L’INGANNO (2017), di Sofia Coppola
Prima di tutto è importante una premessa: non abbiamo mai amato il cinema di Sofia Coppola. Lo abbiamo sempre trovato vacuo e pretestuoso, incapace di pompare contenuti al di sotto della patina fotografica, o meglio “colpevole” di utilizzare la sua estetica alla stregua di un arazzo che copre un (consapevole) buco nel muro, come se fosse un bluff a poker per nascondere agli spettatori come le carte che la regista ha in mano non portino a nulla, come se fosse una forma completamente priva di contenuto. Ammettiamo di essere fra i tanti “veneziani” ai quali, nonostante siano (già) passati sette anni, deve ancora andare giù quel momento in cui Quentin Tarantino consegnò il Leone d’Oro – a trionfare in un Concorso che, fra gli altri, ospitava film indispensabili come Essential Killing di Skolimowski, Post mortem di Larraìn, Road to nowhere di Hellman, Balada triste de trompeta di De La Iglesia, 13 Assassini di Miike, il sublime e invisibile Promises written in water di Gallo e Venus noire di Kechiche – proprio alla Sofia Coppola del mediocrissimo Somewhere, come ammettiamo di essere in realtà detrattori di data ancor più lunga, forse non già dai tempi de Il giardino delle vergini suicide, esordio problematico ma interessante di figlia (e sorella, e cugina) d’arte che a oggi rimane il suo film più compiuto, ma senza dubbio già dal successivo Lost in translation. Eppure, a differenza dei registi che ormai cerchiamo deliberatamente di non guardare più, e che comunque non copriremmo per non dargli un’importanza che non meritano – solo rimanendo al mediocre concorso di questa Cannes70, (non) ricordiamo Hazanavicius, Lanthimos e Akin –, Sofia Coppola ci interessa sempre perché è un’autrice vera, che ha sviluppato un proprio riconoscibile e coerente linguaggio e che sta – purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista – sempre più facendo scuola. A dispetto del cognome che porta, sul quale fratelli e cugini sparsi per l’indie americano (che poi indipendente dove?) stanno effettivamente vivendo di rendita, Sofia Coppola ha un’autorialità (in)discutibile e personale, e siamo pronti a scommettere che fra 20-30-50 anni, a fronte della rimozione di tanti Hazanavicius, della figlia d’arte newyorchese si parlerà ancora – magari bene, magari male –, e per questo motivo non solo la seguiamo nel suo percorso cinematografico, ma cerchiamo ogni volta di presentarci in sala – dopo le ammissioni, è tempo di credere alle promesse – liberi da pregiudizi.
Scoprendo questa volta che, a livello di tematiche, a differenza del resto del cinema della Coppola e per l’ovvio motivo del soggetto non originale, The Beguiled è un netto passo avanti, che smette di porsi come obiettivo quello di esprimere il vuoto arrivando invece troppo spesso al nulla, ma mette in scena, facendole sue, le tensioni erotiche e omicide messe su carta nel ’66 da Thomas P. Cullinan in A painted devil. Un romanzo che però, e qui sta il principale problema di The Beguiled, il suo confronto impietoso, era già stato messo in scena al cinema nel 1977 in quello che probabilmente è il maggiore capolavoro di Don Siegel, fantasiosamente intitolato in Italia La notte brava del soldato Jonathan. Questa volta il titolo italiano di The beguiled, si sa già, sarà il più letterale L’inganno, ma al di là delle scelte spesso perverse dei titoli da parte delle distribuzioni e del fatto che il film di Sofia Coppola non sia dichiarato esattamente come remake del film di Siegel, ma come nuovo (inutile?) adattamento dello stesso romanzo, è impossibile non trovarsi a confrontare i due lungometraggi basati sullo stesso soggetto, rendendosi conto di come la pur curata messa in scena “pittorica” della Coppola non riesca a mantenere quella stessa vitalità di Siegel nei suoi cambi di registro dal gioco di seduzioni al puro horror. Le fasi oniriche mancano del tutto, così come mancano parte delle reciproche tresche e convenienze, come mancano molte delle suggestioni più perverse, come manca il passato dei protagonisti, che nel film di Siegel ulteriormente alimentava la loro aura di ambiguità e di incesti. La notte brava del soldato Jonathan era fatto di una fisicità densa, nervosa, che sceglieva un ben preciso punto di vista virile che al tempo fece (a torto) accusare il film di misoginia. Sofia Coppola ribalta tutto questo al femminile, con la sua estetica di chiara matrice classica – che fotograficamente sarà anche impeccabile come un quadro, ma allora il merito va piuttosto il suo “pittore”, il direttore della fotografia Philippe le Sourd, oppure alla costumista Stacey Battat che immerge letteralmente nel Settecento con i pizzi insanguinati –, destinata questa volta a perdere qualcosa in un ritmo non sempre efficace al montaggio, che divide le cene in scolastiche inquadrature frontali su tutta la frase di chi sta parlando oppure, all’estremo opposto, fasi serrate di continui cambi di punto di vista, quasi come se Sofia Coppola non sapesse per prima scegliere da che parte stare, come se la sua messa in scena fosse in realtà più indecisa che ambigua.
La trama è quella nota, con poche o nulle variazioni: John McBurney (Colin Farrel), unico personaggio maschile destinato a scatenare tempeste ormonali e poi a far/veder precipitare la situazione, è un soldato nordista trovato gravemente ferito nei boschi in piena guerra di Secessione, che viene condotto in un istituto scolastico femminile del Sud più bigotto dove Martha (Nicole Kidman), che lo dirige con l’aiuto dell’insegnante Edwina (Kirsten Dunst), gli concederà ricovero per dare un esempio di carità cristiana. Ben presto però, in un emergere sempre più malato di sessualità repressa dalla religione e dalla guerra, Mc Burney si renderà conto dell’attrazione di entrambe – e anche di tutte le studentesse di ogni fascia d’età, fra le quali Alicia (Elle Fanning), il cui corrispettivo nel film di Siegel di chiamava Carol – nei suoi confronti, e nel tentare di sfruttare la situazione a suo vantaggio in giochi di corpetti e sottane finirà inevitabilmente per farsi scoprire a letto con Alicia/Carol, per essere spinto giù dalle scale, e infine per essere amputato di una gamba in modo da rimanere per sempre sotto il controllo delle pretendenti represse, deluse e tradite. Fino alla ribellione di lui, e fino alla cospirazione di loro per liberarsene, con il tetro collegio che assurge a perfetto “giardino delle vergini (stavolta) omicide”. E se nell’adattamento e messa in scena del (buono, inevitabilmente) testo di Cullinan, Sofia Coppola non manca di aggiungere sporadici tocchi di classe, a partire dai passaggi al francese proprio quando – nelle due cene “ribaltate”, una di desiderio e di libidinosi trés bien e una di funghi velenosi e di perfidi bon appétit – sgorga più forte la malizia, la regista statunitense finisce però per il resto per incartare la propria messa in scena in schemi mai così ripetitivi e piatti, che confezionano L’inganno come un film di inquadrature d’interni barocchi e di lumi di candela che a tratti quasi parrebbero voler scomodare il Kubrick di Barry Lyndon, ma non sanno dare agli spazi e alle figure nemmeno un briciolo di quella profondità tridimensionale. I morigerati movimenti di macchina, ben presto, da estetica diventano schema, e le profondità si annullano nei primi piani e negli specchi usati in maniera banale, scontata, anni luce distante dalla forte presenza fisica ed emotiva del film originale.
Certo, L’inganno si fa forte della densità del testo da cui è tratto e di un cast femminile straordinario, e probabilmente, se non esistesse La notte brava del soldato Jonathan, considereremmo quello della Coppola un film problematico ma tutto sommato da difendere, con alti e bassi di messa in scena a rendere paradossale il premio tributato qui a Cannes proprio alla regia, ma nel quale Sofia Coppola mette finalmente le sue capacità tecniche – che sappia costruire ambientazioni e girare è fuor di dubbio, semmai è nelle scelte linguistiche alla base e in ben precise soluzioni di montaggio che va discussa – a disposizione di qualcosa da dire, di qualcosa che finalmente si spinge al di là del cinema come semplice gioco e sospensione, a qualcosa che, al suo solito linguaggio basato sulla pura forma, aggiunge questa volta, finalmente, una componente di sostanza trovata nel contenuto/gioco perverso di salvataggi, desideri, possessioni, tragedia e morte di The beguiled. Ma così non può essere, perché il film di Siegel è da quarant’anni sugli scaffali e nella memoria, e come il pur volenteroso Colin Farrel non regge il confronto con il fascino del Clint Eastwood del tempo nel complicato ruolo del soldato McBurney, il pur “non brutto” film della Coppola non regge nemmeno lontanamente il confronto con quello, magnifico, del maestro. Ne è una versione banalizzata, che manca delle complessità di La notte brava del soldato Jonathan, che manca dello sguardo tranciante e multiforme di Siegel, che manca di quel suo punto di vista deciso, e che pure ne soffoca, al di là di qualche dialogo e qualche repentino sguardo, buona parte delle suggestioni corporali ed erotiche. Ma il vero punto su cui L’inganno scivola, ciò che annulla a monte pregi e difetti del film della Coppola, il vero “delitto” di The Beguiled, è la sua completa mancanza di utilità, perché i remake hanno senso solo quando (se possibile, quando possibile) migliorano un film rimasto in potenza per problemi tecnici o produttivi. Questa volta, il libro di Cullinan la sua versione cinematografica la aveva già, ed è una versione più bella, più complessa, più importante. Un qualcosa che Sofia Coppola, né chiunque altro a meno di modifiche radicali, avrebbe dovuto toccare, e non per ideologiche questioni di rispetto o di principio, ma semplicemente perché non era possibile rifare un capolavoro senza peggiorarlo. Come se la brutta copia arrivasse dopo la bella, rivelando tutta la ridondante inutilità di un film che, piaccia o meno – e non piace, non era in alcun modo necessario.
Marco Romagna