessante, l’intuizione da cui prende le mosse Lingui. Un sostanziale ripetersi generazionale della storia di Amina che in realtà ne è un ribaltamento, con la giovanissima figlia Maria, «tutto quello che ho», che alla sua stessa età rimane incinta ma a differenza sua vuole abortire, e con Amina che a differenza di come fece la sua famiglia non potrà che stare vicina alla figlia in una battaglia apparentemente impossibile. Preoccupata dalle possibili conseguenze di un’operazione costosa, rischiosa e illegale, ma al contempo conscia di come il corpo sia di Maria e non di quelle leggi scritte rigorosamente da uomini che vietano alle donne di interrompere le gravidanze, e magari nel frattempo pretendono l’oscena pratica della mutilazione genitale per le loro mogli e le loro figlie. Un paradosso che diventa paradigma, si erge ad assunto e a necessità di scelta, o con le donne o con le tradizioni secolari dell’Islam, e lascia riemergere il lingui nelle traiettorie che si intersecano dei rapporti umani di solidarietà femminile. Messo in scena da Haroun con una perfetta consapevolezza del mezzo cinema, dei suoi linguaggi e dei suoi punti di vista. Il risultato è un film dalla confezione ai limiti dell’impeccabile, fotograficamente curatissimo nelle silhouettes notturne che si stagliano nel cono di luce del traffico cittadino e nelle piane assolate della periferia africana, nei quadri fissi che diventano pedinamenti a mano e nelle inquadrature, magari circolari dal basso, che incrociano l’immagine e le protagoniste fra le porte e fra le grate. Un film fatto di cromatismi saturi e contrastati fra i caldi e i freddi degli abiti tradizionali e degli ambienti, di fuochi stretti sui volti che offuscano i campi dalla profondità sterminata in cui si muovono, di violenze fuoricampo e di drammatiche soggettive. Ma del resto non è una novità che Mahamat-Saleh Haroun, residente in Francia sin dal 1984, sappia molto bene come girare, che conosca a menadito il dispositivo e le modalità con le quali utilizzarlo. Semmai il problema è che la perizia tecnica non può essere sufficiente, quando a mancare è il film, e anzi la sua perfetta costruzione formale e i suoi continui stereotipi lo denunciano ancor più come l’ennesimo prodotto preconfezionato per i Festival, costruito esattamente su ciò che il pubblico occidentale si aspetta di vedere. L’ennesimo limite di sguardo – e politico, non solo nei suoi più che vaghi echi colonialisti – della Cannes di Frémaux, che quando costretta per mancanza geografica a selezionare un film africano, come due anni fa con il pur buonissimo Atlantique di Mati Diop, lo cerca disperatamente in Francia, fra le conoscenze già radicate, fra i numeri di telefono che già da anni sono scritti in rubrica, chiudendo le porte a chissà quanti altri giovani autori che probabilmente hanno molto di più da dire, o comunque un qualcosa di diverso, realmente sincero e personale. Ma anche questa, purtroppo, non è una novità, e non resta che doverci farci i conti.
Marco Romagna