LE DUE INGLESI (1971), di François Truffaut

Henri-Pierre Roché scrive Le due inglesi e il continente tre anni dopo Jules e Jim, nel 1956. Non è il romanzo per cui sarà ricordato – lo sarà per quest’ultimo – anche perché Deux anglaises et le Continent è un’opera che riprende di fatto schemi e contenuti di Jules e Jim: intanto per la natura di romanzo epistolare; poi per il fatto di narrare un ménage-à-trois di ambientazione storica ma preconizzatore di tempi libertini. Roché, del resto, era stato, a inizio del Novecento (era un classe 1879), un frequentatore dei caffè di Montparnasse, dove era solito intrattenersi con Georges Braque, Picasso, Gertrude Stein. Conoscenze e ambienti, quelli della Rive Gauche della Belle Époque, che lo aiutarono a costruirsi una carriera da collezionista d’arte, parallela a quella di scrittore, ma soprattutto a forgiare quello spirito dissoluto che profonderà nelle sue opere (ancorché a distanza di molti decenni). È noto, del resto, come il romanzo Jules e Jim sia di ampia ispirazione autobiografica, traendo spunto dal rapporto tra Roché e l’amico tedesco Franz Hessel, con cui condivise un’amicizia tanto stretta da portarli a condividere una donna, la moglie dello stesso Hessel. E Le due inglesi e il continente è sostanzialmente una variazione sul tema di Jules e Jim, pur essendo anch’esso di ispirazione autobiografica, dato che per scriverlo Roché si era basato sulle proprie vicende sentimentali giovanili e, in particolare, su una storia d’amore che lo scrittore aveva avuto con due sorelle. Il triangolo amoroso coinvolge dunque, in questo caso, un uomo e due donne. Una liaison dai toni più drammatici e decisamente meno spensierata rispetto a quella di Jules e Jim (che era un vero e proprio inno alla vita), ma i punti in comune restano molteplici: dal rapporto a tre in cui gli amanti condivisi (Jules e Jim e le due sorelle) si completano per carattere e inclinazioni; al fatto stesso che vi sia tra questi un solido legame, rispettivamente, di amicizia e di amore fraterno, che per certi versi viene anteposto a quello strettamente sentimentale con il partner dell’altro sesso.
È noto come Truffaut avesse scovato Jules e Jim su una bancarella di libri usati, attratto dalla musicalità del titolo, rimanendone affascinato e traendo da esso, nel 1962, il suo terzo lungometraggio. Roché, cui Truffaut aveva pensato per la sceneggiatura di Jules e Jim – idea che non si poté concretizzare a causa della scomparsa dello scrittore – tornerà nei pensieri del regista circa un decennio dopo (Le due inglesi è del 1971, anche se fu concepito almeno due anni prima), quando ormai la rivoluzione sessuale e dei costumi era definitivamente esplosa. In tal senso, il film non è sicuramente all’avanguardia (come lo era stato Jules e Jim) e rispetto al suo predecessore perde in originalità e dirompenza dei contenuti. Lo stretto rapporto che c’è tra l’opera di Truffaut e il libro di Roché emerge già dai titoli di testa, una carrellata di inquadrature simmetriche del romanzo, in una sobria edizione Gallimard. La copia che viene più volte raffigurata è quella di proprietà dello stesso regista, infarcita di appunti (già per Jules e Jim Truffaut aveva scritto la sceneggiatura praticamente come un insieme di note a margine della sua copia del romanzo). Ad un certo punto – siamo sempre nei titoli di testa – si può leggere chiaramente, su una di quelle pagine, «L’attitude de Claude est peu compréhensible. Il faudrait lire le Journal de H.P. Roché», dando atto degli approfondimenti che Truffaut fece consultando i diari dello scrittore (allora inediti) ove era esplicitata la genesi della storia. Il romanzo è adattato con una certa libertà (oltre a Truffaut, la sceneggiatura è opera di Jean Gruault), pur mantenendone la connotazione epistolare mediante l’espediente della voce narrante, già usata in Jules e Jim e invero peculiare dell’intero cinema di Truffaut. La solita voce narrante rapida e verbosa, quella del protagonista Claude, ma anche quella esterna che nel doppiaggio originale è dello stesso regista.

Siamo nella Parigi della fine del diciannovesimo secolo. Claude Roc, giovane benestante e di buona famiglia, conosce l’inglese Ann, figlia di un’amica della madre, in visita nella Ville Lumière per perfezionare le sue doti di scultrice. È l’inizio di un rapporto apparentemente platonico, che porta Claude a recarsi in Galles (le bellissime location sono in realtà francesi, dipartimento della Manica, Normandia), dove conosce la sorella di lei, Muriel. Anne crede che tra Claude e la sorella possa nascere un forte sentimento, cosa che avviene regolarmente, anche a causa del relativo isolamento in cui le due sorelle vivono con la madre, in un piccolo villaggio di case sparse sulla costa. La rossa Muriel, pudica e puritana, soffre di strani disturbi agli occhi, che Truffaut sfrutta magistralmente per una lezione sui generis di sensualità cinematografica: nella scena in cui si consuma la prima cena gallese, Claude è rapito dai gesti – involontariamente suadenti – con cui Muriel scosta la benda dagli occhi per poter mangiare, lanciando timide occhiate di sottecchi. La ragazza inizialmente prova a negarsi, ma infine cede alle avance del giovane. C’è però da superare il parere contrario della madre di Claude, preoccupata dalla salute della giovane. Quella della madre è una figura fortemente edulcorata nel film (nel libro è decisamente più cinica e sprezzante), ma che fa comunque emergere la sua caratterizzazione di donna influente, che pur senza mai essere manipolatrice della volontà del figlio riesce tuttavia a persuaderlo e – di fatto – a controllarlo.
Recatasi appositamente in Galles per dirimere la questione, la signora Roc accetta l’arbitrato di un anziano del paese, che propone un compromesso: i due giovani dovranno separarsi per un anno, senza mai vedersi né scriversi. Se la distanza non farà loro cambiare idea si potranno infine sposare. Claude torna dunque a Parigi e si dedica con passione al mestiere della critica che lo porterà ben presto a conoscere alcune disinibite artiste francesi. Giunto neanche a metà di quell’anno che inizialmente sembrava potesse passare in fretta, si trova così a scrivere a Muriel di dimenticarlo. Il periodo libertino di Claude a Parigi precede il ritorno nella Ville Lumière di Ann, ove la giovane apre un atelier di scultura. Claude e Ann si ritrovano e diventano amanti, svelando un sentimento che in realtà era rimasto latente (e sedato) fin dal loro primo incontro, quando Ann si era dapprima trattenuta, quindi defilata in favore della sorella. È il momento del film in cui ritornano le atmosfere di Jules e Jim, addirittura nella scelta delle location: i due amanti si recano infatti in uno chalet su un lago della Svizzera per dare sfogo al loro amore, ancora privo di etichette.
Lo spirito libero di Ann porterà la giovane ad una nuova relazione, questa volta con lo slavo Diurka, che si occupa di edizioni d’arte. Claude riceve, di contro, una lunga missiva da Muriel, contenente le sue pruriginose confessioni in forma di un diario in cui la giovane racconta la sua caduta nel vizio dell’autoerotismo, ritenuta peccaminosa e addirittura ripugnante per una giovane puritana come lei (anche in questo caso, un aspetto molto più marcato da Roché che da Truffaut). Qui comincia la parte che più si discosta da Jules e Jim, dove l’intreccio di rapporti umani e sentimentali era costantemente vissuto con una disinvolta leggerezza. Muriel non è invece per nulla accomodante quando la sorella le racconterà della storia d’amore con Claude.
L’intreccio si dipana ancora a lungo, in un viavai che conduce infine alla definitiva separazione dei protagonisti, chi per scelta (Claude e Muriel, che dopo essere tornati fugacemente insieme decidono di prendere strade diverse), chi giocoforza (Diurka e Ann, a causa della prematura scomparsa di lei). E l’incedere che Truffaut imprime al racconto pare rivelativo della volontà di costruire una vera e propria concatenazione di finali, che si rivelano tuttavia volta per volta fittizi, fino al reale epilogo della storia, ambientato quindici anni dopo, dopo la fine della prima guerra mondiale. Un finale malinconico, con l’amara riflessione del protagonista sul tempo che passa: Claude si specchia nel vetro di un’auto riscoprendosi invecchiato. Non a caso mentre si trova appena fuori dal Musée Rodin, con le sue sculture bronzee tra cui spicca il monumento a Balzac. E, sempre non a caso, dopo aver incrociato una scolaresca di inglesi tra cui immagina possa esservi la figlia di Muriel.

La caratteristica spezzettatura della storia e la sua connotazione come sommatoria di potenziali finali è accentuata dall’utilizzo di dissolvenze a iride, tipiche del cinema muto, ma aventi qui un significato sostanziale più che stilistico-formale. La (ricercata) frammentazione della trama emerge anche da una scelta di editing che volutamente si astiene dall’intervenire su tutta una serie di brevissime sequenze su cui normalmente sarebbe caduta la scure del montaggio.
La parte del protagonista fu affidata da Truffaut a Jean-Pierre Léaud, suo attore feticcio, per la prima volta in un ruolo diverso da quello di Antoine Doinel, alter ego del regista. Epperò tale era ormai l’immedesimazione tra interprete e personaggio che è difficile non vedere nel Claude Roc di Le due inglesi un Doinel di inizio Novecento, dotato di molti dei caratteri del protagonista de I quattrocento colpi, Antoine e Colette, Baci rubati e Non drammatizziamo… è solo questione di corna – mentre L’amore fugge arriverà solo successivamente. Ed è infatti uno di quegli aspetti che porta il film a discostarsi dal libro di Roché, probabilmente proprio per il desiderio di Truffaut di dare una continuità psicologica ai suoi personaggi (non a caso qualche anno dopo il regista racconterà due storie d’amore a loro modo analoghe a quella di Claude in Adele H. – Una storia d’amore e L’uomo che amava le donne). La scelta di Léaud, inoltre, può non essere considerata casuale se si ipotizza che Truffaut abbia voluto rendere propria la storia raccontata da Roché: se, infatti, il regista aveva dichiarato di aver adattato il romanzo immaginando che i tre protagonisti fossero il giovane Proust e le sorelle Brontë, in realtà Truffaut non poteva non aver tenuto in considerazione il fatto che – nel vasto carnet di amanti che caratterizzò la sua vita sentimentale – qualche anno prima aveva avuto una relazione con le sorelle Catherine Deneuve e Françoise Dorléac, quest’ultima scomparsa giovanissima dopo aver recitato in un suo film.
Ma la centralità del personaggio di Claude non deve distrarre l’attenzione dalla natura fortemente femminile che conserva l’opera: il ruolo che le donne – ed esse soltanto – hanno nell’educazione (sentimentale e non) del protagonista è fondamentale e non è soltanto da attribuire alle due sorelle (interpretate dalle allora pressoché sconosciute Kika Markham e Stacey Tendeter), bensì anche – e forse soprattutto – alla madre di Claude, donna forte con il ruolo di influente capofamiglia (lo stesso che ha, del resto, la madre delle due sorelle, Mrs. Brown). Con l’eccezione di Claude, le figure maschili sono totalmente secondarie e – in particolare – si nota la pressoché totale assenza di riferimenti ai padri (cui si accenna soltanto brevemente, invece, nel romanzo).
Le due inglesi è per il resto un’opera ricercatissima, per costumi e scenografia, per l’estrema cura dell’immagine profusa dal direttore della fotografia Néstor Almendros, che aveva già lavorato con Truffaut ne Il ragazzo selvaggio (in bianco e nero) e in Domicile conjugal (a colori) e che vincerà un Oscar otto anni dopo per la straordinaria fotografia di Days of Heaven di Terrence Malick. Qui lo spagnolo Almendros utilizza una palette opaca e minimalista, che richiama la pittura tardo-ottocentesca, con poche costanti cromatiche che rimangono sempre in disparte, lanciandosi in qualche azzardo soltanto nelle (poche) sequenze in cui Truffaut opta per il primo piano delle ragazze, che si fanno narratrici bucando la quarta parete, in uno dei vari espedienti con cui viene messa in scena la natura epistolare del soggetto.
Le due inglesi è stata un’opera travagliata, rivalutata col tempo ma non accolta benissimo alla sua uscita né dal pubblico né dalla critica, con Truffaut costretto a correre ai ripari tagliando quasi mezz’ora di film, per portarlo ben al di sotto delle due ore di durata, che in origine superava ampiamente (un’azione impulsiva, simile a quella che farà Cimino con I cancelli del cielo). Soltanto nel 1984, pochi mesi prima di morire e quando già conosceva il suo destino, Truffaut rimise mano al film rimontando la versione originale da 132 minuti, che uscì nuovamente nelle sale un anno dopo. Ed è questo che rende il director’s cut di Les deux anglaises et le continent, di fatto, l’ultima opera di Truffaut, per certi versi una sorta di testamento spirituale, quanto meno nella volontà (postuma) di non piegarsi al volere dei distributori o ai giudizi talvolta affrettati della critica.

Vincenzo Chieppa