LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ 3D (2016), di Wim Wenders
Bisognerebbe partir proprio dalla riproducibilità tecnica. Alla proiezione stampa in Sala Grande al Lido di Les beaux jours d’Aranjuez, nuovo lavoro di Wim Wenders in concorso a Venezia 2016, una decina di minuti dopo la sequenza d’apertura, per un errore nella scelta dei sottotitoli il dcp si blocca, si accendono le luci e poco dopo il film ricomincia daccapo. La stessa riproducibilità che compare nel finale, sullo zoomarsi infinito di un pixel fino al nero. Ci si allontana da Parigi per arrivare alla finestra di uno scrittore, pensa in tedesco e scrive in francese, il jukebox in salotto che fa roteare i 45giri, it’s such a perfect day, I’m glad I spent it with you, oh, such a perfect day, you just keep me hanngin’ on. Appena la carta scende nella macchina, il quadro si apre verso una terrazza dove, nel sole di un giorno di mezza estate, un uomo e una donna si preparano a conversare. Iniziano a sciogliersi davanti a quel giardino dove solo in lontananza si percepisce la ville lumiere, dall’infanzia alla giovinezza, dalla prima volta all’ultima memoria, dall’essere uomo all’essere donna. Lo scrittore pensa quel dialogo (e/o viceversa), fino a quando improvvisamente si alza dirigendosi verso il bosco. E proprio lì il giocattolo si rompe, la realtà uccide la poesia e quando torna può solo costatarne le macerie, la rappresentazione prende il sopravvento si chi la immagina, in un’immagine (e un amore) che non c’è più.
Wim Wenders si affida così a una sofisticata piecè di Peter Handke per il suo ennesimo esperimento in 3D, mettendo in scena il mettersi in scena di questo dramma intimo ed inquietante legato sostanzialmente alla natura della differenza tra sessi, e a tratti funziona. Il dialogo tra i due protagonisti assume, nei momenti più riusciti, una rappresentazione della materia in desiderio sorretta dall’onestà reciproca di dialoghi che continuamente si arrotolano in loro stessi senza lasciare la presenza di una profondità. Non ci vuole molto a perdersi in questo campo e controcampo di esperienze formative, a tratti intervallate dalla stasi creativa di colui che le loro storie vorrebbe raccontare, come dallo splendido cameo di un Nick Cave al piano (ed in primo piano) che lascia la storia sfocarsi sullo sfondo. Quando al dialogo dei due compari si sostituisce l’atto, il contemporaneo diventa una selva cacofonica di non senso, di incomunicabilità frastagliata e dolorosa in cui nessuna parola può essere ascoltata. Questo risveglio dall’eden del sentimento si porta via la bellezza dei giorni di Aranjuez, e con lei la possibilità che l’amare non sia sempre l’attimo che preceda inevitabilmente una sconfitta. “Bisogna diventare più profondi”, si dicono i personaggi, mentre la profondità meccanica del 3D non fa altro che fare paradossalmente risaltare ancora di più la loro superficialità, e forse quella di tutto il mondo.
In un primo momento emergono prepotentemente alcune lacune, legate alle possibilità stesse che Wenders nega alla sua opera. Corre subito il pensiero a film teatrali sublimi (gli ultimi Resnais e De Oliveira su tutti), come all’uso stesso di una parola rivelatrice (Straub) a cui questo film senza dubbio deve rendere i conti, per una cura non ottimale della macchina attoriale ma ancora di più per una totale mancanza di flagranza di corpi e recitazione che l’autore non ha saputo dare ai suoi protagonisti. Allo stesso modo, pare paradossalmente simbolico e riuscito l’utilizzo di un tridimensionale lieve e smussato, che lavora sugli spazi e sulla profondità, in contraddizione netta e funzionale con il rapporto tra l’uomo e la donna sulla scena. Abbozzando in maniera estremamente semplicistica quello che per Godard era stata la de/ristrutturazione di un linguaggio, Wenders pare anch’esso interrogarsi sulla parola, ma soprattutto sulle possibilità di un cinema classico al cospetto del nuovo strumento, come del resto mostra la forzata chiusura sull’immagine di Cezanne composta dalla più piccola unità digitale visibile. Questo film, prodotto ancora una volta con enorme coraggio da Paulo Branco, può risultare così di difficile lettura e afferma i limiti e le peculiarità di un autore spesso discusso per la sua didascalia e autoreferenzialità, ma sempre legato profondamente al proprio desiderio puro di cinema che, quando risulta disinteressato, riesce ancora – almeno a tratti – ad emozionare e sorprendere.
Erik Negro