Lui ama lei. Lei ama lui. Lui ama lui. No, non è la premessa di un porno soft, né tantomeno di una commedia degli equivoci in salsa pecoreccia. No, quel pezzo di poesia è la frase di lancio de L’estate addosso, il decimo lungometraggio di Gabriele Muccino presentato in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia nella nuova sezione Cinema nel Giardino (una specie di Fuori Concorso deluxe, almeno nelle intenzioni degli organizzatori della kermesse veneta). Un film che lo stesso regista, nella consueta dichiarazione che accompagna la scheda dell’opera sul sito/catalogo della Mostra, descrive come un ritorno alle origini: “Avevo da tempo desiderio di realizzare un film “piccolo” e intimo, senza le responsabilità dei grandi budget, su un momento di importanti scelte esistenziali, come quello che segue l’esame della maturità. L’estate è la “stagione” della vita in cui si sospendono ostilità e pregiudizi, ci si mette in gioco, si stringono amicizie e relazioni intense, passionali ma anche effimere. Si fanno scoperte che ci spingono a capire chi siamo e saremo nella vita. L’estate che ho voluto raccontare corrisponde a uno stato dell’anima, in cui qualcosa in noi cambia e non tornerà più come prima. Non importa a che età questo accada.
D’altronde, spesso l’età che sentiamo nel cuore è diversa da quella anagrafica, ed è quella che in fondo ci spinge davvero alla continua ricerca di una nuova “estate” da portarsi addosso, ancora una volta.” Un intento a suo modo nobile, e anche comprensibile, dal momento che Muccino, da L’ultimo bacio in poi, si è fatto sempre più ambizioso, fino a farsi bruciare dai flop di Quello che so sull’amore e Padri e figlie. Detto questo, il cineasta romano non ha completamente rinnegato il suo percorso attuale, perché se da un lato L’estate addosso è effettivamente una storia più semplice, con un cast di attori sconosciuti o quasi (l’unica presenza di un certo spessore è Scott Bakula, scomodato per un cameo che più triste non si può), il film mantiene comunque quella dimensione internazionale che caratterizza il cinema mucciniano da dieci anni a questa parte, spostandosi tra Roma, San Francisco, Cuba e New York (più New Orleans per un flashback).
E proprio nella parte americana, per l’esattezza San Francisco, quello che era iniziato come un modesto romanzo di formazione giocato sulla formula di lui e lei che, pur non sopportandosi, partono insieme per un viaggio all’estero (il problema è soprattutto lei, una bigotta soprannominata “la suora” in quanto presumibilmente ancora vergine, nonché figlia di un noto ammiratore di Mussolini) si trasforma in un miscuglio di sentimentalismi, banalità e ridicolaggini che solo Muccino al suo meglio/peggio è in grado di confezionare. Per rendere l’idea, probabilmente anche Neri Parenti si vergognerebbe, nel 2016, a girare un film dove la rappresentazione di San Francisco può essere riassunta con “Ahò, sèmo tutti froci!” (con il momento scult epocale in cui uno dei due protagonisti americani conferma i pregiudizi della protagonista femminile dicendo “Yes, we are froci”, perché ovviamente capisce un minimo di italiano, grazie al nonno che era di Lecce, città che nella scrittura di Muccino diventa una sorta di meta paradisiaca per il baldo e gaio giovine di cui sopra). Una vetta trash dalla quale il film non si riprende più, sprofondando sotto il peso di un misto di vacuità e trovate assurde che generano parecchie risate, ma il più delle volte si ride per non rassegnarsi alle lacrime o all’apatia totale dinanzi a triangoli improbabili che servono solo per ricordarci quanto potrebbe essere macchiettistica la rappresentazione dell’omosessualità nei prodotti audiovisivi statunitensi, pulsioni ormonali che ci fanno rimpiangere le commedie sexy con Alvaro Vitali e banalità esistenziali che manco in una fiction di Canale 5. Il tutto sacrificando sull’altare del non-senso il personaggio migliore, tale Vulcano, che meriterebbe un film tutto suo. Alla luce di tutto ciò, L’estate addosso è, a modo suo, un capolavoro, da vedere per puro masochismo culturale e cinefilo. E solo per quello.
Max Borg