LE VARIABILI DIPENDENTI (2022), di Lorenzo Tardella
«And I find it kind of funny
I find it kind of sad
The dreams in which I’m dying
Are the best I’ve ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles it’s a very, very
Mad world, mad world»Tears for Fears, Mad World
Forse al giovanissimo Tommaso sarebbero sufficienti i quindici minuti di questo breve film del quale è co-protagonista, per capire finalmente le variabili dipendenti di quelle equazioni che non riesce a risolvere sui quaderni di scuola. Uno specchiarsi dello stesso principio matematico di correlazione nella vita quotidiana e nel percorso di crescita di ogni essere umano, innestato in quel momento indefinito da qualche parte fra l’infanzia e l’adolescenza in cui si scopre emergere la propria identità nelle emozioni che iniziano a esplodere nel petto e nei desideri più maliziosi che fanno ribollire di ormoni il basso ventre, o forse è tutto solo un gioco di un bambino che non ha ancora maturato la propria consapevolezza, la sua piccola prova di «coraggio» per una «missione» senza reale significato in cui misurarsi appena fuori dallo schermo della PlayStation. Basta uno sguardo fugace nell’atrio del teatro a Pietro e Tommaso per diventare variabili dipendenti l’uno dell’altro, per rendersi conto di come quella sensazione bellissima che si prova possa essere altrettanto dolorosa e frustrante quando non trova una reale reciprocità, o al contrario per non rendersi nemmeno conto di quanto si possa illudere e ferire chi si sente sedotto e poi respinto a pochi centimetri dall’agognata prima volta. Basta uno scherzo (non troppo) innocente di Tommaso sul quaderno di una compagna di classe, con Pietro che lo osserva da lontano in un silenzio complice. Il resto è solo il destino, con la medesima sensibilità artistica nella passione per il disegno ma soprattutto con quella serata scolastica a teatro vicini per caso sullo stesso balcone, con quegli sguardi di seduzione dapprima imbarazzati e poi sempre più insistiti l’uno verso l’altro, con quel primissimo bacio nascosti nel buio e con quella tensione (omo)erotica dolcissima che deflagra insieme ai crescendo delL’estate di Vivaldi. Una storia fisica ed emotiva assolutamente universale, propria di chiunque – quale che sia la sua identità sessuale, ma tanto più nello svelarsi e nel definitivo formarsi di un’identità non etero – e colta esattamente nel punto di innesco della pubertà e dei primi stravolgimenti interiori, quando ancora non si sa nemmeno esattamente che cosa possa essere quella prima attrazione così impossibile da gestire e razionalizzare. Lorenzo Tardella, in un sorprendente saggio di fine triennio partito dal Centro Sperimentale di Cinematografia per giungere, nella sezione Generation Kplus, fino agli schermi giganti della 72ma Berlinale, la mette in scena in un cortometraggio di pura sensibilità e preziosa tenerezza, di emozioni (s)conosciute e irrefrenabili che mozzano il respiro, di una testa che sembra scoppiare in un solo pensiero e di una sorta di inspiegabile vibrazione che, non appena sullo schermo del telefono appare quel nome, si propaga irrefrenabile e misteriosa per tutto il corpo.
Si struttura sostanzialmente in tre blocchi narrativi, Le variabili dipendenti. Tre movimenti, se si vuole, dei quali l’incrocio di sguardi dell’incipit sembra quasi una sorta di piccola Ouverture prima di ricalcare l’Allegro, l’Adagio e il Presto – o forse in questo caso è una Fuga – già di Vivaldi, che dal palchetto galeotto del teatro si sposteranno prima nella stanza di Pietro impaziente di fronte al cellulare e infine in quella di Tommaso, che lo ha invitato per studiare (?) proprio quando a Pietro sembrava impossibile trovare qualcosa da scrivergli e che ora gli siede vicino sul letto. Tardella, strizzando l’occhio sin dai titoli di testa al cinema di giovinezza e tocco di Céline Sciamma, mette in scena le regole dolcissime e spietate dell’attrazione lavorando sull’ambiguità della malizia e sui dettagli di chi brucia di aspettative e cerca segnali univoci, con la mano di Pietro che trema d’emozione di fronte al citofono e con i compiti di matematica lasciati subito da Tommaso sul tavolo di cucina perché «devo farti vedere una cosa», con le ginocchia che si sfiorano davanti alla PlayStation e con la complicità di chi si guarda e ride senza motivo, con le labbra che si cercano e con quel nuovo bacio appassionato prima che Tommaso si scansi, tanto estroverso e apparentemente disinvolto quanto non ancora pronto, non ancora maturo, non ancora consapevole. Semplicemente non interessato, un bambino che ancora non si è posto le domande e che gioca a un gioco strano, probabilmente nemmeno conscio delle reali speranze di un coetaneo già cresciuto, all’opposto di lui tanto timido e introverso quanto consapevole del proprio desiderio, e proprio per questo così impaziente di esplorarlo. Forse è un innamoramento, quello di Pietro, di certo è un giovane e totalizzante desiderio di scoperta, di erotismo, di lussuria, di intimità, di polpastrelli che cercano un contatto erogeno. Un bisogno di trovarsi, finalmente, e di appartenersi. Una magnifica illusione che azzera la salivazione e aumenta il battito cardiaco, ma anche un affanno di incertezza, un’assoluta e disperata necessità di conferme su cui conoscere e fondare se stesso, per la prima volta proteso verso l’età adulta. Vorrebbe sentire condivise e reciproche le stesse voglie e le stesse sensazioni, la stessa vibrante emozione e lo stesso fuoco interiore, la stessa fame di carne e la stessa bruciante euforia d’amore, e invece trova il primo doloroso rifiuto. Come una locomotiva lanciata a tutto vapore verso il baratro di amarezza della negazione, ma è proprio così che si cresce. Tirando una facciata e rialzandosi. Incassando la distanza e inventando una scusa per togliere il disturbo: l’infanzia è finita, ma la vita continua. Basta continuare a cercare gli sguardi altrui senza mai abbassare il proprio. Un po’ come nel momento di quel rapido e ficcante guardare in macchina di Pietro al di là delle piante, vero e proprio consegnarsi al pubblico nella sua incertezza e nel suo ribollire interiore, contrapposto a quello ben più consapevole ma ormai irreversibilmente malinconico verso le lenzuola da bambino di quel letto destinato a rimanere intonso, colorato emblema di un sogno infranto. Una chimera destinata a rimanere tale, ancora per un po’. Ma quell’incrocio di sguardi tornerà presto, e troverà da solo la sua nuova strada. Bisognerà solo tenere gli occhi aperti, e non chiudere mai il cuore.
Marco Romagna