È probabilmente il Philippe Garrel più smaccatamente autobiografico da parecchi anni a questa parte, Le sel des larmes. Non tanto per i molti e più o meno fugaci rapporti amorosi del protagonista Luc, come di consueto intrappolati nei solenni e sontuosi bianchi e nero di Renato Berta con quel tocco sublime di sguardo e regole dell’attrazione tipici dell’ultimo grande romantico Garrel, quanto per i rimandi che, nella sceneggiatura scritta dallo stesso Garrel con il fedele sodale Jean-Claude Carrière, si fanno sempre più definiti prima attorno al rapporto fra il regista e suo padre, e poi a quello altrettanto ombelicale con il figlio Louis. Due padri e due figli, simili al limite del corso e ricorso storico per vissuto ed errori, per pulsioni ed esperienze, per sensibilità e rimpianti, per malizie donnaiole e profondità nel legame. Tanto che l’unico sincero, puro e radicato rapporto d’amore disinteressato fra le tante infatuazioni più carnali che sentimentali del protagonista non è con una in particolare fra le donne, con le quali all’iniziale passione seguiranno sempre e necessariamente la stanchezza, la gelosia, il senso di colpa, il dolore inflitto e provato nel procedere altalenante dei rapporti, dei tradimenti e delle piccole e grandi codardie, ma proprio con quel padre artigiano dall’animo poetico e gentile, evidente proiezione sia del padre del regista sia dello stesso Philippe Garrel, proprio come il figlio incarna un ibrido perfettamente coincidente fra Philippe e Louis. Un padre capace di gioire e soffrire con l’erede per i suoi successi e per i suoi strazi, capace di scrutare con preoccupazione e saggezza i suoi turbamenti sapendo sempre rimanere un passo indietro, capace di capire intimamente ma di non imporsi mai, e anzi di allontanarsi silenziosamente per non disturbarlo mentre sta amoreggiando, per poi andare via anche definitivamente in punta di piedi, senza far rumore, lasciando solo le lacrime più salate della mancanza. E forse è proprio per questo, perché il film è troppo personale, che a interpretare Luc non c’è come quasi sempre Louis, né altri realmente di famiglia nel cast. Forse è una dedica non scritta, forse è un modo di affrontare qualche non detto, di certo è percepibile la carezza di un padre. Ricevuta e poi ridata.
Dopo la straordinaria trilogia amorosa La jalousie, L’ombre des femmes e L’amant d’un jour, Philippe Garrel torna con Le sel des larmes a lui, a lei, all’altra e all’altra ancora (magari con altro lui al seguito). Torna agli sguardi imbarazzati di chi non ha il coraggio di fare il primo passo, torna alla tenerezza e alla delicatezza dei primi discorsi inutili, torna agli abbracci e ai timidi baci sulla fronte. Torna alle gravidanze (in)desiderate e ai tradimenti, torna ai balli più sensuali, e torna ai triangoli che più che tornare al Truffaut di Jules et Jim quasi ribaltano Jean Eustache in una sorta di “padre e gigolò”. Torna alla lussuria più asentimentale contrapposta alle più sanguinolente pene d’amore, torna ai ritorni di fiamma e alle delusioni, torna agli occhi lucidi e alle coppie che camminano mano nella mano. Ma questa volta, in un’ambientazione di paesini di provincia e di banlieue che relegano ai limiti del campo il consueto cuore pulsante borghese di Parigi, un po’ come già in La jalousie in cui principale rapporto alla base del film era quello di Louis Garrel con la figlioletta spartita fra la madre e la nuova compagna, il vero punto di Philippe Garrel è ragionare su ciò che sta intorno ai rapporti di coppia, sulle famiglie, su chi viene colpito solo di rimbalzo dagli affari di cuore, ma è così fondamentale proprio per la sua capacità di razionalizzare e di rimanere alla giusta distanza, vicino ma mai invasivo nel suo altruismo e nel suo sincero affetto.
Perché l’amore di coppia, necessità più ancestrale d(e)i Garrel, forse non può nemmeno esistere nel presente, ma è un qualcosa di cui ci si può rendere conto solo ricostruendolo a posteriori. È un qualcosa a cui si può ripensare solo al passato, quando già sono subentrate le distanze, le incomprensioni, i rimpianti, ed è in genere troppo tardi per tornare indietro. È per questo forse che parla rigorosamente al passato la voce narrante di Luc, filo conduttore di una narrazione semplicissima e minimale eppure sempre complessa come la vita in ogni snodo, in ogni emozione, in ogni singolo vicolo cieco di (in)decisione. Per quanto forse, va detto, probabilmente con qualcosa in meno da dire rispetto al solito, in un film probabilmente minore, inaspettatamente intermittente nell’alternare i consueti istanti sublimi a qualche ripetizione forse un po’ logora di schemi, affiancata a una troppo breve sortita nell’antirazzismo quasi più per introdurre un’ulteriore tematica che per reali necessità narrative o politiche. Ma non è questo il punto. Quello che conta, e che fa come (quasi) sempre grande il film, è il tocco di Philippe Garrel, la sua sensibilità, il suo sguardo, la sua assoluta lucidità, la sua intensità insostenibile, i suoi (tanti) istanti di ispirazione poetica. Quello che conta è il suo scandagliare ogni faccia del sentimento, fra un padre e un figlio così come fra un uomo incapace di controllare le sue pulsioni e la timida Djemila, l’estroversa Geneviève e la bellissima dark lady Betsy, che ribalterà ogni dominanza e sottomissione prendendosi senza possibilità d’appello le redini del gioco. Tre donne di diversissime sessualità e di opposti costumi, in una visione della femmina forse un po’ schematica e senza dubbio rimasta ancorata ai tempi della Nouvelle Vague, ma la cui ‘anzianità’ di pensiero non intacca in alcun modo lo sguardo dell’autore. Del resto, le donne, il desiderio e il sesso in Le sel des larmes sono poco più che un MacGuffin, una metafora del passare del tempo negli scambi generazionali, e anzi in qualche modo la visione proveniente da un’altra epoca culturale alimenta ancor di più tenerezza e la disperazione di un cinema unico e indispensabile, orgogliosamente fuori dal tempo, sempre profondissimo nelle sue inusitate vette e nei suoi sconfinati abissi.
Presentato in concorso alla 70ma Berlinale, Le sel des larmes è una polifonia di lusinghe e sentimenti, di attrazioni e di tentativi andati a vuoto, di sessualità seriali e di amanti con i piedi in più scarpe. C’è l’iniziale vedersi e c’è il consapevole pedinarsi, c’è l’attaccare bottone e ci sono i primi appuntamenti, ci sono le paure e i rifiuti, ci sono le distanze e gli altri incontri, e poi c’è il momento – mai davvero definitivo – di guardarla nuda sotto la doccia dopo aver fatto l’amore. Ma c’è anche l’illusione di chi si è lasciata indietro senza nemmeno premurarsi di lasciarla, accompagnata dall’inevitabile senso di colpa, o forse è solo frustrazione di chi si sente leso nella propria mascolinità, dell’uomo codardo che non è stato in grado né di scegliere né tanto meno di essere sincero con chi lo ama. Quello stesso uomo che vive e che sogna (di diventare ebanista, o forse di amarle proprio tutte) ma che è incapace di fermarsi, di sistemarsi, di avere un figlio, di smetterla di correre dietro a ogni sottana, e al contempo è bloccato e respinto impotente da quella cravatta d’altrui amplessi sulla porta di casa. Quello stesso uomo che sa di poter tornare in ogni momento da un padre come lui ma più saggio ed esperto, che sa di potersi confidare, che sa di potergli chiedere consiglio. Che sa benissimo di non essere pronto per poterne fare a meno – e del resto chi lo sarà mai? Anche se forse, in alcuni casi, il trauma è l’unico doloroso e terribile modo per riuscire a crescere, per guarire dalla superficialità, per diventare uomo, e quindi finalmente capace d’amare. L’ultimo prezioso regalo di un padre, in un certo senso. Tutto nel retrogusto del sapore salino delle lacrime.
Marco Romagna