LEILA E I SUOI FRATELLI (2022), di Saeed Roustaee

Un’ultima sigaretta ancora accesa fra le dita, un figlio silenziosamente in lacrime che deve dissimulare il suo dolore, l’intensità quasi insostenibile del suo incrocio di sguardi con la sorella, i bambini che non devono accorgersi di nulla mentre la loro festa continua fra le grida di gioia e la neve finta che ricopre il pavimento del salotto. Un ballo in ralenti tutti insieme, senza riuscire a smettere di piangere. È probabilmente la singola sequenza che più di tutte resterà di questa Cannes75, il magnifico finale che, sostanzialmente muto dopo quasi tre ore di dialoghi fittissimi, chiude Leila’s Brothers. Il momento, straziato e poeticissimo, in cui l’umanità rompe definitivamente ogni tipo di possibile argine socioeconomico, supera ogni colpa generazionale e ogni egoismo passato, e torna semplicemente quella di un figlio che all’improvviso si ritrova a piangere un genitore, stando ben attento a non rovinare il momento ai più piccoli. Esattamente quella premura che il padre, ora esanime sulla poltrona, non aveva mai avuto nei confronti dei suoi cinque figli né di chiunque altro al mondo. Ma era pur sempre un padre, il settantenne tradizionalista Heshmat splendidamente incarnato da Saeed Poursamimi. Forse in assoluto il personaggio più struggente e tormentato del film, capofamiglia-padrone analfabeta, maschilista, altezzoso, interessato solo al riconoscimento del proprio status, eppure così duro e inflessibile proprio perché così fragile, inadeguato, sofferente: di certo un despota nel suo egoismo, ma in un certo senso la prima vittima della società persiana e dei suoi ruoli. Un uomo imprigionato nel passato di una collettività che non esiste più, illuso dal proprio sogno di essere eletto patriarca fino a perdere completamente di vista la realtà di non poterselo permettere, di non essere sufficientemente ricco per poter garantire i continui regali al clan di cugini che il suo ruolo gli avrebbe imposto, fino a non accorgersi nemmeno di essere apertamente ricattato con la promessa del riconoscimento. Un uomo apertamente nel torto, eppure primo bersaglio delle sue stesse ambizioni, della sua stessa mentalità, della sua impossibilità di guardare oltre e di capire che nemmeno abbandonando a se stesso il proprio nucleo familiare avrebbe realmente potuto aspirare alla legittimazione del ruolo di prestigio e di potere, nemmeno nascondendo in una poltrona monete d’oro e conti correnti mentre la crisi economica e le sanzioni imposte all’Iran da Trump divorano i lavori e i sogni dei suoi figli, nemmeno rifiutando loro, dopo non avergli pagato studi e possibilità per mettere da parte il gruzzolo con cui comprarsi l’elezione a padrino, un prestito per aprire l’attività commerciale con cui tentare di togliersi dai guai. E nemmeno costringendo il figlio più giovane a emigrare per cercare fortuna altrove, mentre gli altri quattro continuano ad annaspare nel senso di colpa per aver derubato il loro genitore delle monete e della corona, fra l’empatia e il ritorno della pietà nei suoi confronti, fra il contratto per il negozio annullato e gli obblighi di firma per rinunciare anche agli stipendi arretrati, fino all’inflazione della crisi economica che impedisce loro di ricomprare al padre le monete d’oro e la rispettabilità dopo averlo di fatto costretto, con quel baule vuoto, alla pubblica umiliazione con l’istantanea caduta dal trono al quale era appena riuscito ad ascendere.

«Più lavori duro e più sarai povero», dice sin da subito la saggia Leila al fratello Alireza, licenziato da un momento all’altro per la chiusura della sua fabbrica proprio nel momento in cui anche gli altri fratelli Parviz, Farhad e Manouchehr per motivi diversi hanno appena perso il lavoro, e si ritrovano all’improvviso disoccupati e sommersi dai debiti. Come se già prefigurasse l’inevitabilità della sconfitta finale, la condanna alla povertà di una famiglia destinata a perdere (quasi) tutto: i soldi, il potenziale investimento, il potere, le monete d’oro, le auto, gli averi, il negozio, l’unità familiare, i sogni. Ma mai e poi mai l’umanità, l’intensità emotiva, l’affetto. La dignità. Forse è proprio per questo che è lei, la protagonista, chi più di tutti combatte e non smette mai di credere di potercela fare, nell’epopea familiare con cui Saeed Roustaee, al ritorno alla regia dopo il traffico di droga e le esecuzioni di Just 6.5, affianca al suo attore feticcio Navid Mohammadzadeh già protagonista di tutti e tre i suoi lungometraggi i volti farhadiani di Taraneh Alidoosti (About Elly, ma anche Il cliente) e Payman Maadi (Una separazione, già al lavoro in passato anche con Roustaee nell’esordio Life and a day), per scavare all’interno dell’Iran contemporaneo e nei conflitti generazionali fra tradizione e modernità, fra oriente e occidente, fra la mancanza di lavoro e gli effetti delle sanzioni economiche sulle classi sociali più basse. Il risultato è probabilmente la migliore sorpresa di tutta la selezione cannense, un dramma dialettico che parte da una frattura interna, familiare, per poi progressivamente universalizzarsi nel suo caos controllato, nel suo lasciare dolcemente incastrare poco a poco tutti i pezzi fra i tentativi di risolvere la situazione e i continui fallimenti, nel suo graduale disvelarsi nella caratterizzazione e nei differenti punti di vista di personaggi mai del tutto bianchi o del tutto neri ma sempre straordinariamente complessi, e nelle sempre crescenti difficoltà che sono costretti ad affrontare. Basterebbe forse il montaggio alternato iniziale, sincopato fra il padre che sogna l’elezione alla riunione dei cugini, Leila che più pragmaticamente pensa al futuro dei giovani della famiglia senza che le interessi la soddisfazione personale di un genitore ormai vicino alla morte, e ancora la polizia che interviene a sedare gli scontri di piazza di fronte alla fabbrica chiusa di Alireza, come a dire sin da subito che nella contingenza non c’è più spazio per l’illusione, ma solo un ulteriore livello di ingiustizia, l’ennesima prevaricazione del sistema sul singolo. La perfetta introduzione per un gruppo di famiglia all’interno di una crisi economica, in un mosaico umano di conti da pagare, tentativi di truffe, monete d’oro, aiuti mancati e sacrosanto diritto a guadagnarsi onestamente da vivere con il proprio lavoro, con cui il regista iraniano posa ancora una volta il suo sguardo sui paradossi del quotidiano e su una dolorosissima polifonia di ultimi trovando un film amaro e ambiziosissimo, al contempo politico e poetico, che si stratifica sempre più nelle sue sfaccettature e nei suoi cambi di tono, nei suoi litigi e nelle sue rappacificazioni, nelle sue consapevoli contraddizioni e nei suoi contorni intelligentemente sfumati. Una storia di figli maschi da chiamare come il vecchio patriarca appena trapassato (o forse no, scatenando l’ira dell’anziano candidato al suo ruolo che avrebbe voluto a tutti i costi la captatio benevolentiae nei confronti del clan familiare, e che si accorge di essere stato ingannato confrontando i caratteri che non sa leggere sui documenti), una storia di «affari per uomini» e di montacarichi con cui salire in casa senza passare dal portone, una storia di matrimoni combinati e di rifiuti dei pretendenti maschi senza che le donne abbiano mai avuto la minima voce in capitolo. Una storia di nomine pubbliche e di piogge di banconote pagate da chi non ha più diritto al lavoro né alla pensione, ma solo una montagna di debiti impossibili da affrontare e un padre che potrebbe aiutare ma si rifiuta di farlo per seguire la propria vanagloria da impossibile padrino. Una storia di conflitti insanabili – «Mi avete tolto la corona per comprare dei cessi» – e di verità tuonate in faccia, anche a costo di prendersi le maledizioni di una madre che sa benissimo come la figlia abbia perfettamente ragione. Ma anche una storia di passi indietro che si riveleranno errori ancora più gravi del passo in avanti, di visioni incompatibili del mondo, di piani di realtà che convergono sempre di più fino a scontrarsi lasciando solo macerie, infarti, sconfitte, sguardi attoniti di fronte al crollo del Riyal, e poi il silenzio dilaniato di chi di fronte alla tragedia non ha più nulla da dire, ma può solo proteggere in lacrime l’innocenza e l’allegria di chi invece, almeno per ora, può ancora divertirsi senza accorgersi di nulla.

Marco Romagna

Ci è gradito comunicare che il film LEILA E I SUOI FRATELLI di Saeed Roustayi, distribuito da I Wonder Pictures, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente
Motivazione:
Un padre padrone malato e tirannico. Quattro fratelli diversamente inetti. Una sorella che è l’unica a vederci chiaro e tenta come può di salvare tutti dalla miseria. Fluviale, feroce, tragicomico, irriverente, corrosivo spaccato del vecchio Iran patriarcale che divora i propri figli e del nuovo Iran che si ribella. Diretto da un regista nato nel 1989 e dominato non a caso dalla magnifica Taraneh Alidoosti, attrice già cara a Farhadi.
(uscita 06 aprile)