2 Marzo 2017 -

LES SAUTEURS (2016)
di Moritz Siebert – Estephan Wagner – Abou Bakar Sidibé

Je sens que j’existe, car je filme
Abou Bakar Sidibé

Si potrebbero scrivere intere encicliche cercando di interrogarsi su quale sia la funzione più intima del mezzo cinema. Noi stessi, nel nostro piccolo e nelle nostre visioni, ci siamo trovati più volte a parlare di urgenza, di umanità, di partecipazione delle immagini, di vicinanza, di creazione ed espressione come vere e proprie piccole e grandi resistenze alle guerre, alla povertà, agli eventi storici. Ma nessuno di noi, per nostra fortuna di contingenza storica, ha mai scoperto davvero sulla propria pelle come quel puntino rosso della macchina da presa che sta girando possa essere l’unico faro verso la libertà, l’ultimo bagliore di speranza, l’unico modo per sopportare ancora il dolore e continuare a sognare fino alle lacrime di gioia.
Abou Bakar Sidibé, probabilmente, sapeva a stento che cosa fosse, il cinema, quando Moritz Siebert ed Estephan Wagner si sono presentati sul Monte Gurugu, ultimo avamposto d’Africa che domina la città spagnola di Melilla, consegnandogli una videocamera (e qualche soldo perché evitasse di venderla immediatamente) chiedendogli di filmare, a sua scelta, la vita di chi cerca quotidianamente di fuggire dalla fame, separato dal trattato di Schengen e quindi dalla nuova vita “solo” da tre barriere sorvegliate dalle due polizie. Abou, i genitori rimasti in Mali e il fratello già riuscito a superare le barriere e ormai in Germania, accetta l’avventura di mostrare la vita nell’accampamento quasi come un gioco, ponendosi come semplice protagonista con una handycam, ma con l’andare avanti del tempo, i ripetuti tentativi falliti di superare le tre barriere, le razzie della polizia marocchina che brucia tutto ciò che trova nell’accampamento, la morte di un carissimo amico e la speranza che rimane nonostante tutti i dolori come un barlume che emerge dal fondo degli occhi, inizia a essere sempre più motivato dalla necessità di mostrare la vita, la condivisione, la partecipazione e la dignità di quella fetta di mondo, per poi prendere gusto nell’estetica delle inquadrature scoprendo giorno dopo giorno la ripresa come espressione, narrazione, urgenza viva e pressante di testimoniare e portare avanti le vite che passano davanti all’obiettivo. Mentre guarda nel mirino, Abou guarda dentro se stesso e inizia davvero a capirsi: le immagini diventano sempre più curate, acquisiscono un senso, diventano sfogo ed espressione, mostrano la realtà e al contempo la chiarificano a chi la vive, come se il mondo dentro a uno schermo avesse contorni diversi, più definiti e al contempo più liberi: “Sento che esisto perché sto filmando”. Il cinema, per Les Sauteurs, “I saltatori” che quotidianamente sognano di balzare in Europa, è un veicolo d’immortalità, è la dignità umana, è la volontà di autodeterminazione, è la libertà che viene convogliata nella creazione di immagini. E questo, Abou e i suoi “fratelli”, lo scoprono giorno dopo giorno in oltre un anno di vita insieme, quando questa vita è solo una transizione, perché “Nel campo, la prima regola è che tutti passeremo in Europa. E su questo non si discute”.

Melilla è, per ovvie ragioni geografiche, la città europea più militarizzata. Da sempre centro nevralgico dei commerci per mare, pezzo di Spagna sulle coste del Marocco, è per chi la guarda dall’alto del Monte Gurugu “la nuova vita”, la speranza più grande, il mondo da raggiungere a tutti i costi. Abou e i suoi compagni passano molto tempo sulle alture, vicini all’accampamento, dove la stessa conformazione della montagna cela alla vista quell’orribile tripla barriera, come se i tetti di Melilla fossero già raggiunti, come se quel confine non ci fosse, come se la loro vita fosse già con un passaporto europeo in tasca e un sorriso stampato sul volto. Sanno perfettamente che oltre quei reticolati che separano l’Africa dal porto franco europeo in territorio africano non c’è il Bengodi: sanno benissimo che c’è la crisi, come sanno che verranno accolti male da buona parte di una popolazione incapace di guardare al di là del proprio naso, pronta ad arroccarsi in posizioni xenofobe senza rendersi conto che l’estrema povertà di quelle terre, e l’urgenza di fuggire per chi ci è nato, è semplicemente la diretta conseguenza dei nostri secoli di colonialismo, nei quali abbiamo portato via, a rimpinguare le varie casse europee, quasi tutto ciò che l’Africa offriva. Ma Abou e i suoi “fratelli”, oltre a essere consapevoli di ciò a cui stanno andando incontro, conoscono perfettamente anche la sofferenza che si lasciano alle spalle, e sono pronti a qualsiasi dolore pur di poterla finalmente consegnare al baule dei ricordi e non doverla mai più vivere.
Moritz Siebert ed Estephan Wagner, documentaristi che mai prima d’ora avevano incrociato le proprie pluriennali carriere, annullano totalmente ogni tipo di possibile distanza umana consegnando (anche fisicamente, con la videocamera) la direzione delle riprese al loro protagonista per poi effettuare solo in seguito un sontuoso lavoro di scrittura e montaggio, lasciando così che, senza alcuna forzatura, siano gli stessi migranti a svelarsi e mostrarsi nella loro quotidiana vita votata all’inseguimento un sogno, nelle loro ritualità, nella loro cultura, nelle loro etnografie, nei loro dialoghi e anche nei loro umanissimi errori di valutazione. Le riprese di Abou Bakar Sidibé, esperimento cinematografico per molti versi miracoloso, sono il racconto in prima persona di chi sta vivendo la lotta quotidiana per raggiungere un’impresa: non si limitano a osservare magari con amore ma pur sempre dall’esterno, non si limitano a porsi come testimonianza del fronte comune e della cooperazione, ma ne diventano una parte, ne sono una prova tangibile, grondano sincerità, emozioni, sentimenti anche contrastati di chi ha tre barriere di filo di ferro da superare per poter accedere alla propria vita lasciando indietro ricordi, famiglia e dolori. Nel campo non contano i mestieri precedenti, ma ognuno fa ciò che serve, tutti sono a disposizione della comunità, tutti stanno vivendo lo stesso sogno e tutti insieme assalteranno, secondo regole ben precise e attendendo pazientemente che arrivi l’ordine da chi è democraticamente preposto a darlo, la recinzione ogni volta che sarà necessario, fino a quando non vinceranno la loro battaglia per il sacrosanto diritto a una vita migliore. Nel suo percorso da protagonista/found footage a co-regista a tutti gli effetti e Virgilio che terrà le fila dell’intero film con la sua voce fuori campo, Abou Bakar Sidibé vive la quotidianità del cibo condiviso e della totale cooperazione, dei pochi averi nascosti perché non li trovi la polizia e delle coperte miracolosamente scampate all’incendo, della paura e della speranza, della morte e delle ferite, e nel frattempo filma e si fa filmare, canta e si lava, cammina e sogna, teme gli spiriti notturni e la polizia marocchina, compie rituali sacrifici di cibo e animali per essere aiutato nella sua impresa, si ritrova costretto a fare la peggior telefonata della sua vita “ma almeno verrà ricordato e onorato dai suoi genitori”, grazia un traditore che secondo regole avrebbe meritato la morte ed è operatore e telecronista del “derby” calcistico Mali-Costa d’Avorio giocato nella polvere di un improvvisato Maracana, dove non conta chi vince, conta solo poter giocare la rivincita “a Melilla, di là, in Spagna”.

Alle immagini di straordinario calore di Abou Bakar Sidibé, estrema conseguenza del “punto di vista” personale, Sieber e Wagner contrappongono intelligentemente i gelidi infrarossi delle telecamere di sorveglianza della recinzione, pronti a zoomare nella notte a ogni minimo movimento, pronti a consegnare alla storia ogni tentativo fallito, ogni arrivo della polizia spagnola, ogni mesto ritorno attraverso le grate di chi non ha fatto in tempo a toccare il suolo dell’Europa africana per poi poter partire, tramite il centro di accoglienza e i trattati di libera circolazione di Schengen, verso il Vecchio Continente. Come pesci nelle reti, più e più volte Abou e gli altri non riescono a superare le barriere, e rimangono intrappolati. Ma a volte, si sa, è solo una questione di organizzazione, di capire come ovviare a un problema di grip, di diventare più veloci, e la soluzione a volte è semplicissima, serve giusto qualche vite, serve giusto un po’ di ferro con il quale forgiare gli uncini con i quali appendersi, serve giusto un po’ di inventiva, per poi finalmente capire di avercela fatta.
Perché Les Sauteurs, a breve in sala grazie alla distribuzione calendarizzata da I Wonder Pictures-Biografilm in collaborazione con ZaLab dopo il passaggio al Mese del Documentario, al di là della sua straordinaria umanità e partecipazione, al di là della sua insostituibile mappatura etnografica, al di là della sua ben precisa quanto condivisibile presa di posizione politica e, se possibile, anche al di là dei suoi intenti metacinematografici capaci di elevare il mezzo cinema a introspezione, lettura della realtà e stessa prova dell’esistenza in una sorta di “Filmo, ergo sum”, riesce anche a giocare con la narrazione, meticciando la documentazione di chi quotidianamente lotta per i propri diritti sociali sul Monte Gurugu con il romanzo d’avventura, il found footage con l’introspezione, la parabola cinematografica con una realtà di cooperazione, reale uguaglianza, ideali condivisi, partecipazione assoluta fra amici e protagonisti dello stesso sogno. È un film documentario straordinario, è la capacità di essere al posto giusto al momento giusto, è la capacità di capire quando accendere la videocamera, è la capacità di costruirsi in montaggio lasciando inalterata la spontaneità. È la dignità di un Popolo, ed è la capacità del cinema di farla dolcemente emergere, con amore, con sofferenza, fino alle braccia alzate finali, inizio di una nuova vita. Dura, ma diversa e senza dubbio migliore, senza guerre, senza fame, senza dolore. Senza quello che noi, che qui in Europa ci siamo nati e che magari guardiamo chi arriva con sospetto, diamo per scontato che non ci sia, senza renderci conto di quale e quanta sia la nostra fortuna, e magari dimenticando il nostro passato. Perché a volte non è la Statua della Libertà ad annunciare la gioia di poter ripartire daccapo, non è il grido “L’America” che riecheggia per il ponte di terza classe di un transatlantico. È “solo” una tripla barriera di fil di ferro oltre la quale ci sono i tetti d’Europa. Una barriera da saltare per atterrare sulla terra promessa.

Marco Romagna

“Those Who Jump” (2016)
80 min | Documentary | Denmark
Regista Abou Bakar Sidibé, Moritz Siebert, Estephan Wagner
Sceneggiatori Moritz Siebert, Estephan Wagner
Attori principali N/A
IMDb Rating 7.6

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