L’INFINITA FABBRICA DEL DUOMO (2015), di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi
In principio era il marmo. Quei blocchi bianchi e lucidi, immacolati, pronti a diventare arte nel corso di sei secoli, immutabilmente protesi verso l’infinito. Erano gli ultimi anni del ‘300, quando al Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti apparve in sogno il diavolo ad intimargli, pena la dannazione, di far edificare un luogo enorme e pieno di immagini demoniache. Inizia così la storia del Duomo di Milano, che il duo di documentaristi Martina Parenti e Massimo D’Anolfi affronta nel nuovo lavoro L’Infinita Fabbrica del Duomo, presentato a Locarno come apertura della sezione Signs Of Life. A due anni di distanza dall’ottimo Materia Oscura, celebrato alla Berlinale 2013 e quasi dimenticato in seguito dai distributori italiani, il duo artistico inaugura con questo lavoro una tetralogia sull’immortalità vista attraverso gli elementi naturali. Si inizia con il duomo di Milano, si inizia con la lenta pazienza, della terra che fornisce i materiali e dell’uomo che li lavora.
“Per sei secoli l’uomo ha pazientemente costruito. La maggior parte di questi uomini, non ha mai visto l’opera completata. All’uomo del Novecento, non è rimasto che ricominciare da capo”. D’Anolfi e la Parenti confermano l’ottimo stato di salute del documentario d’autore, firmando un’opera che si configura sin da subito come straordinaria, per linguaggio cinematografico e classe nelle riprese. Ma è soprattutto il montaggio il maggiore punto di forza del duo, splendidamente ritmato nell’apparente ieraticità, simbolo tangibile di un eterno divenire. Alternando immagini sofisticate e potenti, tutte di dettagli, come ad indicare una sorta di impossibilità nel vedere l’opera davvero intera e compiuta, con cartelli di commento che garantiscono un flusso pienamente letterario, i registi seguono tutte le fasi che hanno visto, vedono e vedranno protagonista il Duomo di Milano. Dall’estrazione del marmo al restauro, dal taglio dei blocchi ai calchi delle statue, dalla gioia dell’archivista che riesce a datare un documento alla chiusura notturna della chiesa, con il custode che gioca a freccette. Il Duomo è stato costruito dal Popolo. Sia nei ripetuti sacrifici economici della cittadinanza, sia nelle figure professionali: estrattori, intagliatori, cesellatori, architetti, orafi, vetrai, operai, ed ora anche gruisti, calchisti, segretari. Un lavoro collettivo, progetto che va avanti, infinito nonostante la forma definitiva, da generazioni e generazioni. Perché le statue si sporcano, si rompono, si rovinano, e l’uomo del Novecento, fresco di facciata e guglie, ha dovuto nuovamente rimboccarsi le maniche.
La lentissima marcia delle statue prelevate dal tetto e imbragate su una gru per essere trasportate al laboratorio per il restauro rappresenta splendidamente quell’idea di infinito che sta alla base del progetto, dà movimento alla staticità, sembra quasi che il marmo prenda vita nella cura quotidiana. Il forte e straniante impatto visivo riluce di una poetica appassionata, amplificata dalle musiche ambient diegetiche che si sposano con il sonoro della presa diretta. L’audio, così utilizzato, straripa oltre i bordi dell’inquadratura, suggerisce un costante fuori campo, aggiunge ulteriori pezzi al puzzle spaziotemporale proposto dagli autori. Come pure l’utilizzo di vecchi dagherrotipi e cianografie, per testimoniare le varie fasi della costruzione, come a ricordare ancora una volta la fragilità del concetto di tempo e l’impossibilità di avere un vero e proprio sguardo di insieme. L’idea di cinema di Parenti e D’Anolfi trova una propria originalità nella rielaborazione delle lezioni dei grandi maestri: da Wiseman hanno mutuato l’idea della centralità del luogo, da Herzog hanno preso a prestito parte della poetica, sostituendo con i cartelli la voce off. Ma viene in mente anche il più giovane Sniadecki (del quale ricordiamo The Iron Ministry in concorso qui a Locarno lo scorso anno), del quale hanno la stessa classe sopraffina nella gestione della macchina da presa. Il loro lirismo è semplice quanto efficace, e si insinua sotto la pelle dello spettatore con la pura potenza dell’immagine, come il sole dell’alba, ogni mattina, illumina le vetrate disvelando le storie in esse contenute. Con la pazienza della natura, capace di lavorare per migliaia di anni i depositi di conchiglie, trasformandole in marmo. Perché, come ci viene detto all’apice di un notevole climax emozionale, “Ogni conchiglia è una cattedrale”.
L’Infinita Fabbrica del Duomo conferma appieno lo straordinario talento dei due cineasti italiani. Un’opera a mosaico sul tempo e sullo spazio, frammenti di una realtà che lentamente si disvela. Rimane però un drammatico quesito, nonostante la coproduzione Rai Cinema: questo film troverà mai la luce delle sale? O sarà ancora la volta della ormai costante cecità distributiva italiana? Il grande cinema, nel Bel Paese, esiste ancora. Solo che si preferisce tenerlo nascosto al grande pubblico, consegnarlo quasi solo ad una nicchia festivaliera e di appassionati, dimenticando che la cultura, senza una reale proposta, è maledettamente difficile da raggiungere.
Marco Romagna