SENZA LASCIARE TRACCIA (2018), di Debra Granik

Anche l’indipendente americano può non essere, ormai, totalmente autonomo dalle nuove dinamiche di mercato, da festival appositamente ideati per valorizzare certi lavori e dallo studio accurato del pubblico possibile. Debra Granik entra naturalmente nel novero degli autori (o meglio autrici, considerando la politica che quest’anno ha assunto Cannes riguardo questo tema) che riescono a raccontare la loro realtà in modo profondo, mai banale ed estremamente umano. Lo si intuisce già probabilmente dalla sua filmografia poco prolifica (otto anni sono passati dal suo ultimo film di finzione e quattro dal suo ultimo lavoro) e allo stesso tempo dal rigore di un cinema che mai vuole compiacere né a livello narrativo né a livello linguistico, e per questo molto stimolante. Ed è importante, oltremodo, ritrovare questo Leave no Trace in un’edizione della Quinzaine che, nonostante l’anniversario del mezzo secolo, si è rivelata povera, quasi telefonata. In questa scenario il film della Granik può apparire quasi come un film asincrono rispetto al respiro (assai corto) del cinema indipendente selezionato attualmente nei principali festival internazionali, e dunque più vicino allo spirito originale di una programmazione che dovrebbe cercare, almeno in questa sezione, prospettive diverse sull’intendere il cinema d’oggi.

Il mondo di Tom, ragazza quindicenne estremamente sensibile e intuitiva, è assai piccolo ma appare espanso e profondo. Vive clandestinamente con il padre in un parco pubblico della grigia Portland, abituati oramai alla solitudine, all’autosostentamento, all’essere selvaggi e curiosi. Verranno arrestati, e verrà offerta loro una possibilità di vita solitaria ma più inserita nella condivisione sociale; lui non se la sente, e fuggono ancora una volta verso un altra opportunità – con lei che si trova a salvare lui in una natura per una volta ostile. Il padre sembra adattarsi, ma quando decide di fuggire per un ultima volta, lei non ci sta. Come il mondo cambia, anche lei sente di aver bisogno di quel mondo, prima visto come diabolico, e ora conosciuto nelle sue marginalità più profonde ed umane. Vivranno vicini, forse a pochi metri, ma lui nel bosco, e lei a fianco della civiltà. Il legame alla natura che gli ha sempre uniti ora finirà per dividerli, fondamentalmente senza colpa di entrambi, è solamente il tempo a fare il suo corso. Tra favola, fiaba e romanzo (tutti di formazione, per entrambi) il mondo interiore diventa il rapporto con l’esterno (quello di lui, con gli incubi di guerra, quello di lei, con i sogni di un futuro) e il convivere con un’interiorità che sfugge volontariamente a ogni classificazione (splendida la scena dei test psicologici, spesso sulla felicità, da svolgere analiticamente al computer). L’amore, quello filiale in questo caso, diventa accettazione di una nuova distanza, prima inammissibile e ora necessaria.

Film piccolo, estremamente sottile, fatto di avvicinamenti (e conseguenti allontanamenti) continui, quasi impercettibili nell’encomiabile lavoro sugli attori come sugli spazi, Leave no trace è un’opera che nasconde, nell’apparente semplicità della messa in scena, un complesso rapporto di sincerità tra i protagonisti e la natura che li circonda; mai freddo ma mai allo stesso tempo compassionevole, rigoroso, rispettoso ed estremamente umano. La fisicità, anche ambientale, più che mai si troverà a contatto con un’emotività pura e autoctona; come per sintonia uomo e ragazza si cercano senza bisogno di parole e gesti, anche quando la legge li vorrà isolati e distanti. Dall’altra parte appare anche un film piccolo (nel senso neutrale del termine), quasi spaventato ad aprirsi e compresso nella sua struttura; quasi come se anche il film stesso fosse bisognoso di quel punto di fuga in divenire che agognano i suoi protagonisti. Il risultato è una sorta di fiaba in presa diretta che documenta un certo avvenire e ne esalta la scoperta dell’oggi (con il calco profondissimo di cosa è stato lo ieri); un viaggio minimale e intimista che stimola i sensi dello spettatore e lascia spazio, solo nel finale, a una riconciliazione che allo stesso tempo ha già il sapore dell’allontanamento. Anche fallato nella sua contaminazione (e fusione) di tempi e spazi minimi ma continuamente dilatati, che trova come filo conduttore quello della conoscenza (del padre verso la figlia, della figlia nei confronti della realtà, di quella realtà che mai più potrà appartenere al padre) che lotta perennemente al cospetto della coscienza. Nella parabola multiforme della loro esperienza, sostanzialmente si riflette anche la nostra (da possibili genitori e/o da tardi figli), o almeno la struttura dei nostri rapporti con l’esterno, con tutto ciò che abbiamo intorno (e che spesso ci spaventa). Un piccolo film che affronta un tema enorme, probabilmente riuscendoci, o almeno giungendo ad altre domande; nuove, umanissime e figlie dell’esperienza – la loro e la nostra.

Erik Negro