La toga di ermellino, quei lunghi istanti fermi davanti alla porta dell’aula, il suono del campanello: tutti in piedi, entra la Corte. Christian Vincent sbarca al Lido con L’Hermine (titolo italiano, meno efficace, La Corte), e si può finalmente registrare la prima vera piacevole sorpresa – al netto delle conferme – del Concorso veneziano edizione 2015. Quello del regista parigino si rivela infatti un film in grado di mescolare sapientemente le dinamiche del dramma processuale con una tenera e sincera parabola di formazione umana, a metà strada fra il Testimone d’Accusa di Wilder, La Parola ai Giurati di Lumet e l’amore, sia esso platonico o potenziale, in grado di smuovere le anime e forse il mondo. Ma non manca nemmeno una tensione quasi rohmeriana alla commedia acuta e del paradosso, in grado di mantenere il film costantemente sospeso in un piacevole limbo di leggiadria e sorrisi.
Il giudice Racine, Presidente della Corte d’Assise interpretato da un gigantesco Fabrice Luchini, unica possibile insidia al Redmayne di The Danish Girl sulla strada verso la Coppa Volpi maschile, è integerrimo e inflessibile, pignolo, duro nei modi, antipatico, crudele. Lo chiamano “giudice da doppia cifra”, in quanto specializzato a calcare la mano sulle pene, non condannando mai a meno di dieci anni. Il processo che si apre riguarda il caso spinoso di un infanticidio, con il padre al banco degli imputati che proclama la propria innocenza, ma rifiuta di rispondere alle domande. Racine è febbricitante, influenzato e di pessimo umore, ma il momento dell’estrazione della giuria sarà per lui uno shock emotivo: fra i giurati appare improvvisamente, dopo anni senza notizie, il nome di Birgit Lorensen-Coteret, l’unica donna che abbia mai amato.
Un amore mai consumato né dichiarato, ma bruciante e vivo, ben oltre il complesso edipico fra ex paziente (Racine) e medico (Birgit), in grado di intenerire progressivamente l’anima stanca e callosa di “Monsieur President” attraverso le emozioni che si insinuano volatili e inafferrabili, come uno spruzzo di profumo nell’aria, fra le camere di consiglio e gli appuntamenti al ristorante. Non manca una potente dose di intelligente humour, che parte dalla salute cagionevole del magistrato per ironizzare sullo stato di salute di una giustizia più votata alla spettacolarità del processo – si parla più volte espressamente di «andare in scena» – e all’adesione a norme fredde e rigide piuttosto che alla ricerca della verità, per poi spostarsi sulla cristallina sfacciataggine della figlia di Birgit, giovane e sognatrice, e per questo unica in grado di cogliere le emozioni della madre e la sincerità di Racine.
Fra le pause e le impennate nel procedimento, gli interrogatori dei testimoni, i dubbi della giuria popolare, gli avvocati delle due parti e la fissità dei giudici a latere, Racine conduce un processo che alterna la spettacolarità del legal-drama più consumato , fra testimoni e verbali che diventano inattendibili, le strategie delle due parti e la difficile situazione familiare che emerge alle spalle della tragedia, con un suo netto cambiamento interiore e nei comportamenti. Se infatti ad inizio film il personaggio del giudice agisce con arroganza e sfacciataggine, la sola presenza dell’amata lo porta progressivamente a sostituire il cuore al freddo calcolo, la calma allo spocchioso decisionismo, aprendo alla complessità della vita e all’inefficacia di regolamenti troppo drastici e rigidi. Ed ecco quindi che, all’apice della propria parabola salvifica, il giudice Racine si ritrova a porre in luce i troppi punti oscuri di una confessione poco convincente, rimasta solo sui documenti della polizia e negata successivamente dall’imputato.
Ma forse l’aspetto più interessante di scrittura è quello politico. In aula, in camera di consiglio e in brasserie, attraverso la presentazione e la caratterizzazione dei membri della giuria, Vincent mette in scena un’acuta fotografia delle classi sociali e delle difficoltà di una Francia in crisi. Attraverso la diversità dei componenti della giuria, dal borghese colpevolista alla donna musulmana con marito geloso, dalla scapestrata (ma incensurata) di origini italiane al decisionista arrogante, Vincent crea nei fiumi di parole una mappatura della società odierna, in tutte le sue contraddizioni fra periferie decadenti, disoccupazione dilagante e disuguaglianza che quasi sembra irridere i principi rivoluzionari d’oltralpe. Ma bisogna accordarsi, e trovare un verdetto, nonostante tutto.
Fabrice Luchini, istrionico quanto profondo, riesce a cristallizzare sul proprio volto il passaggio di emozioni e stati d’animo con un’espressività quasi ancestrale. Attraverso le sue minime espressioni facciali cala progressivamente la maschera imperturbabile del duro magistrato sostituendola con il rutilante incedere delle sensazioni dell’uomo innamorato, dai suoi occhi vispi e dalle sue leggere rughe traspare tutta l’onestà di un film interessante e riuscito. E dal canto suo, Christian Vincent accompagna alla narrazione, alla scrittura agile e alle sublimi prove attoriali una regia aggraziata e fine, mai supponente ma viva nella ricerca di dettagli, efficace quanto umile. L’Hermine mescola e contestualizza più generi e filoni narrativi apparentemente impossibili da far convivere, dalla commedia romantica alla fotografia sociale, dal dramma processuale alla tenerezza più pura, risultando originale, acuto, emozionante, smaccatamente umano. Un film piccolo e sincero, che non passerà alla storia del Cinema ma risulta nettamente quanto inaspettatamente fra le visioni migliori di Venezia 2015. Una commedia acuta e autoriale, capace di emozionare e far riflettere. Per quanto ci riguarda, un film da tenersi stretto. La seduta è tolta.
Marco Romagna