La presenza di Bertrand Mandico nella Settimana della Critica è da settimane, mesi, tra le cose più intriganti e più attese dell’intero palinsesto festivaliero qui a Venezia 74. Questo perché il regista francese, classe ’71, è già stato precedentemente dietro la macchina da presa per una serie di lavori tra i quali molti illuminanti, in particolare il cortometraggio Living Still Life e il mediometraggio Boro in the Box, il primo concentrato sull’animazione cinematografica come atto di resurrezione e il secondo su una completamente surreale biografia del regista pornografico e d’animazione polacco Walerian Borowczyk, rappresentato dall’infanzia alla morte in una struttura episodica dall’ordine alfabetico, con il capo sempre ricoperto da una scatola con al centro un buco, per l’occhio, per l’obiettivo, per il voyeurismo. Con Les Garçons Sauvages, girato in super-16, probabilmente, Mandico è andato però verso il passo successivo: non trattasi più di un piccolo frammento di genio, con un’idea di base che procede e si evolve fino a diventare l’ossatura per un potenziale piccolo capolavoro, bensì di una vera e propria Odissea dell’immagine, un viaggio disavventuroso talmente gremito di riferimenti cinematografici e letterari tra i più disparati da smettere di essere un flusso citazionista e diventa automaticamente una simulazione di una visita a una galleria d’arte. Ma a fare il film non è solo la competenza culturale con la quale il regista ha curato ogni singola inquadratura e ogni stacco di montaggio, bensì il vero e proprio approccio alla storia, un’ellittica avventura nei meandri della sessualità che mischia il suo prepotente surrealismo con la narrativa di Verne e Stevenson in un viaggio sensoriale che comprende in sé metafore per nulla velate, spiattellate con una sottigliezza che si dimostra nella forza della forma e non nella trama. È un oggetto misterioso, questo film, un vero e proprio colpo di mano subìto dalla noia del Lido da parte del cinema, sostenuto e concepito come forza trascinante. E probabilmente bisognerebbe scriverci sopra un saggio, dopo visioni e visioni sostenute e ripetute, ma a volte semplicemente ciò non è fattibile – e la brevità di commento che sto per intraprendere contiene un parziale rimorso legato proprio a questo fatto, all’impossibilità di studiare nel dettaglio Les Garçons Sauvages in quanto monolitico oggetto volante non identificato di questa Mostra.
Si parte innanzitutto da un flashforward, ripescando la struttura narrativa che conosciamo principalmente grazie a Viale del tramonto e Carlito’s Way, con un umano mezz’uomo e mezza donna, Tanguy, che scappa da marinai che lo/a vogliono violentare. La sua soluzione a tutti i problemi è la codardia. Il denso bianco e nero sporco, sabbioso e sudaticcio è lo stesso di È difficile essere un Dio di German, ma forse ancora di più il riferimento potrebbe essere a La donna di sabbia di Hiroshi Teshigahara: e da qui non può che partire una piccola parentesi sull’influenza della Nuberu Bagu, la nouvelle vague del cinema giapponese, sul mondo che Mandico costruisce. La gang androgina dei 5 ragazzi (interpretati tutti da donne, in attesa della trasformazione) può rimandare alla mente Arancia Meccanica, a partire dalle maschere, dall’ultraviolenza, impersonata da un Dio della violenza di nome TREVOR, dall’esibizione del membro, dalle bretelle, dalla musica classica e dalla leccata della suola della scarpa, ricontestualizzata con la violenza che viene mossa dai giovani individui e non dall’organismo della società, ma forse è più giusto avvicinarsi, perlomeno da un punto di vista estetico, a Funeral parade of roses del rimpianto Toshio Matsumoto; i viraggi apparentemente sconclusionati dal bianco e nero al lisergico sono gli stessi di Throw away your books, rally in the streets e di Pastoral di Shuji Terayama; la pistola de La farfalla sul mirino, che gira e gira. I simbolismi surrealisti non sono quelli sottili del primo Buñuel né quelli strabordanti dei tarocchi ‘en vivant’ di Jodorowsky, bensì sono direttamente l’esplosiva e gargantuesca forza dell’immaginario erotico-esoterico del più sperimentale Kenneth Anger di Fireworks, con lo sperma/latte che agisce come dirompenza nel contempo sessuale, spirituale, naturalistica e purificatoria. Ci sono Von Sternberg, la Chytilova e Cocteau, c’è una serie di immersioni acquatiche che rimandano a Vigo e a L’Atalante, c’è l’arma da fuoco nascosta nel ventre di Videodrome, ci sono le sovrimpressioni del cinema muto di Abel Gance (La rosa sulle rotaie), di Vertov e di Murnau (Aurora e L’ultima risata) e i leitmotiv del cinema indipendente giovanile odierno, a partire dall’utilizzo della musica e dal tipo di accentuazione sulla sensualità e sul senso grafico delle singole sequenze, a partire dall’orgia gay/lesbo sulla spiaggia tra amici, tanto strascicata quanto intensa, colma di vero affetto. Ma non c’è il rischio né di portare quest’estremismo di citazionismo nella direzione del vuoto cosmico, come hanno fatto Cattet e Forzani in Laissez bronzer le cadavres!, né di estremizzarne le caratteristiche stilistiche fino a risucchiarle nella celebrazione delle follie formali come Guy Maddin in The Forbidden Room; e ciò è perché più che fare un tributo a uno stile registico (o a una serie di stili registici), Mandico mischia le proprie idee di riferimento riflettendo su di esse: il tuffo nello stile de L’Atalante è un tuffo nei ricordi e nel liquido amniotico come in Vigo, ma l’apparizione umana è passiva, plastica, differenziata, il ricordo non si attua; i fuochi d’artificio di Anger sono uniti all’estetica marinaresca di Querelle di Fassbinder, come completando il discorso solo estetico con quello contenutistico; e così via, c’è una piena coscienza dei limiti imposti dalla forma, e abbastanza elucubrazione discorsiva per poter mandare in avanti lunghe riflessioni sul mezzo cinema e la sua evoluzione nell’epoca postmoderna.
Cosa ci dice Les Garçons Sauvages sulla sessualità? È come se fosse rappresentato, su un surreale set-palcoscenico, un conflitto tra impulsi, tra l’Anima e l’Animus junghiani, tra incoscienza del proprio ruolo maschile e/o femminile (una coscienza superficiale e un’incoscienza profonda). Il ruolo della virilità è esasperato sin dallo stupro iniziale, non solo con la messinscena colma di allegorie falliche che rimandano a Querelle ma anche con espliciti espedienti narrativi e grafici, come l’ossessione per la masturbazione. Poi tutto ciò sfocia in un opposto archetipale, un’isola “a forma di ostrica” in mezzo alla natura, seducente, luogo esterno che è allegoria di un luogo interno, come esprimendo un viaggio in una presa di coscienza della propria interiorità e dualità. Nel sogno, nel metafisico, nel sesso. È una virilità negativa, un’inconsapevolezza della mascolinità, una virilità fatta di impulsi che devono essere repressi per fare spazio ad altri punti di vista, rappresentati, invece, dalla femminilità, la nascita del seno, la caduta del membro. Il capitano, figura chiave della prima parte del film come la dottoressa, suo logico opposto, è chiave nella seconda, è maschio alfa che è stato castrato dalla scoperta di sé, con un pene tramandastorie, ricoperto da una mappatura mitologica, che si rifà all’estetica forse della succitata letteratura epica dell’800; essa, in quanto datata, giustifica peraltro anche i ruoli dati al maschile e al femminile, che partono dalla loro versione stereotipata e attraverso un gioco di poteri diventano un magma più complesso, che rivela anche altro. Difatti, solo alla fine del gioco capiamo che questo scambio di identità e genere più che mostrarsi come conferma di un conflitto nel mondo femminile à la Tag, sembra costruire una visività di una perdita di certezze inconsce, attuabile o inattuabile anche a causa dei propri limiti caratteriali e psicologici, come la vigliaccheria del biondo Tanguy. Ed è anche un po’ per una ricerca di un confronto, di un rapporto umano e fisico tra individui incompleti che cercano completezza guardando attraverso le barriere fisiche e metafisiche, tanto i muri fisici della natura sensuale e della nave-prigione quanto le pareti stesse dello sguardo cinematografico, riferendosi alla macchina da presa nei momenti di necessità, fragilità, debolezza. È un film massimalista ed esplicito nei propri intenti, ma senza retorica perché tutto riesce a fluire verso una descrizione dei propri simboli immaginari e fantastici che ha una perfetta consapevolezza e competenza, chiudendo ogni cerchio e ogni filone della storia e del contenuto con una lucidità posta in modo da esprimersi più in senso astratto ed esistenzialista che in senso psicologico e strettamente anatomico.
Per concludere, Les Garçons Sauvages è una compenetrazione visionaria ma coerente tra cognizione del proprio Es e immagini che ne descrivono lo spaesamento totale, con un’autonomia trascinante, psichedelica, unica. Mandico era già un autore che necessitava di essere tenuto d’occhio per il proprio visibile e immediato talento, sia da un punto di vista formale che contenutistico se vogliamo, ma dopo questo gioiello ci sembra giusto avere una speranza davvero grande nei confronti del suo futuro come cineasta. Poi, i personaggi del film dicono «Il futuro è donna!», citando magari involontariamente l’omonimo film di Marco Ferreri, quindi è difficile immaginare cosa si possa prospettare nella carriera di questo autore che con quest’unico film ha già composto un così approfondito saggio sull’interiorità giovanile nel presente attraverso i luoghi comuni della letteratura del passato. C’è anche Burroughs, con i suoi salti pindarici che concernono le esplosioni di sessualità e violenza, e anche a lui il film è dedicato: alla ‘beat poetry’, insomma, a tutto ciò che l’ha preceduta e succeduta, a tutta quella libertà che è impossibile non notare, stimare, amare.
Nicola Settis