La Mostra di Venezia è uno dei Festival in cui, sugli accrediti, è stampigliata la testata per la quale si scrive. E già questo, per noi, è un profondo motivo di orgoglio, se non altro perché Elio Di Pace, amico fraterno, appassionato cinefilo, straordinario fotografo e, anche se la sua timidezza e la sua modestia non glielo faranno mai ammettere, regista estremamente talentuoso pazientemente coltivato da Gianni Amelio al Centro Sperimentale, si è presentato emozionatissimo sul palco della Sala Perla per presentare il suo Le Visite all’interno di SIC@SIC con al collo un badge stampa rilasciato proprio per CineLapsus. E questo accadrà ancora il 6 settembre, questa volta in Giornate degli Autori, dove verranno presentati come evento speciale i primi 20 minuti, per ora autoconclusivi ma espandibili a volontà, della sua co-regia in La Chimera, documentario a otto mani sulle Vele di Scampia, ma di questo parleremo a tempo debito.
Questo ci pone però anche in una posizione in un certo senso scomoda, potrebbe farci sembrare non totalmente sinceri, in una sorta di conflitto di interesse nel parlare bene – anzi benissimo – del lavoro di un amico e collaboratore solo perché amico e collaboratore, quando non potrebbe esserci nulla di più falso. In primo luogo perché non avremmo alcun interesse ad abbandonare l’onestà intellettuale senza la quale queste pagine non potrebbero esistere, e ancor di più perché riteniamo Le Visite un cortometraggio realmente magnifico, una piccola perla sulla quale costruire un intero linguaggio e, si spera, una luminosa carriera. Le visite è un film da sostenere a spada tratta, dal quale non solo emerge con una sincerità abbagliante, ma che può cogliere solo chi realmente lo conosce, tutto l’Elio al quale abbiamo senza alcuna difficoltà imparato a volere bene – la cucina vista come rituale, il caffé come crocevia e metafora di vita, le fotografie sempre in primo piano e il sangue campano che ribolle in ogni parola, in ogni situazione, in ogni gesto e in ogni (non) detto –, ma anche e soprattutto una ben precisa idea di cinema, di messa in scen(eggiat)a magnificamente trattenuta, di finzione che affonda le radici nella realtà e si sviluppa nell’ambiente circostante.
Le visite è un film di pura finzione che cerca e trova la sua veridicità nell’estetica delle televisioni locali anni Ottanta, a partire dalla scelta di una telecamera – e non macchina da presa – in miniDV che sapesse dare una splendida pasta retrò da videocassetta, ulteriormente accentuata dal riversaggio in Beta per il montaggio e dal font dei cartelli e dei titoli di coda. Il resto lo fa una macchina a mano sempre in movimento e al contempo emotiva e pudica, pronta a creare un’immagine volutamente sporca, perfetta per portare sullo schermo il dramma che si sta consumando e soprattutto quella periferia sottoproletaria di Napoli dal cui groviglio sembra impossibile trovare una via di fuga. È quella periferia che parla la lingua (ben più che un dialetto) napoletana, una lingua che da sola trasuda popolo, tradizione, emozione, veridicità.
È un film di minuziosa scrittura, Le visite, fatto di frasi e soprattutto di silenzi, di sguardi e di perifrasi, di rituali e di cuore dilaniato. Non è tanto un film sulla camorra, quanto sugli effetti che la camorra porta in chi ci convive, sulla sua pesantezza e presenza anche quando intravvista solo lateralmente, sulla sua ineluttabilità in un tessuto sociale che deve in qualche modo arrangiarsi per sopravvivere, e su quanto una volta invischiati, anche se a latere, possa bastare la sola idea di cambiare vita per piombare nel dramma più funereo. Le visite è ambientato integralmente nella cucina di un appartamento in cui una madre e una zia, all’alba di ogni lunedì, si preparano per la visita al figlio e nipote detenuto a Poggioreale. Fanno in modo che non gli manchi nulla, dall’accurata preparazione della pasta al forno ai pacchi di caffé, e sarà proprio il caffé, non tanto quello sorbito ogni volta dalle donne, ma quello offerto fuori campo dal padre ai carabinieri per cui i genitori decideranno fra coscienza e timore di convincere il figlio a collaborare con la giustizia, il vero innesco della tragedia, il “fiele” con cui sarà necessario convivere. Quello messo in scena da Elio è un dramma sia personale, di una madre che ha, non a torto, paura, sia familiare, di un padre che viene raggiunto da un colpo di pistola e ucciso come messaggio al figlio probabilmente prima ancora che questo apra bocca, giustiziato solo per averci pensato. Ma questo, intelligentemente, Elio Di Pace lo lascia fuori campo, seguendo per tutto il cortometraggio solo le donne, in primis la madre e la zia, e poi anche la fidanzata del detenuto, che nei momenti di bisogno sta con la famiglia del suo uomo anche e soprattutto quando lui è “ospite dello Stato”. Sono le donne a ricostruire l’incontro fra il padre e i carabinieri, così come sono le donne a preparare singhiozzando il vestito per il funerale, in attesa che i cartelli finali, magnificamente traballanti in piena coerenza con l’e(ste)tica del film, ne contestualizzino il tragico epilogo.
In un’edizione veneziana che a parte i mostri sacri Schrader e Friedkin sta stentando a decollare, il ruolo svolto dalla parallela Settimana Internazionale della Critica è sempre più centrale e fondamentale. Non solo per quanto riguarda la selezione dei lungometraggi internazionali e dei corti italiani di SIC@SIC, che fa emergere nelle scelte del team guidato da Giona Nazzaro quello spirito di ricerca e quell’afflato umano che ormai la selezione ufficiale sembra aver dimenticato lungo la via, ma anche e soprattutto per l’ormai rara capacità di programmare, accorpando corti e lunghi con un senso compiuto che lasci apertamente dialogare fra di loro lavori diversissimi per durata, genesi e produzione. Non è stata certo casuale, infatti, la scelta di programmare il quarto d’ora de Le visite in apertura dell’ora e mezzo circa di Il cratere, esordio alla finzione per i documentaristi Silvia Luzi e Luca Bellino: i due film, entrambi girati rigorosamente a mano, in un certo senso si compenetrano, si valorizzano a vicenda, mettono in scena con lo stesso spirito neorealista la stessa periferia (sotto)proletaria di Napoli, gli stessi margini sociali, la stessa mentalità campana, la stessa lingua, gli stessi odori e sapori, e pure lo stesso afflato neomelodico, centrale nel lungometraggio di Luzi-Bellino, pronto a fare capolino dagli schermi televisivi nel corto di Elio. E, allo stesso modo, i due film ragionano su un’immagine che ha necessità di sporcarsi per essere davvero efficace, che sia il low-fi rigoroso di Elio Di Pace o l’hd che non ha paura di andare fuori fuoco di Il cratere: entrambi puntano al vero e alla partecipazione, alla lettura della propria terra e delle sue contraddizioni, al puro trasporto emotivo verso chi è messo in scena.
Certo, ben diversi sono genere e tematiche, con Il cratere che si pone come una sorta di romanzo di formazione fra bancarelle e sogni di sfondare nella musica neomelodica per giungere alla più primigenia essenza di un difficile rapporto padre/figlia, mentre Le Visite preferisce invece interrogarsi sugli effetti sociali della camorra senza mai uscire dall’appartamento di una madre e moglie, ma è inevitabile, vedendo i due lavori in fila, finire per considerarli due facce della stessa medaglia, due film che cavalcano e astraggono il reale campano senza manipolarlo, ma facendolo assurgere a paradigma. E pure a discorso aperto sul linguaggio cinematografico, sulla credibilità, sulla rielaborazione del vero, sul mostrato e su ciò che invece rimane fuori campo. In questo senso, e a dispetto della sua breve durata, Le visite è un film molto più complesso di quanto lo stesso Elio non voglia ammettere, fatto di una ben precisa teoria del cinema, fatto di una ben precisa idea di rappresentazione, e soprattutto fatto di tutto il cuore sincero e (in)sicuro di un ragazzo nato nel 1988 a Battipaglia e cresciuto a Castel San Giorgio al quale non possiamo che augurare ogni tipo di applauso e fortuna. Le visite è un film prezioso, ragionato, rigoroso nel 4/3 della sua solo apparente amatorialità, capace di trasudare umanità anche quando la speranza diventa strazio e rimpianto. È un calendario con tutti i lunedì del mese segnati come i giorni in cui illudersi di poter ricominciare, o forse come i giorni in cui rendersi amaramente conto di aver perso tutto. È una vecchia foto che diventa simulacro, e come tale va tenuto come un bene prezioso, spolverato, curato, amato. Magari proprio quella foto con Marek Hamsik (immancabile nelle case napoletane, ma curiosa quando messa in scena da un convinto tifoso della Salernitana) gelosamente conservata sullo specchio, oppure quella della Comunione di un figlio arrestato, o ancora quella di un matrimonio diventato all’improvviso vedovanza, morte e rimpianto. L’importante è che ci sia sempre una fotografia, la più grande passione di Elio dall’albuminato al digitale passando per la Hasselblad, ereditata in tempi non sospetti da un padre al quale questo piccolo e prezioso film proletario è dedicato con commozione e amore. Non rimane che abbracciarsi, asciugarsi le lacrime, sostenere questo tipo di cinema e di autorialità, sperando che questo nuovo cinema campano neorealista, sociale e intimista, etico e umano, da Matteo Garrone a Leonardo Di Costanzo, da Il cratere a Le visite, faccia sempre più scuola.
Marco Romagna