A volte può compiere percorsi tortuosi, l’elaborazione di un lutto. La sua chiave si può nascondere in un oggetto, in un ricordo ormai lontano che riemerge nel fondo degli occhi quasi come la scena di un film, in un sapore di quando si era piccoli che sopravvive intatto da qualche parte negli interstizi più profondi della memoria. O forse nella semplicità fanciullesca e giocosa di un tratto a carboncino che, nella luce del sole così come in negativo nel buio nerissimo della notte, abbozza giusto i contorni, tinteggiato a matita o ad acquerello in un’assoluta e perfetta monocromia (la pelle, i capelli, i vestiti) che rende unico ogni singolo personaggio e che al contempo colora il mondo della diversità di ciascun essere vivente. Anche i ricordi del resto, sin dai titoli di testa di Linda veut du Poulet!, co-regia fra l’animatore francese Sébastien Laudenbach (che questa volta, dopo aver realizzato interamente da solo il meraviglioso La jeune fille sans mains, si mette a capo di un’intera squadra di disegnatori coordinati secondo il suo stile unico e inconfondibile) e la cineasta romana Chiara Malta (che a sua volta, nel suo lungo lavoro con gli attori e non semplicemente con le loro voci, ha ulteriormente e consapevolmente stravolto ogni prassi tecnica del cinema animato), nient’altro sono che sostanziali fumetti tondi e coloratissimi che galleggiano come brandelli nella galassia della vita della piccola protagonista, rapidi a correre dagli sprazzi di idillio a tavola insieme fino al trauma della morte del padre, e con lui del gusto di quel pollo con i peperoni che sarà in qualche modo la chiave per ritrovarlo, o per lo meno per riuscire a fare pace con la sua mancanza, con l’averlo visto dal seggiolone mentre si accasciava sul pavimento della cucina, con la necessità di maturare una definitiva consapevolezza, e magari di trovare una (nuova) famiglia. È per questo che quel pollo che la bambina chiede così insistentemente alla madre, rea di non averle creduto e di averla punita da innocente, e altrettanto ostinata nel voler rimediare a ogni costo all’errore seppure del tutto incapace di cucinarlo, non è in alcun modo un capriccio di Linda, ma semmai l’emergere della sua identità, dei suoi ricordi rimasti a maturare nelle retrovie, dei suoi traumi finalmente pronti per essere metabolizzati. Attraverso un piatto che ha lo stesso inestimabile valore affettivo di quell’anello a cui comprensibilmente tiene così tanto la madre vedova, semplicemente riportato all’altezza dei bambini da cui i registi guardano l’intero film, schierandosi apertamente dalla loro parte con gli adulti pronti a rivelarsi sempre più inadeguati, ridicoli, contraddittori, e i più piccoli pronti a mettere in atto una vera e propria insurrezione con cui scoprirsi invece sempre più grandi, ribelli, potenti. Forti di una purezza assoluta, caotica e dolcemente anarchica, con cui rivoluzionare di giorno in giorno il (proprio) mondo fino a scoprirlo – e scoprirsi – diversi.
Il resto, presentato a maggio in AciD a Cannes, poi al 34mo FID di Marsiglia, successivamente come preapertura a Locarno e ora finalmente in prima italiana nel concorso principale del 41mo Torino Film Festival in attesa di quella che sarà l’uscita in sala come Linda e il pollo (anche se quella scelta di omettere il verbo volere inevitabilmente toglie qualche stratificazione al titolo originale), è un piccolo romanzo di formazione costantemente sospeso fra il dramma e la commedia, che passa attraverso l’avventura, un anello-ricordo mangiato (e poi vomitato) da un gatto, una fuga frenetica e un inseguimento (im)possibile. Bastano una bambina, le sue amichette e i suoi amichetti compreso chi è troppo piccolo per parlare ma non per ascoltare, capire e agire, e poi la sua indecisa madre, la sua dispotica zia, un poliziotto particolarmente inetto, un camionista che trasporta angurie ma soprattutto un grande cuore, e poi una nebbia di peperoni bruciati nella teglia dimenticata in forno per cui la sproporzione nelle reazioni degli adulti quasi farà schierare l’esercito. Alla ricerca di un pollo che sembra impossibile da comprare nello sciopero generale, ma che bisogna trovare a costo di rubarlo vivo senza avere idea di come ucciderlo (del resto, come si può elaborare e metabolizzare l’idea della morte senza necessariamente ripassare dalla morte?) mentre la rivolta dei piccoli, fra lanci di scarpe, magliette, pallonate e canne da pesca, esploderà all’interno della rivolta dei grandi. Una vicenda che il charachter design essenziale e le colorazioni piene di Laudenbach, così perfettamente complementari al soggetto immaginato da Chiara Malta e poi sviluppato insieme in sceneggiatura, mettono in scena su lucidi e carta in un mondo a carboncino in cui, come si diceva, tutto preso da solo è rigorosamente monocromatico, anche i gatti e i polli, ma al contempo (il) tutto è variopinto nell’incontro e nell’insieme delle singole macchie di colore, come coriandoli sulla strada a carnevale, o come pianeti che fluttuano nello scorrere fluviale dell’universo. Elementi di un immaginario fatto di giochi e di canzoni, di sogni e di caramelle, di desideri e di memorie sbiadite che progressivamente ritornano a fuoco, prima costruito attraverso lunghe prove e improvvisazioni insieme al cast (ottime le prove di Clotilde Hesme e Laetitia Dosch, ma anche del padre italiano di Pietro Sermonti, in mezzo agli attori bambini inevitabilmente capitanati dalla Linda di Mélinée Leclerc), e solo successivamente trasformato in disegni animati in grado di mantenerne sullo schermo lo stesso sguardo, lo stesso entusiasmo, la stessa vivida immaginazione, lo stesso senso di meraviglia. Che poi a ben vedere nient’altro è che l’ennesima declinazione di un’industria d’animazione, quella francese, che nella sua crescita costante e inarrestabile segna – tanto più in occasione di una co-regia insieme a una filmmaker italiana, per quanto ormai da diversi anni di stanza oltralpe – una distanza sempre più siderale con quella che, nonostante i recenti esempi virtuosi e al limite dell’indipendenza di Alessandro Rak, Simone Massi ed Enzo D’Alò (mentre non è certo un caso che Lorenzo Mattotti abbia dovuto a sua volta chiedere ospitalità a uno studio francese), di fatto dai tempi di Domeneghini non si è mai sviluppata nel nostro Paese. Ma non è questa la sede per parlarne. Quello che importa, qui, è un film semplicemente magnifico, dolcissimo e commovente, capace di declinare la morte, la memoria e l’elaborazione del dolore in una dimensione fiabesca e spericolata in cui tutto è pura impressione, puro contrasto, pura poesia. Puro cinema, perfetto punto di sintesi fra sogno e ricordo.
Marco Romagna