Non è una co-regia, e non è nemmeno l’unica firma su una sceneggiatura scritta a sei mani insieme al regista Jacques Audiard e a Léa Mysius già co-autrice degli ottimi Les Fantômes d’Ismaël e Roubaix, une lumière per Desplechin. Eppure è chiaro ed evidente il tocco inconfondibile di Céline Sciamma, mentre scorrono gli straordinari dialoghi, si avvicendano le situazioni e si stratificano emotivamente i personaggi rotondi, sensuali, e dolcissimi di Les Olympiades, in uscita in Italia come Parigi, 13Arr. Un film, come già in misura minore per Quand on a 17 ans di André Techiné e per il Ma vie de Courgette animato da Claude Barras, che pare quasi appartenere più intimamente a lei che all’autore firmatario, nel quale è evidentemente sua la delicatezza, è evidentemente sua la poetica, è evidentemente sua la brillantezza, è evidentemente sua la sagace ironia, è evidentemente sua la capacità di scrutare nel senso più profondo dei sentimenti e dei rapporti umani. E forse, per lo meno per la presenza e per lo spessore di Noemie Merlant già pittrice nel suo Portrait de la jeune fille en feu, è suo anche almeno parte del casting, a comporre i vertici di un triangolo amoroso rigorosamente scaleno da cui costruire uno spaccato generazionale che parte dalla graphic novel per flirtare con la commedia, con l’eros, con l’equivoco, con la rabbia, con la seduzione, con la malinconia, con il desiderio, con la purezza dei sentimenti. Storie comuni, normalissime, di trentenni che vivono la propria quotidianità nel reticolo di vie della città e nelle stanze vuote delle case. Che parlano, che ridono, che fanno sesso. Che si conoscono, che si innamorano (oppure no) e che si lasciano spezzandosi il cuore. Che lavorano, che cercano di distrarsi e che si riscrivono dopo mesi perché si rendono conto di mancarsi. Che si ingelosiscono, che soffrono traumi e che poi finalmente si (ri)trovano. Un consapevole aggiornamento della Nouvelle Vague alla contemporaneità social delle chat whatsapp e delle livecam porno, cercando un nuovo punto da cui teneramente osservare una porzione dell’atlante sentimentale della vita poggiando il proprio treppiede da qualche parte fra l’Éric Rohmer de La mia notte con Maude e l’Edward Yang di Taipei Story, il Jean Eustache di La maman et la putain e l’Hou Hsiao-hsien de I ragazzi di Feng Kuei.
Basta un movimento di macchina per entrare a Les Olympiades, la multiculturale Chinatown parigina che sulla Rive Gauche della Senna si impenna nei suoi palazzoni popolari formicaio di case per oltre centocinquantamila persone di ogni etnia, lontana dalle mete dei turisti e in qualche modo opposta alla grandeur sofisticata della capitale francese. Basta una carrellata semicircolare, con cui la macchina da presa di un da subito atipico Jacques Audiard si muove lenta e sinuosa per l’appartamento svelando nel suo bianco e nero il karaoke di Emilie, sino-francese di seconda generazione nuda sul divano in tutta la sensualità del suo canto solitario. Lavora (ancora per poco, anche se ancora non lo sa) in un call center, non disdegna il sesso occasionale magari racimolato con Tinder, e nel frattempo arrotonda affittando una stanza del suo appartamento, di proprietà di quella nonna in clinica con l’Alzheimer che ormai nemmeno più la riconosce. È sostanzialmente un equivoco a farle conoscere Camille, lei che cercava solo coinquiline donne e lui maschio nero e aitante, insegnante che sta completando il dottorato e ottimo amante di una sola settimana di illusoria passione, proprio come sarà un altro equivoco come uno scambio di persona, diverso tempo e chissà quante relazioni dopo con in mezzo l’occasione per cambiare mestiere, a far conoscere a lui Nora. Un invaghimento a prima vista bloccato sul nascere, ma poi relazione (?) nata naturalmente e senza alcuna fretta nel corso dei giorni quando lei finirà a lavorare nella sua agenzia immobiliare, dopo che a causa della sua somiglianza con una nota pornostar del web – proprio Nora, che esattamente all’opposto di Emile fra le lenzuola è da tempo a disagio per traumi passati e blocchi emotivi, e avrà bisogno di altro tempo per quel violento sbloccarsi nel sesso che finalmente la riaprirà alla possibilità di un amore –, è stata di fatto costretta a lasciare una Sorbona in cui era ormai impossibile fermare le dicerie, le risatine e il fango, sputtanata e derisa a torto, ma ormai irreversibilmente bollata. Non le resterà che entrare nel sito, pagare e contattare la sua quasi-sosia e imposto alter ego Amber Sweet, instaurando un rapporto che diventerà via via sempre più intimo e sincero, fatto di intere nottate su Skype e di reciproci cuori aperti, fino alla dolcezza quasi insostenibile del magnifico finale nel parco, dopo che quel «Je t’aime» ripetuto ancora e ancora al citofono avrà riportato ogni traiettoria al giusto posto per poter provare ad essere, almeno per un po’, finalmente felici.
È il gioco a incastri di una sceneggiatura perfettamente calibrata fra le non poche risate (basterebbero gli split screen del rapporto di Emile con la sorella che puntualmente la insulta al telefono, oppure la sera in cui prova l’mdma e non ha idea di come gestirlo, o ancora la prontezza delle sue risposte acide di gelosia e orgoglio ferito) e la profonda verità dei sentimenti (non solo quelli all’interno dei vari rapporti di coppia dagli innamoramenti più e meno unidirezionali, ma anche quello di Camille con la sorellina prima inavvertitamente offesa con la propria freddezza e poi riconquistata con quella comprensione e quell’affetto che forse non era mai stato in grado di darle), in cui a emergere dallo schermo, così come emergeva dai fumetti americani di Adrian Tomine da cui Les Olympiades è tratto, è la profonda solitudine che si può provare all’interno della folla della grande città, negli appartamenti, nei supermercati, nelle aule magne universitarie, o ancora su una pista da ballo fra i più pesanti apprezzamenti che non si sarebbero mai voluti sentire e il più profondo scoramento di chi cerca di dimenticare il suo amore non (ancora) ricambiato. Fino alla candida e tenerissima purezza di sentimenti vecchi e nuovi ormai troppo forti per non deflagrare nell’impagabile di un sorriso. E forse è proprio qui che, quasi paradossalmente, sta il principale merito da regista di Jacques Audiard. Nel lasciare che il principale motore di Les Olympiades, forse a conti fatti l’unica reale sorpresa in positivo nel concorso di Cannes74, siano proprio la piena e sfaccettata tridimensionalità di personaggi pronti con la loro emotività e i loro legami a caricarsi il film sulle spalle, la brillantezza dei dialoghi e più in generale la profonda ed empaticissima scrittura di Léa Mysius e soprattutto Céline Sciamma, senza fare nulla o quasi per farsi riconoscere, più che mai umile e intelligente nel rinunciare di fatto al suo stile per mettersi al servizio del film e delle forme di cui aveva bisogno. Una sostanziale (in)visibilità operaia che nella collaborazione e nel meticciamento formale di tre diversissimi autori rivendica la superiorità del cinema in quanto tale su chi lo fa, il suo potere salvifico nell’andare avanti sempre e comunque cercando il modo migliore per esprimersi, prendendo il meglio dell’uno e dell’altro e adattando i propri linguaggi alle necessità espressive. Quello che conta è che lo schermo si illumini di un gran film. Divertente, profondo, romantico, sincero, crepitante, commovente. Catartico. E non è forse questa una delle migliori forme possibili di autorialità?
Marco Romagna