LETTRE À FREDDY BUACHE (1982), di Jean-Luc Godard
Omaggio del 72esimo Locarno Film Festival (e nostro) per Freddy Buache, scomparso pochi mesi fa.
Il Godard che si approccia agli Ottanta, come già abbiamo detto anche su queste pagine, è un uomo che rimette in discussione tutto ad iniziare dal suo modo di vedere. Svaniti gli impulsi più teorico-politici e decostruttivi del periodo Vertov, si trova quasi smarrito a trovare uno spiraglio tra il dubbio e la ragione, che quel decennio segnerà in modo ineluttabile. Nello Scénario du film “Passion” (1981), opera imprescindibile per cercare di definire non solo l’itinerario godardiano del periodo, ma soprattutto il nuovo approccio dell’occhio nei confronti dell’immagine a iniziare dall’avvento e la diffusione del video, è lo stesso autore a trovarsi specchiato di fronte a uno schermo. Una confessione intima e lancinante, una dedica sofferta dalla lucidità straordinaria nel definire il gioco della macchina cinema. Ogni film va accompagnato come si abbracciano i suoi protagonisti sulle rive del lago («Io volevo vedere la storia di Passion, c’erano degli elementi, ma bisognava vederli, per vedere se questo mondo poteva esistere», JLG dixit), ed ecco così l’immagine, ecco il cinema che rinasce, appunto, attraverso la luce. Non avrebbe senso qui approfondire la complessità di un atto così radicale della pratica cinema, ma è necessario parlarne per giungere all’omaggio nei confronti di Freddy Buache, srotolato in apertura di Festival sullo schermo gigante della Piazza Grande locarnese. Se lo Scenario parte da Passion, lo ristruttura e lo solidifica per poi disperderlo ancora di più, questa video”lettera” in 35mm parte dall’ipotesi di un film (À propos d’un court-métrage sur la ville de Lausanne) per trasformarla nel sottotitolo di un qualcosa di molto più personale e stratificato.
Lettre à Freddy Buache, prima che effettivamente diventasse questa lettera a Freddy Buache, era stato commissionato a Godard dal comune di Losanna in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua fondazione, dedicato a Flaherty e Lubitsch. «Il procedimento cromatico allo stato puro: vi è l’alto e il basso, la Losanna blu, celeste, e la Losanna verde, terrestre, acquatica. […] I colori sono diventati categorie quasi matematiche nelle quali la città riflette le proprie immagini e ne fa un problema». Sono queste parole di Deleuze ad avvicinarci in questa altra selva simbolica e dialetticamente tripartita. Si parla di un’impossibilità, quella di un possibile film per/su Losanna, che prende pian piano i toni del fallimento. Godard dialoga con se stesso e trasla continuamente la sua narrazione verso il fondatore della Cinémathèque Suisse, in un’atmosfera estremamente intima. Il possibile ruolo dello spettatore è quello di scrutare questo dialogo univoco, attraversare una visione per venirne immediatamente catturati e complici, laddove l’immagine (ammesso, ontologicamente, che essa esista) gioca a nascondersi. Godard è nel suo studio, come un chimico maneggia strumenti del suo laboratorio di montaggio, poggia la puntina su un vinile e ascolta le vibrazioni del giradischi. La macchina da presa intanto vaga tormentata nella campagna svizzera mentre rallentata e sonnolenta segue poi figure che si muovono nella città. Il tutto a caccia di un’immagine che non pare mai poter essere realmente quella. Intanto litiga con un poliziotto sul significato dell’emergenza (cosa può esser più urgente del “fare” cinema?), parla della tensione dei colori, attraversa Picasso e Wittgenstein, vedutisti e sociologhi, natura e costruzione, ampi spazi e strade senza uscita. Tutto è accennato, e tutta resta perennemente sospeso.
Tornando a Deleuze, è proprio questo processo utopico di categorizzazione delle immagini che prendono forma attraverso la presa di coscienza morale della ricerca di un’immagine il fulcro di quest’opera misteriosa. Anzi dell’immagine (quella forse mai immaginata ma unicamente idealizzata) assoluta, quella che forse potrebbe contenere il mondo così come annullarlo. Nei contrasti vertiginosi tra cielo e terra, tra lo splendore della natura e il grigiore della città, tra l’essere autore e mittente dello stesso medesimo atto. Al di là dell’indubbia radicalità tecnica e linguistica di un piccolo/grande (nella fallibilità della classificazione) film come questo, sono le riflessioni di Godard ad aprire un’altra voragine. In special modo quelle sulla rappresentazione, sul processo di pensiero che porta all’identificazione e sulla solidificazione di un’immagine filmica, ovvero di come un luogo possa esistere al di là della definizione reale del proprio paesaggio e di chi lo abita. L’anima e/è l’immagine del luogo, così come la città è costruita da chi la vive, e una persona varrà pure un albero nella strutturazione delle figure autonome che compongono un paesaggio. La bellezza automatica delle cose non è solo un divertissement estetico, anzi. In questo detour apparentemente inestricabile compare la doppia dedica, quella che potrebbe definire una traiettoria interna al film. Da una parte l’esigenza dell’osservare, dall’altra quella del girare. Campo e controcampo della vita come del cinema, in una continua esplorazione e mappatura dello spazio e del tempo. Il divenire è presente come forza motrice del tutto, e anche la stessa Losanna lo è. Ecco allora che l’impossibilità del film su/per la città si espande a dismisura proprio perché quella città è già presente in tutti i film di Godard. Lo sono i colori, le anime, le realtà e le finzioni. Lo è il lago, e lo è l’acqua, proprio lei, l’elemento sfuggente, scomposto e sincretico, ancora una volta insostituibile per il gigante che continua oggi a Rolle nel porsi questi interrogativi. La genesi di un altro film può essere un aborto (del film stesso), e bastano undici minuti per definirlo con una lucidità profonda e ancora una volta disarmante. Non forse per Buache, gigante anch’esso, di un altro cinema, di un altro mondo. Au revoir. Et merci beaucoup pour tout. Pour toujours.
Erik Negro