LES TOMBEAUX SANS NOMS (2018), di Rithy Panh
«Quando un crimine diviene di massa, ciò che si perde è l’individuo». Ed è proprio nel percorso inverso, ovvero nella riscoperta dell’uomo, nel ritorno al suo volto e al suo corpo, nella restituzione della dignità a chi non ha avuto nemmeno diritto a una sepoltura e a un rito funebre, che Les tombeaux sans noms trova il suo senso più intimo, che poi è il senso più intimo di tutto il cinema di Rithy Panh. Un senso, profondissimo, di giustizia ma ancora di più di riappropriazione, che questa volta a differenza che in passato supera del tutto o quasi la politica, la Storia e le sue cause, perché ciò che più conta per il cineasta cambogiano è l’essere umano, fra la memoria ormai cancellata dall’orrore della morte e i resti (della sua famiglia e dell’umanità tutta) da ritrovare e finalmente consacrare, fra il rapporto di un popolo con la propria terra e la riscoperta di una fisicità negata dal concretizzarsi dell’incubo. Quello stesso incubo che, fra la vita e la morte, fra i rituali sospesi fra il paganesimo e la religione e le simbologie di fantasmi ai quali ridare un viso, una fisicità e un nome, è sempre stato il crepitio che sta sotto la superficie delle immagini di Rithy Panh, pervadendole di sensi, di etica, di considerazioni filosofiche e sociali, di forse inevitabile pessimismo e di profondissima umanità.
Les tombeaux sans noms sono sempre le stesse, quelle “tombe senza nome” in cui (non) riposano le vittime del genocidio perpetrato in Cambogia dagli Khmer Rossi di Pol Pot fra il 1975 e il 1979. Sono sempre quelle tombe a cielo aperto, fra fosse comuni e cadaveri abbandonati per strada alla mercé degli animali e della polvere, in cui (non) riposa la famiglia di Rithy Panh, “il sopravvissuto”, colui per il quale il cinema, da L’immagine mancante a Exil, passando per l’ironia caustica di La france est notre patrie e per i dettagliati resoconti delle pratiche di tortura e uccisione di Duch, le maître des forges de l’enfer,è sempre stato un ben preciso atto di giustizia e moralità. Lo stesso atto di filmare è sempre stato per Rithy Panh uno scavare nella Storia, alla ricerca di ciò che la polvere, la morte e il silenzio più assordante hanno sommerso, in una costante commistione di forme e riflessioni che va dalla sua storia personale alla storia di una nazione e di un popolo, fino a un’universalizzazione che procede dal personale al generale, dal particolare al globale, dalla Cambogia al mondo. Partendo sempre e necessariamente dall’individualità, dall’intimo, dal privato di un uomo che non può fare a meno di guardare le proprie cicatrici cercando di ricostruire una Storia che non si fermi alla mera documentazione degli orribili eventi che hanno avuto luogo nel periodo più buio e sanguinario della “Kampuchea Democratica”, ma che sappia riflettere più in profondità, sull’uomo e sul suo rapporto con il resto del mondo, sul suo rapporto quotidiano con quegli eventi e sulle ripercussioni sulla sua interiorità.
Presentato in apertura di Giornate degli Autori a Venezia 2018, il nuovo e doloroso lavoro di Rithy Panh ritorna ancora una volta, con profondità e forse ancor più consapevolezza, alL’immagine mancante, a quella famiglia persa dal regista a soli undici anni e presente ormai solo nella memoria e nelle ricostruzioni, ma anche a quei simboli e a quel suo personalissimo dolore, a quel francese coloniale con cui la voce fuori campo di Randal Douc recita il monologo interiore dello stesso regista fra la riflessione storico-socio-politico-esistenziale e le ancor più forbite parole estrapolate dai letterati, a quelle fotografie e a quei filmati che a un certo punto si sono fermati smettendo di documentare e obbligando alla creazione di un simulacro, poco importa se di plastilina o di pane, di panneggi al vento o di pura messa in scena, di disperati scavi nelle pietre o di urne cinerarie. È un percorso, quello di Les tombes sans noms, complementare e in un certo senso opposto a quello de L’immagine mancante, una sorta di chiusura del discorso in cui Panh si mette personalmente in scena per fare il passo ancora successivo, che dall’immagine ricostruita torna alla piena concretezza, quella dei corpi, delle ossa, dei denti, dei resti che emergono dal pulviscolo della terra, intrappolati in fangosi calcestruzzi d’argilla e finalmente pronti per essere onorati.
Sono in sostanza più film in uno, quelli che si intersecano nell’arco di Les tombes sans noms. Da una parte ci sono la personalizzazione autobiografica e l’antropologia della costante ricerca dei bonzi con i quali poter ritrovare e dare degna sepoltura alla propria famiglia, dall’altra c’è il puro documentario di interviste frontali e di atroci racconti dei testimoni, combattenti e contadini sopravvissuti all’«inferno in terra» di quegli anni, dall’altra ancora il film di fantasmi, profondamente simbolico e teso alla riappropriazione. E poi ci sono le immagini del tempo che tornano (come sempre incomplete e parziali) su ipnotici e silvestri schermi cinematografici notturni, ci sono le riflessioni di Panh sulla Storia, sul ruolo del cinema e sull’umanità, e c’è il «karma negativo» nel quale è immersa la Cambogia che porta da una parte a trasformare il potere in strumento di oppressione anziché di tensione al bene comune, e dall’altra alla rimozione e al silenzio da parte di chi al tempo fu incapace di opporsi e ora preferisce tentare di dimenticare. Atti in un certo senso orribili quasi quanto i genocidi di Pol Pot e inevitabilmente destinati a ripetersi, sempre più biechi e assordanti, in futuro. Perché l’uomo è fatto così, è limitato, è mediocre, è incapace, ma non è (più) l’accusa che imperniava S21 – La macchina di morte dei khmer rossi il punto di questo ennesimo capitolo del viaggio nel dolore di Rithy Panh, quanto piuttosto una dolorosa constatazione, che emerge nel disperato tentativo di ritornare a quella giustizia che la Storia ha cancellato. Una Storia fatta di sostanziali rapimenti e matrimoni forzati, di uccisioni, di stupri, di orrori perpetrati per eliminare ogni strascico del precedente periodo coloniale, di popolazione decimata dalla più grave aberrazione del Comunismo, e poi di assordante silenzio. E quando, fra l’elegia funebre e il procedere nell’incubo, fra l’autobiografia e la spiritualità, fra le riflessioni personali e la Storia, Les tombes sans noms corre il rischio di lambire i confini della retorica, Panh è sempre pronto a diradarla nella più pura poetica, nelle fotografie ectoplasmiche a coronare le tombe finalmente con un nome, nella ri-personalizzazione di uomini e donne che tornano alla propria identità e al proprio corpo, nelle immagini sfuggenti di alberi e pezzi d’argilla, negli spaventapasseri, nei pupazzi, nelle mani che scavano nella polvere, nei resti che riemergono insieme alla propria identità. Fino a rendere possibile una pacificazione nel dolore più atroce, un barlume di giustizia là dove aveva vinto il puro orrore, un’apparentemente impossibile fuoco vitale nella morte. E la consapevolezza di avere fatto la cosa giusta.
Marco Romagna