«It’s a God-awful small affair
To the girl with the mousy hair
But her mummy is yelling, “No”
And her daddy has told her to go
But her friend is nowhere to be seen
Now she walks through her sunken dream
To the seat with the clearest view
And she’s hooked to the silver screen
But the film is a saddening bore
For she’s lived it ten times or more
She could spit in the eyes of fools
As they ask her to focus on
Sailors fighting in the dance hall
Oh man, look at those cavemen go
It’s the freakiest show
Take a look at the lawman
Beating up the wrong guy
Oh man, wonder if he’ll ever know
He’s in the best selling show
Is there life on Mars»David Bowie, Life on Mars
«Stavo solo facendo del cinema», diceva sornione neGli ultimi fuochi il Monroe Stahr di Robert DeNiro, con il nichelino/McGuffin ancora sul tavolo e gli occhi dell’interlocutore ormai assetato di altre narrazioni che non riuscivano a smettere di guardarlo interrogativi e rapiti. Non gli era servita la didattica di un discorso per spiegare allo scettico scrittore che cosa fosse davvero, intimamente, il cinema, né tanto meno un’intera storia da raccontare. Gli era bastata la scena parziale di un film mai fatto, il frammento di un frammento, un istante in medias res in cui far ritrovare l’ascoltatore catapultato e rapito fra i campi e i controcampi della fantasia, con una serie di azioni da mimo in cui non conta che la borsetta e i guanti neri siano immaginari, conta solo che siano narrazione, che suscitino interesse, che incollino allo schermo, che facciano porre domande nel momento in cui un dettaglio non torna. Ma se nella breve e straordinaria lezione magistrale di DeNiro sceneggiata da Harold Pinter e orchestrata nel ’76 dall’ultimo occhio di Elia Kazan al momento dello squillo del telefono era stato necessario immaginare una conversazione, per far spergiurare all’illusoria protagonista di non aver mai posseduto quel paio di guanti che stava frettolosamente bruciando nella stufa, a Paul Thomas Anderson quasi mezzo secolo dopo non serve nemmeno più una parola. Basta e avanza riconoscere il respiro da una parte all’altra della cornetta, sentire riattaccare imbarazzati e subito richiamare ancora in silenzio. Quello stesso respiro trepidante e un po’ affannoso di chi è innamorato, quando il cuore sembra battere più forte e lo stomaco si stringe di viva emozione, quando ogni discorso rimane fermo in gola e si rimane fissi e inebriati a guardarla o anche solo a fantasticarla, sospesi fra la realtà e il sogno. Quello stesso respiro del primo impacciato e improbabile appuntamento, di quel bancone del bar al quale Gary è troppo giovane per andare oltre la Coca Cola e Alana è troppo grande per pensare a quel ragazzino brufoloso e dai capelli rossicci, con quasi dieci anni meno di lei, come a qualcosa più di un amico. Un respiro su cui si innesta un istante di cinema grande e purissimo, dalla levità miracolosa, dalla vibrante poesia: lui e lei, (non certo adoni e proprio per questo) bellissimi, che non hanno più nemmeno bisogno di parlarsi, mentre la televisione continua indifferente a fare chiasso e i rispettivi fratelli e sorelle guardano il silenzio telefonico che dice tutto dei protagonisti, proprio come lo sceneggiatore smarrito guardava il produttore incarnato da DeNiro. Senza nemmeno bisogno di dichiarare che si sta «facendo del cinema», ma semplicemente (di)mostrandolo, ancora una volta, in una vertigine solo da afferrare, solo da sentire, solo da vivere, lasciandosi dolcemente cullare nel buio di una sala.
Che poi, a ben vedere, tutto Licorice Pizza è implicitamente una straordinaria definizione ontologica di cinema, una lezione di linguaggio, un continuo e stratificato riflettere sulle potenzialità espressive del mezzo. Lo è nel suo libero e lieve vagare fra i generi, fra la commedia e il coming of age, fra il palco di un teatro e un salto oltre il fuoco. Lo è nella sua ricostruzione nostalgica e sognante di un 1973 consapevole, proprio come la catena di negozi di dischi da cui il film prende il nome, di non (poter) esistere più. Lo è nelle sue corse a perdifiato e nei suoi infiniti giochi di sguardi e linguacce fra i protagonisti, lo è nei suoi lunghi pianisequenza e nelle rifrazioni dei volti nei vetri e negli specchi, lo è nei continui baci mancati e nel fermarsi sempre a un millimetro dallo sfiorarsi. Lo è nella dedica finale a Robert Downey senior, da qualche parte fra i maestri che riposano sull’Olimpo di celluloide di PTA insieme a Jonathan Demme e Robert Altman alla cui memoria erano rispettivamente dedicati Phantom Thread e Il petroliere. Perché il cinema è carne, dice chiaramente Licorice Pizza. È sensibilità umana, è emozione, è sguardo, è visione, è cooperazione, è una passione condivisa. È una folle retromarcia con un camion senza benzina, è bussare a una vetrina vuota nella notte, è abbracciarsi fuori da una stazione di polizia dopo lo scampato pericolo e la paura (di perdersi) di un arresto per sbaglio, ed è l’ultimo e definitivo ritrovarsi di fronte a una sala che proietta in prima visione 007 – Vivi e lascia morire, stremati e felici dopo l’ennesima corsa a perdifiato per cercarsi nella notte. Il cinema sono sono i leggeri ralenti che trasformano l’azione in pura seduzione lirica, sono i provini per quel film che tanto somiglia per anno, trama e Holden (stavolta non William, ma il Jack interpretato da Sean Penn, diretto peraltro da un Tom Waits che basta da solo per evocare Jim Jarmusch) al Breezy di Clint Eastwood, ed è la scelta proprio dell’attore e regista Bradley Cooper per interpretare quel Jon Peters al tempo ancora parrucchiere ma che, detentore dei diritti della versione del ’76 con la compagna del tempo Barbra Straisand («Strai-SAND, like the Ocean»), sarà produttore nel 2018 anche del suo terzo e per ora ultimo remake di A star is born. A suo modo mostra che cosa possa essere il cinema persino lo spot elettorale in 16mm 4/3 del candidato sindaco losangelino Joel Wachs affidato al volto di Benny Safdie, che irrompe con il suo mascherino e la sua coda a passo ridotto nella pasta e nell’anamorfico del sontuoso 35 in cui Paul Thomas Anderson, questa volta regolarmente accreditato insieme a Michael Bauman dopo il “lavoro di gruppo” di Phantom Thread, ha fotografato Licorice Pizza fra saturazioni mozzafiato e le ormai consuete struggenti silhouette notturne. Le ennesime intuizioni fotografiche che si rincorrono film dopo film nella loro abbacinante eleganza, come pennellate di colore sui richiami interni con cui il cineasta statunitense, portando avanti il proprio personale Cinematic Universe d’autore con personaggi, situazioni, punti di vista e tagli di luce variopinti che si reincarnano da una pellicola all’altra sempre nuovi e sempre perfettamente coerenti, continua a sondare il senso più compiuto della settima arte. Ritrovando ancora una volta, in questo Licorice Pizza, l’intraprendenza di Magnolia e la motocicletta di The Master, i segreti da dissimulare di Sydney e la sala della festa ancora da ripulire del già citato Phantom Thread, ma soprattutto la San Fernando Valley con il suo fallocentrismo aggressivo che fu già set di Boogie Nights, la stessa alienazione (filtrata dalle stesse gelatine rosse) che già permeava Inherent Vice, gli stessi sentimenti bloccati di Ubriaco d’amore e nuovi padri – presenti, assenti, invasivi – che paiono ripresentarsi quasi in dissolvenza da Il petroliere.
Ma soprattutto ad aleggiare su Licorice Pizza è l’anima di un altro padre ormai assente, ma che in qualche modo sembra rivivere nella somiglianza a tratti sconvolgente con l’esordiente figlio Cooper: le stesse espressioni, lo stesso talento, un testamento con cui passare il testimone. Quel padre, Philip Seymour Hoffman, che prima della morte aveva interpretato cinque fra i primi sei film di Paul Thomas Anderson, in un’amicizia diventata famiglia, e che ancora si protrae nelle generazioni. Del resto quasi sempre di famiglia si parla, nel cinema sempre più affresco dell’autore americano. Quella reale di Alana Haim, in primis, altra straordinaria esordiente che appare sullo schermo insieme ai veri genitori e alle vere sorelle con le quali nella vita già condivide la carriera musicale, o quella cinematografica di Paul Thomas Anderson, con l’ormai consueta collaborazione di Jonny Greenwood alle musiche e di attori feticcio che ora sembrano reincarnarsi nei propri figli. O ancora quella senza parentele del legame che intercorre fra i personaggi di Alana e Gary, mentre si accorgono di quanto il proprio reciproco appartenersi sia già inossidabile, più forte delle barriere del tempo e dello spazio, impossibile da fermare. Del resto «i nostri destini ormai si sono incrociati» dice sin da subito lo studente Gary ad Alana, insoddisfatta assistente del fotografo impegnato a scuola a compilare l’annuario. Lui da subito innamorato e lei che non se ne vuole rendere conto, in un rapporto che non è una relazione ma che non può nemmeno essere solo amicizia. È babysitting per l’attore-bambino da accompagnare a esibirsi in TV a New York, che a distanza di poche settimane diventa lavorare insieme con il giovanissimo pubblicitario saltato nell’imprenditoria. È presentarla alla propria agente per un provino, e poi frustrarsi per quel topless mai concessogli dal vivo ma offerto alle macchine da presa. È accorrere reciprocamente a recuperarlo al commissariato o ad assisterla dopo una caduta dalla moto, e poi è la libera scelta anarcoide di combattere l’altrui prepotenza allagando una casa e distruggendo una Ferrari rimasta a secco. Fino a un litigio e a una mancanza, anticamera dell’ennesimo inevitabile e inestimabile ritrovarsi. Un rapporto trattenuto, pudico, represso nel contatto fisico, silenziato nel montare delle reciproche gelosie quando Gary vede Alana mano nella mano con Lance e quando Alana vede Gary andare via con Sue. Eppure un rapporto esplosivo come una bomba carta, poetico come due dita che si sfiorano guardandosi su un materasso senza osare andare oltre, troppo libero e seducente per essere ingabbiato nei confini di una vera e propria trama, e proprio per questo fatto di frammenti, di esperienze condivise, di fasi, di incontri, di lacerti di vita, di mattoni in un percorso di crescita, di piccoli miracoli di levità cinematografica che si inseguono lungo traiettorie sghembe su cui perdersi e ritrovarsi, cadere e rialzarsi, allontanarsi e immancabilmente ricominciare a correre uno verso l’altro. Come in un personalissimo American Graffiti, al termine del quale ritrovarsi adulti fra l’intraprendenza e il coraggio, fra l’affinità e la (in)comprensione, fra il desiderio che brucia e il terrore di rovinare tutto rompendo quel rapporto, quell’idillio, quel dolce e disinteressato non poter fare a meno l’uno dell’altro. Tanto che i materassi ad acqua, le crisi petrolifere che lasciano la California a piedi, i ristoranti giapponesi, il progressismo delle campagne elettorali nascondendo però nel frattempo la propria omosessualità all’elettorato conservatore o le sale giochi da inaugurare prendendo al volo la legalizzazione del flipper sembrano quasi cause accessorie, semplici tappe di un disegno più grande e più dolce, nuovi guanti neri e nichelini con cui alimentare un’attrazione mentre lentamente, fra reciproco magnetismo e piccoli strappi da ricucire, si scopre tutta la potenza di un sentimento. Quello che conta è la cronaca di un amore nascente, è la lenta elisione di ogni barriera di età e di resistenza, è una sospensione che inizia e finisce nel ’73 ma sembra svolgersi un tempo in(de)finito, magico, psichedelico. Un tempo fuori dal tempo che poi, a ben vedere, nient’altro è che quello del (grande) cinema. Quello sempre di corsa, classico e modernissimo, di ieri e al contempo di domani, al quale a volte per brillare nel silenzio può bastare solo un respiro, un’emozione, un abbraccio. Un’immagine, forse, l’ennesima. Magnifica, potente, sublime.
Marco Romagna