LIGHT AND SHADOWS (1994), di Omar Amiralay – Oussama Mohammad – Mohammad Malas
Attraversare la memoria, farsi baciare dalla luce e nascondersi dalle ombre. Il cinema è questo, al di là di quello che fa apparire. Lo è, in maniera ancora più espansa, se si parla delle tracce che lascia attraverso la pellicola, di ciò che si crea(va) in un fotogramma da sfiorare, lucidare e curare. Lo è, e lo rimane nonostante il suo perdersi, come un qualcosa di terribilmente doloroso, che ha a che fare con l’oblio con cui dobbiamo convivere fragilmente fino a quando sarà lui ad assorbirci. Nazih Shahbandar apparirebbe a noi oramai forse come un folle, un catalogatore ossessivo di memorie altrui, di ciò che appartiene alla più vasta collettività come al suo intimo più nascosto. Nazih era d’altra parte un resistente al tempo e al suo scorrere, un personaggio forse fuori tempo massimo, un uomo ancorato a quella memoria tanto da legarsi a essa stessa come elemento di salvezza davanti a un presente incomprensibile, a un futuro che non avrebbe più potuto appartenergli e a un passato vissuto nell’ombra di una luce. Da piccolo era rimasto affascinato da quella luce, dall’elettricità, dalla tecnica, quasi da trovarsi al cinema per caso e lì era rimasto, a guardare a cosa quella luce avrebbe dato vita, movimento, anima. Nazih era un proiezionista nella Siria spesso vicina al dramma, custodiva un piccolo scrigno dei sogni in cui viveva oramai museificato. Nazih era diventato la stessa memoria che stava conservando.
Nel 1994 tre maestri del nuovo cinema siriano (Omar Amiralay, Oussama Mohammad e Mohammad Malas) si avvicinano a lui per osservarlo, regalandoci – in poco più di cinquanta minuti – un piccolo gioiello in video dal valore inestimabile. Light and Shadows è una dedica al frammento, una lettera aperta al mondo delle immagini (e forse alle immagini del mondo), un dolcissimo abbraccio a un eroe di quella memoria che ha attraversato. Si parte dalla giovinezza di Nazih ai tempi del proiettore a carbone, del suo stare in cabina di proiezione fino a quando l’elettricità si impossessò di tutto. Il cinema era infiammabile – forse doppiamente – ed era allo stesso tempo una questione di chimica – quasi metaforicamente -, ma era anzitutto un (non) luogo che poteva contenere tutti i luoghi possibili. Era il 1947 quando Shahbandar creò il suo studio pieno di marchingegni e macchinari degni di un inventore: era diventato pioniere (e allo stesso tempo anima) di una filmografia a continuo rischio di estinzione. Fabbricava autonomamente la sua attrezzatura, scriveva sceneggiature, costruiva set, immaginava nuovi metodi di registrazione e trasmissione del suono, produceva addirittura nuovi film. Sarà volere suo il primo film sonoro siriano, e sarà volontà sua il continuare a tenere vivi i sogni anche quando quell’epopea stava naufragando verso un altro Medioevo. Nazih restava lì, ancorato al suo cinema/casa/studio come capitano di una nave senza più meta e direzione, un vascello che dopo aver solcato tutti gli oceani possibili non ha più luogo né casa. E li deve ritrovare, magari proprio sulle sponde dell’Eufrate.
Film cardine, e chiave, dello splendido e geniale omaggio che DocLisboa ha dedicato quest’autunno a una mappatura possibile di quel fiume unico (“Sailing the Euphrates, travelling the time of the world”), questo Light and Shadows definisce anche le traiettorie di una cinematografia fragilissima e a tratti abbigliante, la stessa degli autori e della loro sorte dopo il primo contatto con Nazih. Specialmente di Mohammad Malas (tornato dopo aver studiato cinema a Mosca), che a metà anni Settanta si inventò con Shahbandar un cineclub clandestino. Nazih, da una cucina, riusciva a proiettare su uno specchio che rifletteva le immagini nel giardino adiacente. Guardavano Bergman e Fellini, ma soprattutto Godard e tutti quei film siriani che mai sarebbero potuti essere visti alla luce del sole. Resistevano in quella clandestinità e lì si fecero conoscere: in Siria arrivarono Tatì, Pasolini e addirittura i Cahiers. Anche questo raccontavano le rughe di Shahbandar venticinque anni fa, quelle mani che ancora giocavano con il tempo sfidando l’ossidazione delle pellicole e un’altra invenzione da sperimentare (un tentativo artigianale di filmare e proiettare in un innovativo sistema tridimensionale). Sapeva però che il suo impero dei sogni non poteva durare per sempre, un uomo rimasto solo come Nazih, convinto che i suoi stessi figli al termine della sua vita avrebbero distrutto tutto ciò che lui aveva custodito. Resiste così nella penombra delle sue pellicole, sfiorato da qualche raggio di sole e dall’inarrestabile malinconia di chi ha dato tutto per i propri e altrui sogni, restando aggrappato a quella durata provvisoria e infinita del tempo che gli rimane. Sogna ancora Nazih seduto su una sedia a dondolo, come quell’undicenne che si sedeva nell’ultima fila per sentire il calore emanato dal proiettore; sognerà per sempre, oltre alla sua persistenza all’interno di una memoria dolce e drammatica. Basta attraversarla, forse, per appartenere per sempre ad essa, come la luce che entra in una macchina da presa lasciando un’ombra per sempre impressa in un fotogramma, incapsulata, provvisoriamente fissa ma in eterno movimento, provvisoriamente morta e per questo immortale. Oggi è l’epoca del digitale, ma questo a Nazih non interesserebbe granché. E nemmeno a noi.
Erik Negro