19 Febbraio 2025 -

LEIBNIZ – CHRONICLE OF A LOST PAINTING (2025)
di Edgar Reitz (co-regia Anatol Schuster)

«Quello che non so, lo posso dipingere». Una frase che segna il momento esatto in cui la pittrice olandese Aaltje van der Meer, unico personaggio puramente inventato di un film in cui tutto è finzione ma al contempo (quasi) tutto è assolutamente verità storicizzata e ri-coniugata in contesto immaginario, guadagna definitivamente l’attenzione e la stima del pensatore Gottfried Wilhelm von Leibniz esattamente all’opposto terrorizzato dall’idea di poter non sapere o non capire, aprendosi quello spiraglio dialettico da cui imparare a guardarlo, ad ascoltarlo e a conoscerlo fino a riuscire a tradurlo in qualche modo in un ritratto che non sia una mera rappresentazione grafica della figura dell’uomo, ma che ne riesca a trasporre su tela l’essenza, la mente, il pensiero, la luce umana da far emergere, «come Rembrandt e Caravaggio», dal buio più avvolgente. Un dipinto, commissionato nel 1704 per potere interrogare ogni giorno a distanza il suo amico e maestro (e a ben vedere personale Heimat) dalla regina di Prussia Sofia Carlotta di Hannover che realmente per tutta la vita fu fedele studentessa e corrispondente epistolare del filosofo, matematico, giurista, scienziato, storico, teologo, linguista e proto(neuro)informatico tedesco, che proprio come la sua autrice figlia illegittima di Vermeer esclusa dalla Corporazione dei pittori barocchi fiamminghi solo in quanto donna esiste (a differenza dei personaggi storici, dei loro rapporti e della marea di note, invenzioni, lettere e scritti lasciati dal protagonista) solo nell’immaginazione del novantaduenne e sempre meravigliosamente lucido Edgar Reitz, ma che il titolo e la sinossi ufficiale del bellissimo Leibniz – Chronicle of a Lost Painting (in originale Leibniz – Chronik eines verschollenen Bildes) preferiscono immaginare come effettivamente realizzato e poi perduto, alla stregua di un fondamentale MacGuffin attraverso il quale trovare la chiave narrativa con cui riuscire finalmente, dopo oltre dieci anni di riscritture e ridimensionamenti produttivi (e con il fondamentale aiuto tecnico del ben più giovane co-regista Anatol Schuster – del resto pure lo stesso Leibniz ha sempre avuto al proprio fianco almeno un assistente), a realizzare il progetto di lunga data dell’autore teutonico su un genio universale puro e multiforme, esperto in ogni campo dello scibile umano quando non fondamentale innovatore e anticipatore di almeno un paio di secoli delle scienze moderne, inventore della prima calcolatrice meccanica e sviluppatore del sistema binario, padre del calcolo radicale/infinitesimale e della non scomponibilità delle monadi metafisiche, ideatore del principio degli indiscernibili (e magari della loro negazione, come quando metterà in fuga il primo pittore di corte ragionando su due pennelli uguali che non sono però lo stesso pennello) e di quello di ragion sufficiente con cui tentare di distinguere fra la verità (o meglio, le possibili verità di fatto o di ragione) e la dimensione giocoforza fittizia (o magari no) di ogni tentativo di rappresentazione. Una figura intellettuale che, lungo lo scorrere dei ripetuti incontri e dialoghi “di studio” fra lo scienziato e l’artista incaricata di ritrarlo, permette al regista di tornare ancora una volta al tempo, allo spazio, allo sguardo, alla scienza, all’arte, alla Storia, alla famiglia, alla vita, alla morte, alla sensibilità, alla spiritualità, al sentimento in cuore e al (proprio) meta-cinema ossessioni di un’intera miracolosa carriera, in un film al tempo stesso profondamente cerebrale e irresistibilmente emotivo che, tanto più un anno dopo il sapore di commiato del sublime, terminale e testamentario (auto)documentario Filmstunde_23, praticamente nessuno si sarebbe aspettato, e che invece quasi a sorpresa dal fuori concorso di Berlinale Special illumina gli schermi della 75ma FilmFestSpiele come un ultimo (?) incommensurabile e stratificatissimo regalo alla storia del cinema da parte di uno dei suoi più luminosi giganti.

Non è un caso che il dipinto perduto sia destinato a rimanere rigorosamente celato allo spettatore e ad esclusivo appannaggio di nemmeno tutti i personaggi, mentre a finire per ritrarre (e appunto tradurre in linguaggio artistico) la figura di Leibniz nelle infinite ramificazioni della sua mente brillante e inesauribile è proprio il film che Reitz cuce intorno agli incontri, alla dialettica e alla luce dell’atelier ricostruito nel palazzo patrizio dell’Elettrice di Hannover Sofia del Palatinato, madre di Carlotta e storico trait d’union fra la corona britannica degli Stuart e il casato tedesco-boemo Sassonia-Coburgo-Gotha da cui ancora oggi discende, con in mezzo il cambio di cognome imposto nei primi del Novecento da Giorgio V, la linea di successione dei Windsor. Una sola stanza in cui studiarsi a vicenda, mente e anima, riflessioni e talento, e progressivamente imparare l’uno dall’altro. Da una parte la pittrice che – proprio come il cinema – cerca una via artistica non necessariamente logica («a volte serve andare verso l’astrazione per trovare la concretezza», dirà apertamente) con cui trasformare la rappresentazione in verità tentando di capire (e di carpire, e di catturare, e di restituire in un’immagine) i pensieri che si agitano nel fondo degli occhi del genio, e dall’altra la razionalità pura dello scienziato e filosofo che, forse per la prima volta, indaga e comprende (anche) il senso più profondo dell’arte, lo sguardo e l’umanesimo che la muovono, l’imprescindibilità (anche della scienza) dal sentimento umano senza il quale nient’altro avrebbe senso, e non certo in ultimo lo scorrere del tempo necessario per la conoscenza e la realizzazione di un’opera (e quindi il passato) che si cristallizza nell’eterno presente di un’immagine da consegnare al futuro, come una traccia di creatività in grado di sopravvivere alla disgregazione del corpo e dello spirito. Un concetto, espresso dall’immaginaria pittrice (che poi, nella sua costante ricerca di sguardo e punto di vista anche a costo di bendarsi un occhio e strizzare l’altro fra le dita, a ben vedere nient’altro è che un’ottima regista), ben più profondo della posa (rigorosamente altezzosa, perché «un sorriso o mostrare i sentimenti devasta la dignità») di quell’immagine che, a detta del primo e fallimentare pittore di corte (il quale a sua volta, nelle indicazioni con cui chiede a Leibniz un’espressione il più possibile fredda e neutrale da disegnare con facilità, nient’altro si dimostra che un regista mediocre), «è necessariamente finzione con cui salvare i viventi dall’oblio». Un po’ come se il necessario passaggio da un artista all’altro, da un modo di pensare e di guardare all’altro, da un metodo sbrigativo di lavoro in nero su bianco al suo esatto opposto che invece si prende il tempo necessario per ragionare e per fare emergere le figure come luci nel buio, segnasse in qualche modo un passaggio da un cinema commerciale a quello d’autore che non accetta scorciatoie né compromessi, ma che cerca sempre e comunque un senso più pieno, un’ambizione maggiore, almeno un altro livello al di sotto della superficie. Passando attraverso la conversazione, passando attraverso il confronto, passando attraverso le speculazioni filosofiche (e matematiche, e scientifiche, e monadologiche sulla continua ricerca di forme sostanziali dell’essere, e metafisiche sulla necessità di imporsi ottimismo e felicità anche nel dolore di una morsa, e teologiche sul migliore dei mondi possibili e sulla necessità del Male per poter scegliere il Bene, e inevitabilmente dialettiche in una sorta di sfida interculturale fra dottrine di studio e ispirazione di uno slancio artistico). Passando attraverso gli infiniti giochi di specchi con cui cercare la forma del genio e «inondare di luce la luce stessa» ma magari magicamente trovare, quasi all’opposto, le proiezioni del mondo esterno nel buio di una camera oscura. Passando attraverso le distanze che a ben vedere nient’altro sono che spazio coperto nel tempo, o forse direttamente dal tempo, e la capacità di (re)immaginare l’essenza più intima di un uomo immergendo le sue verità in un contesto di totale finzione. Ma soprattutto passando attraverso il nascere e lo svilupparsi sempre più paritario e via via più familiare, dalla conoscenza all’emergere delle fragilità fino a una mano che si tende quando viene rievocato il dolore del trauma e poi di nuovo al momento del tragico epilogo (nuovamente storicizzato, con la morte ad appena 37 anni della regina Sofia Carlotta), dell’ennesimo rapporto umano del cinema di Reitz, che fra figure nel nero, figure nel bianco, sparizioni e riemersioni dal buio, farfalle fra le dita, clessidre, uomini e oggetti ribaltati dalle ampolle d’acqua e raffigurazioni del tempo che scorre nel giro vorticoso delle ombre nella stanza/scatola scenica attorno ai protagonisti, torna a mettere in scena con spaventosa eleganza e sublime complessità filosofica, artistica e umana una sua Chronik, questa volta non più parte della sua leggendaria epopea familiare multigenerazionale pensata intorno al villaggio immaginario di Schabbach, ma allo stesso modo di nuovo diaristica (o per meglio dire, appunto, cronachistica) nei cartelli che intervengono come precisi segni di interpunzione a segna(la)re ogni tappa della scansione temporale episodica del racconto. Il resto, quasi a riecheggiare il Cristi Puiu filosofico e in costume di Malmkrog, sono parole, parrucche, costumi, luci, fogli di taccuino, immagini, libri, immaginazione, il paradossale coincidere leibniziano di tutto e nulla. E poi un volto, una poltrona, una febbre sempre più alta, la disperazione di un lutto, il dipinto diventato all’improvviso inutile. Il sublime che si fa cinema. L’ennesima lacrima che, fra il visibile e l’invisibile, fra il campo e il fuori campo, fra la storia e la Storia, sin dal logo iniziale della Edgar Reitz Filmproduktion si sa già che immancabilmente, entro i titoli di coda, finirà ancora una volta per solcare il viso.

Marco Romagna

“Leibniz” (2025)
N/A | Germany
Regista Edgar Reitz, Anatol Schuster
Sceneggiatori Gert Heidenreich, Edgar Reitz
Attori principali Lars Eidinger, Barbara Sukowa, Edgar Selge
IMDb Rating N/A

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