LIFE AFTER LIFE (2016), di Zhang Hanyi
“Una famiglia che ha presso di sé un anziano ha presso di sé il più bello degli ornamenti e il più prezioso dei tesori”
Anonimo, antico proverbio cinese
Tempo fa si disse a proposito del cinema che, a differenza del teatro, è provvisoriamente morto, ma dialetticamente vivo nel suo eterno vagare attraverso la durata, mostrando la reincarnazione stessa della cariatide del tempo in movimento. Ci vuole molto coraggio per affrontare nel proprio esordio un assioma ontologico così potente in un film, soprattutto se dalla narrazione estremamente esile, dalla rarefazione continua e dai silenzi reiterati quanto ipnotici. Il nemmeno trentenne Zhang Hanyi si tuffa a capofitto in questa parabola sul confine labile fra apparenza e suggestione, sulla soglia continua di una morte che può solo evocare nuovi desideri malinconici di vita, sul desiderio di un’anima viaggiatrice e immortale, nella speranza continua che sia solo la fisicità a spezzare il flusso delle emozioni come quello dei ricordi.
Muore lo zio, il vecchio saggio di un villaggio, una lepre è lasciata libera nella foresta mentre un cane le dà la caccia, un ragazzo vaga in questo bosco tra le lacrime, il padre si affanna nella sua ricerca. I primi movimenti di questo film sono traslati, eterei, di una distanza astratta ma sensibilmente reale. Passano i minuti, la foresta tace, e quando il ragazzo rientra inizia parlare con la voce della madre morta, e nella sorpresa della casa esprime il suo unico desiderio, ripiantare il vecchio albero affaticato che giace nella loro casa abbandonata per dargli nuova linfa e vita. Nel frattempo l’anima trova riparo nel corpo di un cane imbizzarrito, le capre si nascondono sugli alberi, i topi nidificano gli armadi e massi abbandonati discendono continuamente la montagna. Sotto un cielo grigio, dove le fabbriche strappano terreno ai boschi, i campi dell”anziano zio morto sono oramai polvere e il paesaggio tutto sopravvive affannosamente nella sua continua precarietà. La bellezza automatica delle cose sboccia così nella poesia e nell’umanità di questo padre e figlio, nella loro crescita vicendevole, nel loro volersi bene, al di là di tutto e tutti in questo angolo di inferno terrestre color ocra, di un fascino potente quanto drammatico.
In questo Zhi fan ye mao (Life after Life, prodotto da Jiǎ Zhāngkē) Zhang Hanyi gioca con i fantasmi, gli dà voce e corpo, li disegna con austerità e comprensione attraverso lunghi piani che ampliano il respiro, coccolando queste anime in volo, rispettando il destino. Con la durata che si appropria di questo destino si limita a seguirli, quasi come se avessero una vita propria e solo la macchina cinema potesse dare loro una dignità. Non li vediamo mai, questi fantasmi, e la loro mancanza diventa la più forte evocazione possibile, sempre in bilico sul crinale sottile di un lago ghiacciato in cui basta un nonnulla per cadere, per spezzare l´immagine stessa d/nella nostra (sedimentazione). Forse solo quell’albero, quel dannato albero, sa a cosa potrà andare incontro, sa che nulla mai potrà finire fino a quando noi saremo in grado di pensare e di amare qualcosa o qualcuno. Il rapporto vicendevole tra fantasma e spettatore, diventa solido nella sua trasparenza, abbagliante e commovente. E così la macchina da presa accompagna figlio e padre per l’ultima volta in quella foresta dove tutto pare morto, a piantare quell’albero; ed è lei che li/ci fa respirare, è lei a cui rivolgono lo sguardo prima di lasciarsi abbandonare (padre e figlio, come fantasmi anch’essi, ricoperti da una fragilissima fisicità) ancora una volta al destino, sperando che possa essere più comprensivo. La voce del padre risuona a chiamare il figlio, lo schermo si fa nero, quasi a lasciarli camminare da soli attraverso le nebbie del fato, dopo averli abbracciati in un vortice di poesia e di umanità di struggente comprensione. É bello lasciarli così, ed è bello lasciarci qui, pensando che in un fotogramma, anche solo guardandolo, potremmo per sempre vivere, almeno come fantasmi.
Erik Negro