LES CONFINS DU MONDE (2018), di Guillaume Nicloux
Cara, vecchia Quinzaine,
sei speciale, lo sai, e non cambierai mai. Resterai sempre la sezione collaterale di mamma-Cannes dove si parla di cinema come nel salotto di casa (è successo ieri, quando Bertrand Bonello, Jacques Audiard, Rebecca Zlotowski e Cédric Klapisch si sono accomodati in poltrona sul palco e hanno dialogato con Martin Scorsese, insignito della Carrosse d’Or alla carriera), dove si fanno delle splendide scoperte in un paniere di ottimi film tenuti al riparo dal bombardamento mediatico che assale la Compétition principale, dove ogni anno c’è Gerard Depardieu che sfrutta i pochi minuti a sua disposizione per impartire lezioni di vita e di recitazione (si ricorderà il finale del film di Claire Denis dell’anno scorso, Un beau soleil interieur), ma a questo arriveremo fra poco.
È solo il secondo giorno, ma abbiamo già visto un gran bel film: Le confins du monde di Guillaume Nicloux. La sbrigativa sinossi ci dice che siamo in Indocina nel 1945, e ci parla di un giovane soldato francese, Robert Tassen, unico superstite di un eccidio nel quale hanno perso la vita suo fratello con la moglie, trucidata davanti ai suoi occhi. Tassen, preso da una furiosa sete di vendetta, vuole mettersi sulle tracce di Vo Binh, uno dei luogotenenti di Ho Chi Minh e responsabile del massacro, ma la sua ricerca attraverso le giungle e i villaggi del futuro Vietnam viene rallentata dall’incontro con Maï, prostituta di cui si innamora, non ricambiato.
Per avere un’idea più chiara del dove e del quando, occorre dire che il film comincia con una data precisa: 9 marzo 1945. La Seconda Guerra Mondiale è ancora in corso, ma in Indocina si sta muovendo qualcosa che sopravvivrà alla fine del conflitto e che sfocerà in una guerra nuova, una guerra combattuta nella giungla, e totalmente asimmetrica. I giapponesi avevano inizialmente disarmato le truppe di De Gaulle, che però si erano riorganizzate per ottenere nuovamente il controllo della loro colonia. La rappresaglia delle truppe indipendentiste vietnamite non si fece attendere, e da una delle feroci imboscate prende le mosse la storia del soldato Tassen e della sua vendetta.
Abbiamo imparato a conoscere e ad amare Nicloux grazie ai suoi primi lavori, che attingono all’universo cossiddetto “sperimentale”, ma soprattutto con opere come La religieuse, in concorso a Berlino nel 2013, e il folle mockumentary Il rapimento di Michel Houellebecq.
Come se la giungla sfumasse, diluisse i confini della guerra e della storia per dare origine a conflitti di altro genere, interiori, esistenziali e senza tempo, anche a Nicloux la vegetazione e il clima del Vietnam suggeriscono sviluppi alla Apocalypse Now: questo Vo Binh, responsabile della strage, non ha un corpo, non ha un volto, alcuni testimoni pare lo abbiano visto, forse è morto, o forse non si può uccidere. Sulla strada Tassen incontra (e trucida) alcuni suoi accoliti, ma il nemico rimane incorporeo, astratto, tanto che un abitante del posto gli dice una frase che suona tipo «Vo Binh è in mezzo a noi anche se non lo vedi». Il riferimento è chiaro, per quanto Nicloux lo neghi. Ma è bravo, il regista francese, a non materializzare mai questa presenza, anzi, fa di meglio: abbandona Tassen, destinato a un avvenire che, vitale o mortale che sia, ormai conta poco, e ci riporta da Depardieu, lo scrittore, la figura saggia del film, presso il quale ha trovato riparo anche la prostituta Maï.
Ci sono delle belle parole di Nicloux che chiariscono questo concetto: “La giungla del Nord del Vietnam crea un’atmosfera particolare, la vegetazione provoca un senso di soffocamento che impone agli esseri umani un istinto di sopravvivenza anche se in realtà non sono mai stati così vicini alla morte, una morte che dipende da un nemico che non compare mai, l’invisibilità dei Viet Minh accresce questa paranoia. E questo fa porre una domanda: siamo di fronte a un morto che sembra ancora vivo oppure a una persona ancora viva che però è prossima alla morte?”.
È importante il ruolo che Nicloux, in questo suo personale Cuore di tenebra, affida a Depardieu: Saintonge è una figura a metà fra il narratore interno e la voce della coscienza di Tassen; con la sua pinguetudine piacevolmente riempita di ottimo cognac, Saintonge invece di risolvere i dubbi del soldato li alimenta, gli impone di prendere coscienza di sé e delle sue azioni. Non ultima, la scelta fra l’amore e la ricerca del male, fra la promessa di un futuro e la promessa di una vendetta. In nessuno dei due casi l’esito è certo.
La regia calibrata e il senso della composizione dell’immagine e della scomposizione (découpage) della scena farebbero pensare a un autore estremamente rigoroso, ma il suo attore protagonista, Gaspard Ulliel (agli onori della cronaca grazie alla partecipazione a Juste la fin du monde di Xavier Dolan) ci smentisce, rivelando che Nicloux non è calcolatore quanto il suo film faccia intendere ma che, anzi, si fa molto ispirare dal set, dall’estemporaneo, dal contesto. E va benissimo così.
Elio Di Pace