“Vorrei trovare le parole”. Lo dice espressamente Ismaël Vuillard, nome che riemerge da I re e la regina (2004) per fornire un nuovo alter ego, non a caso registico, al cinema personalissimo e ossessionato di Arnaud Desplechin cui è stato affidato l’onore di aprire fuori concorso il 70mo Festival di Cannes1 con il nuovo lavoro Les Fantômes d’Ismaël. Lo dice al telefono, registrandolo sulla segreteria telefonica dell’amata, in una comunicazione che si rivela ancora una volta impossibile, forse una mera utopia, o forse un nuovo inizio. Servono le parole, serve il linguaggio, serve combattere il silenzio, nella scrittura frenetica della sceneggiatura di un film che forse non si finirà mai, così come nello svolgimento del film di una vita di cui ci si sente spettatori anziché attori, abbandonati da una moglie sparita nel nulla da 21 anni, 8 mesi e 6 giorni che ora, come un fantasma di carne, dallo stesso nulla si ripresenta. Un tempo di pianti e rimpianti, contato e sofferto da Ismaël giorno dopo giorno, eppure un tempo infinito, nel quale convincersi di una morte certificata dalle carte ma non da una tomba, nel quale distruggere le foto ma ritrovare un dipinto che la ritrae, nel quale (non) riuscire a elaborare il lutto e rifarsi una vita, nel quale essere odiato da un padre che ha perso una figlia e piangere insieme di fronte alle vecchie diapositive. Nel quale, infine, rimettere tutto in discussione fino alla follia: Carlotta, hitchcockiana Donna che visse due volte che da Kim Novak passa nome e testimone a Marion Cotillard, attende sotto le scale di casa di rivedere il proprio marito. È la fine di un equilibrio già instabile, è il bivio dal quale capire quali capitoli scrivere in futuro, quali dialoghi mettere in scena, quale sia la propria identità. Chi è Dedalus? È una spia? È un angelo? E chi è il fantasma? Carlotta che è viva e vegeta? O Sylvia che, volente o nolente, l’ha sostituita? È forse lo stesso Ismaël in fuga dal set come il Guido Anselmi/Marcello Mastroianni di 8 ½? O forse è proprio Desplechin, fine tessitore di ossessioni, autore di continui rimandi interni all’interno della filmografia, cinefilo e umanista, antropocentrico e (necessariamente) autobiografico?
È un film sul linguaggio, Les Fantômes d’Ismaël, ma è anche un film sui sentimenti, sull’arte, sul cinema, sulla rappresentazione, sull’identità, sullo stress, sulla follia. I fantasmi che tormentano Ismaël sono un oggetto multiforme e sfilacciato, un qualcosa che arriva da lontano come un fratello che forse nemmeno esiste ma che è necessario mettere in scena. In un dedalo, misterioso come il nomen omen Dedalus, nuova variazione sullo Stephen di Joyce che dal Paul di Trois souvenirs de ma jeunesse passa all’Ivan protagonista del film nel film. Ma chi è davvero Dedalus? Les Fantômes d’Ismël è un film di suggestioni, di ellissi, di salti, di repentini cambi di genere. È una riflessione sulla regia, sulla scrittura, sull’eterno abbraccio fra cinema e vita, sulla necessità umana di fingere, di mettersi in scena, di manipolare la realtà. C’è la storia di Ismaël, con cui un (sempre) magnifico Mathieu Amalric dona un’intensità che sembra sprizzare dolore dalle pupille, c’è la storia di Carlotta (non) morta e tornata ma trasformata in un fantasma dalle ossessioni e dalle lacrime di una vita, c’è la storia di Sylvia (Charlotte Gainsbourg), attuale compagna che si ritrova a essere di troppo, c’è la storia di un padre, c’è la storia di un set, e poi c’è la spy story del film nel film che apre i primi minuti di Les Fantômes d’Ismaël per poi tornare senza soluzione di continuità a inframezzare e progressivamente sovrapporsi allo scorrere della vita del protagonista: le cinema c’est la vie. Con in mano un cast mai così stellare – ai già citati Amalric, Cotillard e Gainsbourg si aggiungano Louis Garrel nel ruolo di Dedalus e la sua meta-sposa Alba Rohrwacher in un perfetto francese privo di inflessioni italiane – Arnaud Desplechin mette in scena un mondo di fantasmi corporei e mentali, di inadeguatezza e di sentimenti contrastanti. Un mondo fatto di incubi ricorrenti combattuti eliminando il sonno a suon di pillole, gocce e progressivi stati allucinogeni, un mondo fatto di ritorni, di ombre, di specchi, di schermi, di rimpianti, di proiezioni. Di prospettive. Già, le prospettive. Quelle a confronto fra Il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck e L’Annunciazione di Beato Angelico in un (altro) dedalo di punti di fuga in corda, quelle che Les Fantômes d’Ismaël continua a cambiare, in una multifocalità che abbraccia il noir, il melodramma, l’eros, la spy-story, la spirale allucinata, la commedia più spassosa. Ancora, ancora, ancora.
Procede per accumulo, Les Fantômes d’Ismaël. Somma, taglia, ricuce, svolta, ritorna. Come gli anni che passano, come una gravidanza inizialmente scambiata per menopausa, come un film da finire, come un eccesso di entusiasmo quando hai in mano una pistola. Ancora, come le donne che Pollock non ha mai avuto ritratte tutte insieme nei suoi nudi femminili, ancora, come il corpo nudo di Marion Cotillard quando lentamente scende la vestaglia, ancora, come l’amore di Charlotte Gainsbourg negli incroci di lacrimati sguardi e nella passione, nella sua voglia di capire le stelle. Les Fantômes d’Ismaël è un film di scrittura e di messa in scena, fatto di lente aperture a iride quando partono i flashback narrati da Sylvia, fatto di scavalcamenti di campo che genialmente si rivelano uno specchio, fatto di musiche incalzanti, di slabbrature, di ellissi, di finestrini dei treni che si rivelano altri schermi, materia, riflessi, proiezioni. Sono confessioni alla macchina da presa, (psic)analisi, bidimensionalità e fisicità del set, delle diapositive, dei quadri, delle inquadrature, delle tecniche cinematografiche, dei sentimenti. Fino alla fuga dall’industria, dal set, dalla vita, quando le ragioni del cuore (straziato) superano quelle della mente. Il nuovo lavoro di Desplechin è un film in cui non è necessario che torni tutto – anche se, su questo punto, pesa il dubbio sulla doppia versione del lungometraggio, presentato a Cannes in una durata di 114′ mentre si vocifera che in sala uscirà direttamente il Director’s cut da circa due ore e un quarto –, quello che conta è interrogarsi sulle mille tematiche affrontate, è perdersi nei suoi cambi di registro e di stile, è tastare le emozioni di chi ha perso una moglie, di chi ha perso una figlia, di chi ha perso la ragione, nei rapporti di coppia, nei doppi, nel cinema. E poco importa, nella meta-messinscena, che nella Praga sovietica una tangente venga pagata in Euro, poco importa che non tutte le fila narrative e concettuali trovino assoluta compiutezza, poco importa se non tutto ciò che il film semina viene raccolto: non è più la compattezza di Trois souvenirs de ma jeunesse il punto, quello che conta qui è la suggestione, il mistero, l’emozione, perché la vita non è perfetta e l’atto stesso del cinema non può che compiersi nell’imperfezione. E diventa quindi necessario l’overacting del produttore, perché non conta la credibilità assoluta, e forse neanche le dinamiche personali: quello che conta è la vitalità di una realtà/cinema che inesorabilmente fa il suo corso, fra i dialoghi in comune nelle varie storie parallele e le variazioni sui temi autobiografici. Les Fantômes d’Ismaël è un film inclassificabile, sfilacciato, complesso: un frullato di generi e abbracci dal quale traspare una fisica umana incontenibile. Come la danza di Marion Cotillard sul Bob Dylan di It ain’t me Babe, come le destinazioni esotiche di Dedalus e le microspie, come il ritrovarsi, il perdersi ancora, come morire con la propria figlia a fianco. Come un’ecografia e un’attesa spasmodica. Come fare cinema, o fare l’amore. Ancora, ancora, ancora.
Marco Romagna