L’EFFET AQUATIQUE (2016), di Sólveig Anspach

Alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, non essendo prevista una conferenza stampa, i registi vengono abitualmente a presentare i propri film in sala. La loro non è solo una presenza fisica a prendersi gli applausi (o, più raramente i fischi), come accade nelle sezioni ufficiali alle proiezioni con la delegazione, ma una nemmeno tanto breve sessione di Q&A al termine delle matinée e una presentazione sul palco prima del film per quanto riguarda le pomeridiane-serali. C’è una sola regista, in tutta la sezione e in tutto il Festival, che non ha presenziato alla prima in Costa Azzurra del suo film. E il motivo è il più doloroso: Sólveig Anspach, regista e sceneggiatrice francoislandese, non c’è più, se n’é andata lo scorso agosto a 54 anni per un tumore al seno, dicono le leggende esattamente il giorno dopo aver ultimato il montaggio di L’effet aquatique, presentato alla presenza degli attori, dello sceneggiatore, dei produttori e di una fitta delegazione di amici. È quindi un film postumo, quello che andremo ad affrontare, un consapevole testamento, una commedia leggiadra come schiaffo alla morte proprio nel momento in cui stava stringendo il suo cappio. E in questo senso va affrontata. Perché L’effet aquatique potrebbe apparire a un occhio disattento “solo” una brillante commedia romantica, “solo” la storia d’amore tenera e (im)possibile fra un apparentemente inetto quarantenne, Samir, e un’insegnante di nuoto vedova, Agathe, “solo” una carrellata di buffi personaggi, “solo” una sequenza di eventi imprevedibili. “Solo”, appunto, quando invece il film è “anche” tutto questo. Tenero, lieve, ma al contempo con la forza di una porta in faccia all’avanzare della morte.

Ambientato per metà in Francia e metà in Islanda, L’effet aquatique segue le peripezie amorose di Samir, il suo primo ingresso in piscina, il colpo di fumine per quella bella insegnante e la decisione di fingere di non saper nuotare per avvicinarla prendendo lezioni. Inizialmente lei sembra malsopportarlo, ma una sera Samir rimarrà chiuso in un camerino rotto, uscirà e troverà Agathe in piscina, in un crescendo di intimità fino a quel primo bacio sulla piattaforma, interrotto dalla brillante sequenza di eventi messi in scena. Sólveig Anspach costruisce la narrazione con tocco lieve, dipinge bizzarri personaggi di contorno mai monodimensionali, ma ognuno con una sua specifica personalità (il gestore della piscina puttaniere, il suo collega con istinti da venditore, l’altra insegnante di nuoto ai limiti della ninfomania), e lascia crescere il film nella seconda parte, quando l’intera vicenda si sposterà dalla Francia in Islanda, dove Agathe sarà inviata a un convegno e Samir la seguirà, pazzo di lei. E qui arriva il colpo di genio definitivo, inserito non a caso esattamente a metà del film, quasi uno spartiacque: la decisione di Samir di fingersi il delegato israeliano, la piccata decisione di una Agathe risentita per l’invadenza di cedergli il microfono, e quel discorso improvvisato da lui, in cui si inventa di sana pianta il progetto di una grande piscina in comune con la Palestina: lo sport come simbolo di pace e fratellanza. Seguiranno tira e molla amorosi, altri personaggi di contorno bislacchi (il delegato palestinese, l’eccentrica ospite del convegno, il suo assistente, la delegata portoghese), ma soprattutto un incidente per il quale Samir perderà la memoria e l’amore, e sarà a questo punto Agathe a doverlo, altrettanto teneramente, riconquistare.

L’effet aquatique è quindi “anche” una commedia brillante e spassosa, che si distingue per originalità nelle trovate e tenerezza fuori dal comune nel tenere le fila. Ma soprattutto è un canto del cigno, è un’ultima pennellata di tenerezza al momento dell’addio, è una rivincita dei sentimenti sulle regole, sul corpo, sulla morte. È un canto di pace e un doppio percorso verso il cuore, perché solo nella perdita ci si rende conto dell’importanza delle persone e dei sentimenti. L’effet aquatique è la lieve tenerezza che sa avere il cinema francese unita a quell’ironia glaciale, quando necessario dura e irresistibilmente spassosa, tipicamente nordica, è l’ottimismo contrapposto al dolore. Sólveig Anspach si rispecchia nei propri personaggi, li ama profondamente, li fa amare fra di loro. E tramite loro, in un certo senso, si è sopravvissuta, è rimasta, probabilmente era anche oggi in sala a prendersi il meritato applauso. Anche se non l’abbiamo potuta vedere. E questa sarebbe “solo” una commedia romantica?

Marco Romagna