L’ÎLE (2023), di Damien Manivel
Sarebbe in qualche modo fuorviante tentare di razionalizzare in maniera troppo piana, o peggio ancora schematica, un film libero, spiazzante e affascinante come L’Île. Un lavoro ambiziosissimo e magnificamente stratificato, tanto minimale nella trama quanto invece complesso nella sua narrazione metacinematografica e non lineare, in cui i livelli (o meglio, le tante fasi di prova attraverso le quali giungere insieme all’intensità di ogni singola sequenza del film, alla recita finale, all’andare in scena) si innestano, si intersecano, si concatenano e costantemente si ripetono uno dentro l’altro fino alla perfezione (e quindi alla sincerità, al calore, al reale trasporto) di ogni singolo gesto. In un racconto che per procedere non può prescindere dal tornare continuamente indietro, alla precisissima costruzione di ogni suo blocco narrativo ed emotivo, in un continuo viaggio andata e ritorno fra il suo scorrere e gli istanti preparatori necessari per poter vivere l’istante definitivo della performance di fronte all’occhio della macchina da presa, mentre prende forma una fotografia a sua volta puntualissima, lunga un’ultima notte da celebrare insieme agli amici prima di partire per una nuova vita, del momento in cui l’adolescenza spensierata sta finendo per lasciare spazio ai cambiamenti e alle incertezze di un’età adulta ancora tutta da costruire, ma ormai impossibile da rimandare. Una notte in cui cercare di vivere e di godersi con la maggiore intensità possibile quello che ancora manca della giovinezza, senza però riuscire a scacciare la malinconia intrinseca nella consapevolezza che sarà l’ultima volta, la bellezza e il sentimento della sua fine, come il festoso funerale di un’età. La fine di un giorno, di un’estate, di un momento della vita, e al contempo l’inizio di un’altra fase, di un’altra speranza, di un metodo di lavoro, di un film che è opera collettiva da costruire e realizzare insieme. Per molti versi un controcampo della senilità del (sacro) corpo anziano e martoriato del precedente e già magnifico Magdala, con cui l’ex danzatore e sempre più mirabile regista (e montatore, e autore delle proprie colonne sonore) Damien Manivel, un anno dopo, intinge questa volta al contrario nel calamaio della jeunesse il suo cinema di carne, pelle e reiterazioni sempre da qualche parte fra la messinscena, l’allenamento sportivo e la coreografia. Fino a presentare nel concorso francese della 34ma edizione del FID di Marsiglia un film che ancora una volta si protende alla ricerca di una verità assoluta, di una precisione documentaria all’interno della finzione (non è un caso in tal senso che l’intero cast di giovani ragazzi conservi per il proprio personaggio il proprio reale nome di battesimo), ma soprattutto di una potenza di sguardo e di messa in scena che è possibile raggiungere solo attraverso estenuanti prove e ritorni allo stesso punto, nella ripetizione e nella progressiva immedesimazione, nei piccoli aggiustamenti dell’intonazione e del linguaggio del corpo, nel cercare fino a trovare la chimica fra le parti, gli sguardi realmente commossi e i sorrisi che servono «più imbarazzati», mentre uno strato di prove dietro l’altro e il montaggio che volteggia sperimentale quanto perfettamente narrativo fra l’uno e l’altro strato portano avanti la storia: immaginata e lungamente preparata, e quindi semplice quanto infinita, ineluttabile, fatta a sua volta di fasi, ripetizioni e ritorni. Come se il personaggio, il gesto, la parola e perfino l’inquadratura fossero già nella profondità di se stessi, solo da introiettare e fare definitivamente emergere attraverso il tempo e le tappe di avvicinamento necessarie per provare, sentire, vivere, e quindi finalmente poter recitare una reale trepidazione e un reale turbamento. Se si vuole, le medesime reiterazioni e gli stessi esercizi con cui già Manivel aveva fatto (imparare a far) rivivere sul palcoscenico Isadora Duncan in Les enfants d’Isadora, ragionando però questa volta in maniera molto più apertamente meta-teorica – e con uno specifico filmico che spezza, sovrappone e interlaccia a spirale le linee del tempo alla ricerca dell’origine di un’emozione forte e purissima in cui entrare e rimanere per poi rilanciarla dallo schermo verso gli spettatori – sul senso stesso del rappresentare e mettere in scena, sul preparare un film e un personaggio fino a capire se stessi, sul fare cinema insieme come sincero atto collettivo e forse in qualche modo terapeutico.
Al di là di un paio di brevi momenti di (vero/falso?) backstage in 4/3 low-fi, basta una sola macchina da presa a Damien Manivel, la principale, apparentemente sempre accesa a filmare (anche) ogni fase di prova durante la lunga preparazione del film – o forse, nella magica illusione del cinema, anche ciò che si vede delle prove nient’altro è che un ulteriore strato di finzione con cui mettere in scena l’atto di mettere in scena: è bellissimo non saperlo, e immergersi nel flusso emotivo anticronologico eppur crescente de L’Île credendo intimamente anche a ciò che è palesemente brutta copia con cui preparare la bella, oscillazione fra narrazione e creazione, tappa evolutiva, scena che cerca di sbocciare. Proprio come bastano pochi dettami fuori campo del regista, o il suo improvviso entrare nel quadro a sostituire temporaneamente un attore e un suo gesto necessario per la scena. Basta una sigaretta spenta o anche solo immaginata da passare di bocca in bocca fra tiri voluttuosi in cui fantasticare e rappresentare un fumo che non esiste, in attesa di quella vera che verrà accesa solo nel momento delle “vere” riprese, mentre in una palestra spoglia, con i propri vestiti e poi con i costumi di scena, e infine in un’ultima prova di giorno in location, ci si prepara a quella definitiva notte in cui correre, cantare, bere, spaccarsi di canne, vomitare ubriachi, litigare, fare appassionatamente il primo e al contempo ultimo sesso d’addio contro uno scoglio e poi aspettare insieme l’alba, mentre si sente una parte della vita che ineluttabilmente si sgretola come sabbia fra le dita, pronta a scivolare via e diventare ricordo, forse rimpianto, di certo momento cardine nella propria formazione come individui e quindi, prima o poi, malinconia. «Era l’ultima sera d’estate, la sera prima della mia partenza per Montréal», dice più volte fuori campo la protagonista Rosa. «Le mie amiche Olga, Damoh, Céleste, Ninona e Jules, mio fratello Yon e io decidemmo di continuare la nostra serata sull’isola. Avevamo l’abitudine di incontrarci ai piedi di una grande roccia: quello era il luogo che chiamavamo L’Isola». Un gruppo di amici consapevolmente sospesi fra la vita e la rappresentazione, fra la sincerità e la costruzione necessaria per riuscire a provarla ed esprimerla, fra l’immedesimazione del tempo e del luogo e la più pura immaginazione nei confronti di oggetti e situazioni ancora ipotetiche e da provare, mentre la macchina da presa li pedina rabbiosa e concitata, disorientante sin dalla prima inquadratura tremula nella sua corsa sulla battigia, sempre vicinissima ai loro volti in primo piano a registrare ogni minima variazione della loro anima. Sospesi fra il provvisorio e il definitivo, sul set così come nella caratterizzazione dei loro personaggi, così come inevitabilmente nella loro vita personale e reale, che a sua volta si affaccia al cambio definitivo di età. Fra abbracci che ritornano e gemiti d’amore, fra orecchini fatti a mano da ricevere in regalo e un quasi bacio che diventa scherzo e sabbia sulla faccia, fra la testa da tenere a chi (sta immaginando e simulando di) vomita(re nell’ultima prova generale) e soddisfatti «j’arrive» che questa volta non hanno bisogno di alcuna correzione. Fino a un gioco che diventa litigio e a una rappacificazione che diventa tableaux vivent, con tutti che in spiaggia e nel teatro di posa, in costume o vestiti normalmente, progressivamente si aggiungono all’abbraccio senza bisogno di parlare, ma semplicemente passandosi un qualcosa da fumare che non conta se sia vero o immaginato, conta solo condividerlo proprio come si condivide un’emozione, proprio come si condivide la gioventù, proprio come si condivide un tratto di vita, proprio come si condividono la gioia per l’inizio e il contemporaneo senso di mestizia della fine. Proprio come si condivide un atto creativo quale è cinema, fatto di ragionamenti per immagini e di anime da coordinare, di tentativi e di ripensamenti, di prove e di decisioni definitive. Di emozioni reali, da trovare, da replicare e da (far) rivivere all’infinito, inarrestabili e inevitabilmente circolari, sempre pronte a ripartire non solo dal set, ma se necessario già dai provini: «potremmo iniziare così». Una proiezione perpetua come la vita, per un film dalla bellezza cristallina, che parla tanto di gioventù quanto di cinema, tanto di metodo di lavoro quanto di sincerità delle commozioni, tanto di ostinazione quanto di estro e inventiva. Per una maturità autoriale sempre più manifesta, che va ormai ben oltre il talento da sempre evidente di Damien Manivel, e lo lancia definitivamente e a pieno diritto fra i più interessanti e stratificati cineasti della contemporaneità non solo francese. Continuare a ignorarlo, continuando a relegarlo ad autore di nicchia snobbato dalle selezioni ufficiali dei Festival principali e che nemmeno buona parte degli addetti ai lavori conosce, sarebbe semplicemente delittuoso.
Marco Romagna