L’EQUILIBRIO (2017), di Vincenzo Marra
Il coraggio di una scelta morale. Che non è neanche una scelta, ma l’unica strada possibile e concepibile per chi ha un’inossidabile struttura di principi e un’univoca missione di vita. Dopo essere passato alle Giornate degli Autori dell’ultimo Festival di Venezia, L’equilibrio di Vincenzo Marra arriva ora in sala. Verrebbe da dire che, prima di ogni altra cosa, il suo protagonista don Giuseppe incarna il volto paradossalmente alieno di una vera e perfetta umanità, profilo idealizzato di un sacerdote che tuttavia acquisisce piena credibilità nel suo scontrarsi con il quotidiano. E’ il contesto in cui si trova ad agire che lo idealizza, poiché egli non fa altro che il proprio dovere, laddove tale dovere costituisce però impensabile eccezione. Uomo umilmente tutto d’un pezzo, che compie il sacrilegio (!) di non scendere a compromessi laddove il compromesso ha messo radici in pianta stabile, profilandosi come uno strumento del tutto egosintonico a un panorama socio-culturale che apparentemente non permette altro.
Il film di Marra parla infatti di territori campani dove lo Stato non arriva, dove neanche si azzarda a far sentire il proprio peso. L’equilibrio sta proprio lì, frutto di una convivenza tra legalità e illegalità perfettamente integrata e a suo modo pure funzionante. Chiesa e forze dell’ordine creano spazi di sicurezza del tutto negoziati con la criminalità; ognuno concede spazi all’altro, ma il coltello resta sempre nelle mani dell’antistato, che si fa forte della propria violenza e tracotanza. Si seguono regole precise e reciproche, e nessuno si fa male. Tanto che gli stessi rappresentanti dell’impegno civile contro la criminalità organizzata trovano un proprio punto d’equilibrio, pure con qualche paradossale intenzione “nobile”. Il precedente parroco don Antonio inveisce contro i traffici dei rifiuti, ma si tiene ben lontano dall’entrare in conflitto con lo spaccio di droga e altre forme di criminalità quotidiana, perché ciò non solo metterebbe a rischio la vita del sacerdote, ma potrebbe avere ricadute anche su cittadini, fedeli o meno; in sostanza, per praticare un bene parziale si accettano zone di male, sia pure nelle sue peggiori manifestazioni. Per mantenere un generale status quo in cui i soprusi e l’illegalità sono integrati ma a loro modo “calmierati”, si può chiudere un occhio su altre turpitudini, addirittura su abusi sessuali compiuti a danni di minori. Il risultato è un contesto sociale in cui ognuno è contrappeso dell’altro, in cui la morale non è doppia, ma tripla, quadrupla, a seconda delle situazioni contingenti e delle persone coinvolte.
Nuovo venuto in una parrocchia di tale territorio, don Giuseppe cade dalle nuvole. E, forse, cade anche un po’ troppo dalle nuvole, dal momento che il suo percorso appare qua e là eccessivamente colmo di stupore nei confronti di una realtà ampiamente documentata da letteratura e giornalismo. Certo, L’equilibrio regge la propria credibilità sull’impensabile acquiescenza di un prete socialmente impegnato nei confronti della criminalità, ciò che giustifica in buona parte il disgustato stupore del protagonista, ma lo sguardo di don Giuseppe resta comunque troppo ingenuo, troppo debitore del retorico occhio vergine su un orizzonte moralmente inaccettabile. Al contempo però Marra tenta la strada del rigore di messinscena, magari condotta secondo chiavi non particolarmente originali ma sorrette da una costante tensione narrativa. Dopo un incipit che ritarda eccessivamente l’innesco narrativo, Marra indovina l’irruzione dell’assurdo con la comparsa della capra sul campetto da calcio. E’ un’irruzione che si colloca su un interessante crinale espressivo, un paradosso surreale del tutto credibile e calato in un contesto puramente realistico. Perché le terre abbandonate dallo Stato accolgono pure questo, il capriccio inutile e insensato, dovuto a una pura e semplice volontà di dimostrazione di potere da parte di chi si sente padrone di quel territorio. L’equilibrio si muove (con qualche difficoltà d’equilibrio, diremmo) proprio su questa linea di confine. Da un lato la messinscena si affida lungamente a strumenti collaudati in ambito di recente realismo italiano (macchina a mano, take di discreta lunghezza, saltuaria adesione al dialetto stretto supportato da sottotitoli), dall’altro dà vita a personaggi che in alcuni casi smarginano dal profilo a tutto tondo verso un’assolutizzazione mitizzante. Don Giuseppe da un lato, granitico nel suo rigore morale, e il piccolo boss di quartiere dall’altro, che, eccessivo pure nei tratti somatici, quasi lombrosiani, dichiara candidamente che la capra del contendere è un puro sfizio. L’intenzione di Marra resta però alta e anche molto semplice: riaffermare con polso saldo e sicuro la possibilità di un gesto, la percorribilità di una via d’uscita, che agli abitanti di quelle terre, spesso abbandonati a uno schiacciante fatalismo, sembra invece del tutto impossibile (“Chist’ è terra bruciata”, dice Saverio, incapace di concepire un futuro diverso per sé e per tutto il suo orizzonte sociale). Si può ancora essere eroi compiendo semplicemente il proprio dovere, tanto da rischiare di ritrovarsi martiri solo per aver osato affermare ingenuamente e tautologicamente una delle verità più banali eppure proibite, e cioè che il male è il male. Invece di operare dall’alto, L’equilibrio suggerisce un percorso umano in cui l’intervento viene dal basso e da obiettivi circoscritti. Per riaffermare la possibilità dell’umano intanto può essere sufficiente salvare qualcuno, due o tre persone (Saverio, Assunta e la sua bambina), un timido ma a suo modo eroico atto dimostrativo per indicare che sono ancora possibili altre scelte.
Certo, gli attori tradiscono spesso un’impostazione teatrale, la loro direzione non è omogenea e qua e là si avverte una certa ingenuità narrativa. Alla fine don Giuseppe, sia pure minacciato e malmenato, se la cava un po’ troppo facilmente, così come il coraggio (puro coraggio, questo va riconosciuto) nell’attaccare le solide istituzioni ecclesiastiche come piegate al compromesso nei confronti della criminalità è apprezzabilissimo ma sovente espresso tramite vie semplicistiche (vedasi il trattamento sommario riservato al vescovo di Paolo Sassanelli). Tuttavia il taglio programmatico e vagamente didascalico del racconto rivela il suo rovescio significativo nell’ineluttabilità di un sistema sociale bravissimo nel creare i suoi corpi e anticorpi. Quell’equilibrio, rotto dall’arrivo dell’integerrimo don Giuseppe, personaggio “osceno”, scandalosamente sacro, si richiude su se stesso, allontana da sé l’elemento di disturbo, e pure la comunità si ritrova rasserenata tornando a riempire la chiesa. Cosicché i momenti qua e là ingenui e prevedibili si collocano altresì in un orizzonte dove d’altra parte tutto è così perché non può che essere così. Processi di omeostasi socio-culturale, intuiti e narrati in modo intelligente, che si rivelano inevitabilmente più forti dell’individuo. Ma l’individuo ha il dovere morale del tentativo, perché se il Male è stupido e onnipresente, il Bene è una cosa semplice.
Massimiliano Schiavoni