LES GENS D’À CÔTÉ (2024), di André Téchiné
«Aux armes, citoyens, formez vos bataillons» è l’invito che più o meno dai tempi della presa della Bastiglia fa La Marsigliese a tutti i cittadini francesi. Un’esortazione, figlia della Rivoluzione, a imbracciare se necessario personalmente le armi, a formare il battaglione e a combattere in prima persona contro l’ingiustizia, la disuguaglianza, le prevaricazioni del potere contro il Popolo. Versi di un ben preciso peso specifico, sui quali è nata e si è formata l’identità di una nazione e in generale dell’età contemporanea, eppure diventati oramai quasi un paradosso, da cantare tutti insieme a squarciagola e con trasporto come se fossero propri ma da non poter più prendere in parola, pena l’essere considerati nemici e terroristi proprio da quella patria per amore della quale si è disposti a lottare, a rischiare e se necessario perfino a morire. È per questo che si apre proprio con l’inno francese Les gens d’à côté, letteralmente “Gente della porta accanto” che il titolo internazionale banalizza in un semplice My new friends, nuovo lavoro dell’ottuagenario André Téchiné presentato nella sezione Panorama della 74ma Berlinale, ed è per questo che al centro dell’inquadratura, a intonarlo dopo una manifestazione pacifica di solidarietà per le vittime di polizia, c’è proprio la Lucie di Isabelle Huppert, che ne ha il distintivo in tasca e lavora da molti anni nella squadra scientifica considerandola la sua unica vera famiglia, ma che dal momento del suicidio del suo compagno e collega per via di una situazione emotivamente ingestibile sul lavoro è di fatto diventata la vedova di un’altra vittima, seppure in maniera diversa, delle forze dell’ordine. Come a suggerire sin da subito la contraddizione di parole da conoscere e da recitare a memoria purché di fatto private del loro significato, partite dal Popolo ma tornate ben presto nelle mani della borghesia e del (nuovo) potere costituito che (in)degnamente o meno rappresenta lo Stato, e che esattamente come quello dell’Ancien Régime ancora oggi non accetta di essere messo in discussione e attaccato dai suoi cittadini subalterni disposti a correre alle armi.
Una ricerca di ordine e legalità che è la normale vita di uno Stato di diritto, a ben vedere, eppure forse è la massima incoerenza possibile per un Paese (esattamente come il nostro: anche Mazzini tecnicamente nient’altro era che “un terrorista”, prima di vincere e cambiare la Storia…) nato proprio da una violenza legittima e inevitabile contrapposta a quella autocratica e repressiva dei re e dei padroni, che si commuove di patriottismo alle parole battagliere del suo inno nazionale mentre, esattamente come gli stessi re e padroni che aveva fatto salire sulla ghigliottina, non esita a usare per primo la violenza per reprimere la potenziale violenza di ogni possibile sedizione, di ogni minaccia alla sua stabilità, di ogni nuova rivendicazione che dal basso cerchi di cambiare qualcosa del sistema capitalista e delle forze dell’ordine con le quali si fa scudo. Eppure non si lega solo alla Francia periodicamente scossa da movimenti di piazza, il discorso di Téchiné. Perché quel senso di dubbio e di dilemma morale, sociale e politico ma soprattutto umano che il suo film metterà in scena, con la protagonista poliziotta destinata, lungo il suo difficile percorso di elaborazione del lutto, ad affezionarsi alla famiglia dei nuovi vicini di casa per quanto il padre e marito, Yann, sia un noto oppositore delle forze dell’ordine con una lunga lista di indagini e condanne alle spalle per sedizione e terrorismo, non ha né luogo né confini, ma si universalizza e trova parallelismi in ogni Paese del mondo, ovunque ci siano traumi e violenze da parte di chi dovrebbe al contrario proteggere le persone, ovunque ci siano giochi di potere e vergognosi episodi di prevaricazione (si pensi ai troppi neri crivellati di colpi negli Stati Uniti, per esempio, ma anche alla vergogna mai rimarginata della Scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001, ai troppi Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva, alle cariche sui cortei pacifici degli studenti e degli operai: soprusi di un sistema che di volta in volta aggiunge un qualche tassello di oppressione e forza pubblica), ovunque ci siano coscienze sporche e violenze di Stato alle quali prima o poi è inevitabile che qualcuno, a torto o a ragione, con le buone o con le cattive, decida di ribellarsi. Ovunque ci sia da scoprire un’umanità che deflagra ben prima delle sue attività dinamitarde e apparentemente inconciliabili con la propria, ovunque ci siano da capire le effettive ragioni che hanno portato un uomo a superare il limite fra persona di sani principi e black-block senza Stato né legge, ovunque ci sia da fare una scelta di coscienza e di cuore: essere poliziotta oppure amica, proteggere lo Stato (anche se probabilmente non lo merita) o gli affetti personali (anche se criminali, e aiutarli e coprirli vorrebbe automaticamente dire diventarne complici). Fino a non sapere più da che parte stare, ma a dover necessariamente decidere, di testa o di pancia, coerenti con le proprie convinzioni o con la purezza dei propri sentimenti.
Poi sì, non proprio tutto funziona alla perfezione. Per esempio nei sogni “fantasmatici” di Lucie in cui il grande amore della sua vita torna ancora ogni notte a trovarla, indubbiamente poetici eppure in definitiva superflui nel delineare la solitudine, il dilemma etico e le scelte della protagonista, e con qualche dettaglio estetico e simbolico (la maglietta di Obama) oggettivamente rivedibile. Oppure nella voce fuori campo di Lucie che interviene di tanto in tanto a spiegare quello che è già perfettamente chiaro, o ancora nelle dinamiche con quel che rimane della sua famiglia, con quel cognato, fratello gemello del compagno morto suicida e anch’egli poliziotto, che dopo aver dimenticato le sue origini africane e le angherie subite una volta giunto in Francia per scegliere in tutto e per tutto la vita del servitore dello Stato le chiederà espressamente di fingersi amica per infiltrarsi viscidamente nella famiglia e spiare le attività del vicino sedizioso. Ma anche in qualche dettaglio di trama e di sviluppi fra i personaggi, in cui si perde a tratti credibilità nella facilità forse perfino eccessiva con cui si stringe e si salda il rapporto fra Lucie e la gente della porta accanto, e in cui nessuno dei tre vicini, pur frequentando la casa della protagonista e vedendole fare avanti e indietro dall’ufficio, avrà mai un sospetto sul suo reale lavoro fino a quando non sarà lei a dichiararlo, da qualche parte fra la sfida e la vergogna di fare parte di un sistema che dovrebbe servire il Popolo e che invece preferisce controllarlo e reprimerlo. Ma sarebbe profondamente ingeneroso attaccarsi ai limiti veniali di un film tenero, onesto e amarissimo, che fra l’elaborazione del lutto e un melodramma umanista sghembo di connessione umana più forte di qualsiasi polarizzazione delle opinioni, passando per l’apertura multietnica ad altre culture, si interroga con intelligenza, trasporto e impegno sulle distonie politiche e sociali della Francia e in generale della contemporaneità.
Un film con cui, quarantacinque anni dopo Les soeurs Brontë, Téchiné torna a lavorare con Isabelle Huppert, scegliendola come nuovo feticcio dopo Catherine Deneuve e caricandole sulle spalle da una parte la professione di Lucie, il suo codice etico e la conoscenza delle leggi, e dall’altra l’umanità e la valutazione personale di chi alla lunga, a furia di frequentare la casa della porta accanto fino a scoprire un vero e proprio affetto per quella bambina e per quella madre dolcissima, ma anche per quel padre anarchico e “socialmente pericoloso” che resiste al montare di uno Stato di polizia, non potrà fare a meno di “tradire” il suo lavoro per scegliere di agire da amica, da zia acquisita, da persona ormai di famiglia che aiuta e protegge chi le sta a cuore. Perfettamente consapevole di essere colpevole di favoreggiamento del “nemico”, ma forse davvero solo per fare il bene della piccola, cercando di non farla crescere con un padre in galera e una madre triste. O forse perché in fondo, pur non condividendo l’estremismo delle sue posizioni, si rende conto della bontà d’animo, della totale buona fede e delle effettive ragioni di un uomo che non ha potuto fare a meno di reagire alla violenza e ai soprusi subiti in passato da lui e dai suoi amici, dalla sua classe sociale e dalle minoranze etniche a lui vicine (a partire dalla moglie non a caso interpretata dalla franco-magrebina Hafsia Herzi). Un uomo che non può più sopportare una polizia che prima alza il manganello e poi forse chiede scusa, e che ha deciso di formare il battaglione e consacrare la sua vita al raggiungimento di un bene superiore, di un mondo migliore senza più mele marce e brutali abusi di potere. Un uomo al quale, come si diceva, è necessario tenere rigorosamente nascosta la propria professione e del quale si vorrebbe sapere il meno possibile, eppure evidente sin da subito nel suo animo gentile, dolcissimo con la moglie e con la figlioletta, sensibile e artistico nei suoi disegni e nei suoi dipinti (che però non potrà presentare perché agli arresti domiciliari per aver sparato proiettili di gomma contro la gendarmerie, mentre perfino la gallerista taglierà malamente il suo messaggio anche politico affidato alla moglie per leggerlo in sua vece all’inaugurazione), e dall’altra parte fedele a una causa e ai suoi compagni di lotta, di fatto costretto dalla violenza a generare altra violenza con cui contrastarla, o per lo meno ad aiutare e nascondere chi si muove in prima linea per il medesimo ideale. Magari esagerando, generalizzando, non riuscendo più a fare i necessari distinguo fra la divisa e chi la indossa, ma al contempo dimostrandosi una persona migliore di tante altre, che lotta per ciò che ritiene giusto, e che è disposto a sacrificare la propria libertà personale e la serenità familiare pur di dare un futuro migliore alla sua bambina e in generale al mondo che verrà. In attesa che «Le jour de gloire» possa arrivare di nuovo, ma questa volta per davvero. O più probabilmente in attesa solo delle (ennesime) manette, e poi di un timido saluto da lontano, quando l’attesa di una sentenza definitiva impedisce esplicitamente di incontrarsi, ma i cuori continuano imperterriti a battere all’unisono.
Marco Romagna