LES ENFANTS D’ISADORA (2019), di Damien Manivel
Fra le due passioni di una vita ha vinto quella per il cinema, ma era solo questione di tempo perché il rosso Damien Manivel, ex ballerino francese ormai definitivamente passato alla regia cinematografica e già premiato a Locarno nel 2015 per l’esordio Un jeune poète, decidesse di ideare, scrivere e dirigere un film sulla danza. Non la biografia di una ballerina, non la ricostruzione storica della nascita di un balletto, non un romanzo di formazione o di integrazione con al centro la danza e nemmeno un film sull’impegno, la ripetizione e lo spirito di sacrificio che inevitabilmente il ballo porta in dote, ma proprio un film-ponte fra le forme d’arte, che trasforma in cinema l’atto stesso di danzare. Alla ricerca del sul suo senso più intimo e bruciante, alla ricerca delle storie che sa raccontare, alla ricerca dei turbamenti e delle trepidazioni che sa evocare e trasmettere. Alla ricerca del linguaggio del corpo come necessità, poesia, narrazione ed emozione, alla ricerca di quel percorso di identificazione e catarsi che sta in ogni gesto, in ogni passo, in ogni leggiadria. Opera quarta presentata nella vetrina principale del Concorso Internazionale a Locarno72 e premiata dalla giuria capitanata da Catherine Breillat con il Pardo d’Argento per la miglior regia, Les enfants d’Isadora si ispira direttamente, e molto liberamente, allo straziato assolo ballato di La mere, con il quale nel 1913 Isadora Duncan trasformò in atto artistico e fondamentale passo verso la “danza moderna” il suo materno struggimento dopo il tragico annegamento dei figli di 7 e 3 anni fra i flutti della Senna. Ma l’intero personaggio della reale protagonista, nel lavoro di sottrazione quasi assoluta di Manivel in cui la vita al di fuori di La mere verrà relegata a un telefono che suona, a un messaggio scritto sui post-it o a un piede senza volto che dorme nel letto, sarà destinato a rimanere quasi totalmente fuori campo, cristallizzato nella Storia. A entrare nei bordi rigorosamente in 4/3 del visibile sarà solo qualche scatto d’epoca che ancora emerge dai libri a testimoniare il suo attaccamento ai pargoli, saranno solo le sue parole in insistita voce off tratte dall’autobiografia Ma vie ripetutamente lette da tutte e tre le donne su cui sono incentrati gli atti, saranno solo i suoi racconti dello struggimento e della difficoltà stessa di muoversi, ma soprattutto saranno i suoi passi di liberazione del dolore, prima studiati da una danzatrice professionista contemporanea che sta preparando, fisicamente ma soprattutto psicologicamente, la performance, poi spiegati e fatti introiettare dall’insegnante alla giovane e tenera allieva affetta dalla sindrome di Down, e infine faticosamente ripetuti a casa, come mossa da una forza interiore ed emotiva irresistibile e più forte della senilità e della caducità del corpo, dall’anziana spettatrice di una rappresentazione in cui al controcampo sui volti di chi guarda concentrato, rapito e commosso non corrisponderà mai il campo del palcoscenico.
«Adieu, mes amis. Je vais à la gloire!», furono secondo leggenda le ultime parole di Isadora Duncan, pronunciate poco prima di morire strangolata da una sciarpa tragicamente incastrata fra le ruote della decappottabile su cui viaggiava nella Nizza del 1927. Ed è proprio la sua gloria sempiterna a essere testimoniata dalle tre dilatate e rigorosissime parti, tutte ambientate fra ottobre e novembre 2018, di Les enfants d’Isadora. Una gloria nata e cresciuta attraverso lo strazio, attraverso la mancanza, attraverso la necessità di illudersi che in quelle carezze all’aria ci fossero ancora quei piccoli corpi strappati alla vita. Tanto che, di fronte alla densità e alla potenza del movimento, di fronte alla necessità di immaginare e realmente “sentire” fra le note di Skrjabin i corpi abbandonati e le anime che salgono verso la luce, tutto il resto diviene inessenziale. Non contano i dialoghi, totalmente assenti nel primo e nel terzo atto e concentrati quasi solo sul senso di ogni gesto della coreografia nel secondo, non conta il marito della ballerina, non conta il contenuto della telefonata (in italiano) dell’insegnante di danza, e non contano nemmeno i suoi figli – due, proprio come quelli di Isadora – che studiano e vivono all’estero, sempre pronti a fare capolino in fotografia dal desktop del PC ma solo di rado fisicamente presenti nel calore di un abbraccio. Contano semmai la ripetizione e la variazione, conta semmai l’irradiarsi del gesto artistico nello spazio e nel tempo passando di anima in anima, conta semmai la sempre vibrante universalizzazione di una storia destinata a ritornare ogni volta esperienza personale. Conta semmai lo sguardo di chi prepara la danza, sempre più vicino a quello dolente di Isadora, sui bambini che giocano in strada, in quella progressiva identificazione necessaria per capire fino in fondo e poter riprodurre La mere. Annacquando il dolore in un passo, studiando sulle notazioni e di fronte allo specchio ogni movimento come segno, fino a librarsi nella stessa armonica grazia trasmettendo a chi guarda quello stesso struggimento e quella stessa difficile e catartica liberazione di assoluta e pura bellezza. Da ballerina professionista che prepara la coreografia, da ragazza che combatte la sua disabilità, da maestra che deve trasmettere ciò che andrà poi trasmesso dalla danza interpretando il senso di ogni singolo movimento, o anche da semplice spettatrice che sente che qualcosa le ha scavato dentro, e non può che ripetere ancora una volta, dopo essersi faticosamente trascinata a casa appesa al suo bastone e magari fermata a mangiare in una squallida bettola lungo la strada, quei passi, quei movimenti e quelle disperate carezze. Immaginando ancora una volta il volume di quei corpi che non ci sono mai più stati, percependone la fisicità, il calore, la profonda e ancestrale presenza nella mancanza. Conta sciogliersi di fronte al pubblico, dimenticare ogni fatica, dimenticare ogni disabilità e volare per lo spazio scenico, con quei movimenti che ormai sono parte fondamentale della vita e della sfera emotiva di chi li esegue e di chi li osserva, un vero e proprio innestarsi in una storia e riviverla in ogni movimento. Consapevoli che, quando ci si trova di fronte alle poltrone, sul palco, il pubblico bisogna dimenticarselo. Anche e soprattutto in quel momento bisogna pensare costantemente alla triste vicenda di Isadora Duncan e farla propria, l’unico modo per raccontarla ancora una volta gesto dopo gesto. Lentamente, lasciando tempo e aria a ogni istante. A ogni passo corrisponde un capitolo di dolore e catarsi, a ogni prova corrisponde un tassello del processo di identificazione: bisogna entrarci, sentirlo, se necessario soffrirlo, e solo così potrà di nuovo esplodere in tutta la sua potenza e ridiventare, come un passaggio di testimone fra persone ed esperienze differenti, leggiadria, emozione e amore. O un film sorprendente, immersivo, rarefatto e profondissimo nei suoi quadri fissi e nei suoi dettagli, nei suoi leggeri movimenti a seguire i gesti e nei suoi toni desaturati, nella sua grana e nelle sue vite appena accennate. Un film profondamente e consapevolmente elegante. Proprio come la danza.
Marco Romagna