Vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, e nelle sale italiane dal prossimo 4 novembre distribuito da Europictures, L’Événement (da noi con il titolo aggiuntivo La scelta di Anne a sostituire l’inizialmente annunciato 12 Settimane) è l’opera seconda da regista di Audrey Diwan, già prolifica sceneggiatrice per le opere del compagno Cedric Jimenez. Trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico L’evento di Annie Ernaux, il film è il tentativo, indubbiamente riuscito, d’instaurare un rapporto di prossimità e totale vicinanza fisica e, soprattutto, emotiva tra la macchina da presa, la protagonista Anamaria Vartolomei e lo spettatore. Un processo di progressivo avvicinamento che sfocia in due lunghe (e dure) sequenze, causa di qualche svenimento in sala persino tra gli “scafati” spettatori presenti al Lido: soprattutto la prima, un tentativo maldestro di autoaborto, potrebbe far cadere sul film la mannaia di un qualche divieto, che naturalmente non ci auguriamo.
Nella Francia del 1963 l’aborto è un crimine efferato, e la legge punisce severamente ogni coinvolto, chi ci prova, chi aiuta, persino chi sa e non denuncia. La brillante Anne è una studentessa con un promettente futuro davanti a sé; tuttavia, improvvisamente, vede svanire la possibilità di portare a termine i propri studi e sfuggire ai vincoli insiti nella sua estrazione sociale. Estrazione da cui si può agevolmente evadere con un futuro di “lettere”, da insegnante o da scrittrice, e alla quale si rimarrebbe invece inchiodati a vita se la distrazione di una notte, un rapporto fugace dopo una festa da ballo, portasse davvero a quell’evento (quasi) marzialmente annunciato dal titolo: una gravidanza, totalmente e disperatamente indesiderata. È la stessa Anne a definirla, nel prefinale, «la malattia che rende le donne casalinghe». E allora, con l’avvicinarsi degli esami finali e della scadenza delle dodici fatidiche settimane dal concepimento, Anne si decide ad agire, anche se deve affrontare la vergogna e il dolore, anche se deve rischiare la prigione per seguire la sua strada. Il medico di famiglia (un misurato Fabrizio Rongione) non è disposto ad alcun tipo di aiuto, e anzi la allontana bruscamente. Alla famiglia non si può dir nulla, alle compagne di scuola men che meno, la solitudine avviluppa la gola e l’anima. Ma poi, pian piano, il muro di omertà cade, e si scopre “l’arcano”: non è la prima, tra le sue compagne, ad aver affrontato il problema, e le viene suggerito un indirizzo a cui rivolgersi.
Un’opera che sembra parlare di un lontano passato, in una Francia presessantottina e alle soglie di un sommovimento sociale e culturale che qualcosa cambierà davvero, soltanto se si guarda al mondo con i paraocchi dell’Occidente laico e borghese, a suo modo rassicurante. E invece, nel 2021, una nuova legge sulla materia approvata in Texas, le legislazioni quasi confessionali di alcuni Paesi dell’Est Europa come la Polonia, la spropositata percentuale di medici obiettori all’interno dei nostri confini… insomma, la libertà di aborto è un tema ancora vivo e pulsante, ben lontano dall’essere derubricato a legittima scelta personale della coinvolta. Sarebbe facile, quindi, incasellare la scelta della giuria veneziana presieduta da Bong Joon-ho come politica a tutto tondo, e invece è utile analizzare il film anche sotto l’aspetto stilistico, perché, a parere di chi scrive, è la feconda unione tra quest’ultimo e il tema “importante” ad aver causato il plebiscito di consensi, anche a livello critico. La sensibilità registica della Diwan, al di là di scontate divisioni binarie che puntino a sottolineare il secondo Leone consecutivo ad una regista dopo Chloé Zhao e Nomadland nel 2020, sta tutta nella direzione delle sue attrici, dalle esordienti fino a un volto (e una voce) di qualità del cinema transalpino come Anna Mouglalis. L’origine libanese dell’autrice è un (facile) ulteriore appiglio in questo tentativo disperato di normalità, quasi ad auspicare una giustizia almeno in quell’Occidente che spesso, e altrettanto spesso ingannevolmente, rappresenta per la parte di mondo a Est dei Balcani un baluardo di diritti acquisiti, dalle generazioni contemporanee dati per scontati, specie nelle fasce culturali ed economiche più abbienti. Anne viene dalla provincia, e il suo inserimento nel mondo lavorativo DEVE passare da una serie di tappe prestabilite che non prevede in alcun modo la maternità, almeno nella sua testa, pena il ritorno probabilmente definitivo a quel piccolo mondo antico insieme protettivo e opprimente, rassicurante e soffocante. La camera, asfittica nei suoi pedinamenti in 4/3, segue il suo incedere sempre più affannato, ne scruta nel volto le più piccole inquietudini, trova quello che tra i Dardenne e Rosetta, per fare un esempio celebre e riuscito, non avrebbe mai potuto instaurarsi, la solidarietà di genere data dall’empatia più totale, mai pietistica, mai sensazionalistica o morbosa anche se, come detto in precedenza, si lambisce l’infilmabile. Il valore aggiunto, in una produzione come questa, è dato dallo slittamento del punto di vista, lo ribadiamo ancora una volta, che permette tanti piccoli tocchi di “verità”, o quantomeno percepiti come tali: una masturbazione collegiale (im)pudica, la freddezza che trasla in complicità, un “plop” terrificante (e non aggiungiamo altro al suono onomatopeico, chi vedrà capirà) non in sé, ma come conseguenza di un calvario ingiusto, inutile, che una società avanzata non dovrebbe tollerare.
Non ci sorprenderemmo se il film venisse accompagnato da una valanga di polemiche all’uscita qui da noi, talk-show dedicati, Marii GiordanAdinolfi che squittiscono, Giorgie Meloni che urlano ancora al vento di essere madri e donne, come se la seconda cosa debba essere legata e addirittura in posizione sottostante alla prima. Ma, a pensarci solo un attimo, probabilmente tutto questo sarebbe addirittura auspicabile, e preferibile al silenzio che ignora: che l’argomento torni dibattuto proprio per sottolineare l’arretratezza del dibattito, per dileggiare le posizioni retrograde, per ribadire ancora una volta che la legge può oltrepassare l’epidermide ed entrare nel nostro corpo, ma solo con il nostro specifico consenso. Ho detto nostro, ma qui si parla inequivocabilmente del Loro, a scrivere è un uomo che non può far altro che sottolinearlo (anche per evitare sterili apparentamenti logici con la situazione pandemica in corso). E il film, da questo punto di vista, è un testo base da poter sbandierare, chiaro, comprensibile a tutti, a ogni latitudine, impossibile da fraintendere. Tornando, in chiusura, alla giuria veneziana e alle sue scelte, è forse quest’ultimo aspetto che ha portato al massimo premio, oltre all’importanza del “tema”. A Venezia, quest’anno, c’erano film più belli di questo, più innovativi di questo, più classici di questo. Più universali di questo, però, forse no.
Donato D’Elia