LETTERS FROM THE SOUTH (2013), di Aditya Assarat – Royston Tan – Midi Z – Sun Koh – Tan Chui Mui – Tsai Ming-Liang

L’operazione di Letters from the South (2013) è singolare: la proposta è quella di un film a episodi sulla malinconia e sul legame con le tradizioni culturali, dove la narrazione si sposta da un paese all’altro transitando su varie letture dei vari concetti e mostrandone più aspetti, con molti nomi di registi generalmente poco noti. Ma dopo i corti dei misconosciuti Aditya Assarat, Royston Tan, Midi Z, Sun Koh e Tan Chui Mui vi è l’immancabile conclusivo spezzone di Tsai Ming-Liang, che con il suo Walking in the water compone il terzo capitolo della (per ora) tetralogia sul suo Walker, il monaco buddhista interpretato da Lee Kang-sheng, ormai simbolo del suo ultimo cinema insieme all’ultima inquadratura di Stray Dogs (2013).

Il corto del thailandese Aditya Assarat è Now Now Now, un prologo di pop demoralizzante, sia perché la lettura della cultura popolare e del divertimento giovanile sembra andare nella stessa direzione di Spring Breakers (2012), con quel divertimento deprimente e quella ‘gioventù bruciata’ dall’atto masturbatorio del party, sia perché la vera e propria messinscena ricorda il prologo di un film non concluso, incoerente, forse incolore, scialbo e smorto. La storia è quella di una studentessa thailandese che riceve la visita a scuola della cugina cinese, la quale subito polarizza su di sé le attenzioni di tutti gli amici della protagonista; la storia si conclude con il racconto didascalico e verboso che la studentessa fa ad un amico ubriaco e sonnolento sui propri complessi di inferiorità rispetto alla popolare cugina. Cromaticamente, Now Now Now tende a un bianco puro ma sfocato, il montaggio è veloce, modaiolo, banale, la regia va esattamente dove si può prevedere che vada; e appena sembra che si stia per sviluppare un concetto, il cortometraggio si conclude. Non tanto dissimile è la riuscita di Popiah, il corto di Royston Tan, regista di Singapore che legge i temi centrali del film antologico in una prospettiva terrena, famigliare e melodrammatica, mettendoli in scena nella storia di un quadrettino di famiglia in cui un padre non riesce a instaurare nella propria prole, disinteressata e distratta, la tradizione dei Popiah, pseudo-ravioli, specialità campagnola. Quella che potrebbe essere una riflessione sul rapporto generazionale o sulla gastronomia come parte della tradizione finisce per assomigliare di più ad una pubblicità del Mulino Bianco, in cui farina e vegetali vengono spalmati con l’effettaccio affidato a una radicale ed enfatica moviola, mentre in sottofondo risuona drammatica e melanconica la colonna sonora, composta da un solo ripetitivo brano di violino opprimente, nei momenti più casuali, come per sottolineare la vuotezza tragica delle vacue inquadrature che sembrano susseguirsi all’infinito, tra primi piani, lacrime e ripetitività varie.

Va un po’ meglio con il birmanese Midi Z e con il suo Burial Clothes, funereo, lento e tranquillo, che trova la tradizione nell’atto del funerale e del collegamento famigliare in senso mortuario. Le inquadrature di interni hanno una notevole forza compositiva, mentre gli esterni sono spesso prolissi, o semplicemente poco efficaci. È come se Z fosse un po’ una versione debole e con poco da dire dell’Apichatpong Weerasethakul di Tropical Malady (2004). Sun Koh propone poi New New Panda, banalissima commedia drammatica che mostra la routine di un doppiatore radiofonico di un panda in un programma per bambini montando come sottofondo la descrizione della vita dello stesso panda, sottolineando come entrambi i personaggi siano disadattati per motivi geografici, ma senza addentrarsi abbastanza nel personaggio umano da poter risultare interessante, e anzi palesando fino all’inverosimile il paragone ma non i termini stessi da paragonare, e frapponendo inquadrature di improponibile bruttezza, compreso un inutile edificio costruito in CGI che appare in sottofondo per pochi secondi. New New Panda non solo è troppo convenzionale, ma è anche e soprattutto prolisso. A night in Malacca di Tan Chui Mui punta tutto sulla sperimentazione nel montaggio e risulta disturbante e stordente per l’occhio, ma anche estremamente confuso, sia su un piano narrativo che contenutistico, quasi come se invitasse a una seconda visione.

Ma è a questo punto che Tsai Ming-Liang giunge a salvare la situazione con fare supereroistico e porta gli spettatori nell’elogio alla lentezza di Walking in the water che, come Walker (2012) prima e Journey to the west (2014) dopo, cerca la bellezza nello pseudo-Cinéma vérité che pone il protagonista monaco in contesti reali, causando una catena di reazioni estetiche e una sequenza di inquadrature in cui il rosso della tunica è (quasi) sempre presente, anche solo in sottofondo. Ma se in Walker la lentezza costante del monaco era impressionante soprattutto in quanto contrastava con la caotica frenesia del mondo esterno e del consumismo, in Walking in the water regna l’opposto: il contrasto sembra assente perché il mondo triste, tradizionalista in cui Tsai è cresciuto (il quartiere taiwanese illustrato nel corto) va quasi lento quanto il personaggio di Lee Kang-sheng. Il risultato è un intimo spaccato di bellezza, una sorta di capitolo “embrionale” in cui la lentezza si manifesta come una sorta di ritorno al liquido amniotico, il water del titolo, acqua di pozzanghera, utero materno come luogo d’origine e di nascita, vera lettura di questa malinconia e di questo attaccamento alla tradizione famigliare, oltre che unico modo non conservatore per spiegare visivamente un attaccamento così sincero.

In conclusione, nonostante il salvataggio in extremis di Tsai, Letters from the South rivela nel complesso la propria fragilità: privo di valori innovativi, conservatore, stilisticamente pacchiano, tende a concentrarsi prevalentemente su di un piagnisteo infantile, mostrato in allegorie di triste riuscita. Come molti film antologici finisce per risultare discontinuo e incostante, e manca il suo bersaglio a causa di un’overdose di inattualità, non riuscendo a seguire i suoi temi con sufficiente intensità. Tranne che nel suo ultimo, eclatante episodio, è un film superfluo, nelle cui inquadrature non ci si può specchiare, nei cui mondi è impossibile l’immedesimazione e nelle cui immagini è trattata, inconsapevolmente, con generica freddezza l’intensità (molto) malinconica e (poco) straziante del tema dell’attaccamento alla tradizione.

Nicola Settis