9 Dicembre 2017 -

LE RÊVE DE NIKOLAY (2017)
di Maria Karaguiozova

“Il capo viene doppiato nei rumori dell’acqua, nei rumori del vento, nel canto di tutte le stelle e di tutti i soli e di tutti i chiar di luna insieme, nel combattimento e nell’amore dell’uomo e della barca col vecchio oceano sulle onde così grandi, e tra gli indizi magici venuti dal cuore profondo del mare profondo. La terra si allontana. E adesso la storia è tra il Joshua e me, fra me e il cielo, una bella storia tutta per noi, una grande storia d’amore che non riguarda più gli altri. La terra è lontana, lontana, lontana… può lontana che il luogo in capo al mondo. Una bella storia tutta per noi nei rumori della barca che corre verso l’orizzonte sui rumori del mare e nella luce del cielo. Perciò cessate di inquietarvi laggiù, anche se Joshua dovesse proseguire la sua rotta di là, molto di là dei Capi, guidato da un gabbiano. ma quando vedete i gabbiani, laggiù, date loro un po’ del vostro calore, ne hanno bisogno. E anche voi avete bisogno di loro. Volano nel vento marino, e il vento del mare ripassa sempre sopra la terra”.
Bernard Moitissier, La lunga rotta

Uno dei fantasmi del ’68, meno conosciuti ma più affascinanti, fu la Golden Globe Race. Una regata, una scommessa, una follia. Nove pazzi che per primi cercarono la cirumnavigazione in solitaria e senza scalo del globo, sotto l’invito del Sunday Times che metteva in palio la bellezza di 5000 sterline. Spesso senza nessuna esperienza e con mezzi di fortuna, in cinque non riuscirono nemmeno a superare l’Atlantico. Di altri due, Tetley e Crowhurst, la storia è nota, con il primo che danneggia la sua barca quando era in testa su errate indicazioni del secondo, e il secondo che si suicida per il senso di colpa – una decina di anni fa su questa vicenda è stato girato un documentario, e il prossimo anno arriverà pure un film di finzione. Allora ne rimasero due, Robin Knox-Johnston che poi vinse (e a dire il vero fu l’unico a giungere realmente a destinazione) e Bernard Moitissier, che sulla rotta del ritorno decise di girare il suo Joshua per tornare indietro e fermarsi a Tahiti, quasi richiamato da sirene o forse ormai solo spaventato dalla terraferma. Quell’esperienza ci potrebbe insegnare molto del senso che potrebbe aver avuto il mare per Nikolay Djambazov quando un giorno scelse di prenderlo e navigarlo, di affrontare l’ignoto, di esplorare il proprio limite. Siamo nella Bulgaria del controllo e dell’astenia, in cui pochi potevano lasciare il paese e tantomeno lui, che una barca nemmeno l’aveva. Viveva però all’interno di un sogno lucido, girare il mondo a vela, da solo, senza fretta alcuna. Tornato dal lavoro per ore si occupava del suo scafo, con amici e parenti a osservare e ad aiutare. Quando arrivò il giorno di salpare non gli parse vero: ora c’era solo l’oceano ad aspettarlo, e la sua amata Tangra a scortarlo verso ciò che per tutti era impossibile.

Maria Karaguiozova ai tempi aveva solo otto anni, e forse nemmeno conosceva il significato reale di quell’impresa. Era il 1985, quando vide per televisione l’elìte bulgara accogliere in festa Nikolay al suo arrivo mostrandolo ora non (più) come fuggitivo, ma come eroe del popolo. Trentadue anni dopo, la bambina ormai cresciuta decide di intervistare il navigatore solitario e trarci fuori un film intimo e semplice, che con dolcezza e nostalgia giunge al cuore del senso di un’improvvisata traversata oceanica, e allo stesso modo di tutte le traiettorie che incarnavano quell’esperienza. Partendo dalle splendide riprese in Super-8 dello stesso Nikolay e dalle sue note ingenue, vive e spaventate, appuntate sul diario del tempo fino a giungere alle memorie dell’oggi, questo ritratto abbozzato presentato al Torino Film Festival 2017 nella sezione TFFdoc/Viaggio ci mostra come affrontare il mare d’altura possa significare indipendenza e creatività, libertà e follia, in una Bulgaria che dalla freddezza del regime totalitario si mostra ora schiava di un selvaggio capitalismo. Così oggi anche quel mare non è più lo stesso, preda di facoltosi imprenditori o di naufragi di ogni speranza, e il senso stesso di una viaggio verso l’ignoto è ridotto a un’esperienza da crociera, destinata a coloro che il mare non lo vogliono nemmeno conoscere. Quando oggi Nikolay passeggia nel suo hangar dove costruì la barca in mezzo allo scherno di molti suoi concittadini, ancora pensa alle mani che hanno costruito quel sogno pezzo per pezzo, con un senso forse ancora maggiore rispetto all’esperienza stessa della circumnavigazione, quasi come se la navigazione non fosse nemmeno esistita, ma fosse rimasta un sogno a occhi aperti, etereo, distante, dall’apparente mancanza di fisicità. Ma questo probabilmente non possiamo conoscerlo: solo chi ha visto in faccia Capo Horn, passandolo, potrebbe capire. Solo lì si possono annegare i pensieri, quelli disorientati e confusi che respirano con il tempo di un battito del cuore e nello spazio di una marea.

Ora il barbuto Nikolay accompagna turisti su un comodo lago e vive con la madre di Maria, ma non smette di pensare al suo primo amore, a Tangra, alla barca. Quando non ha avuto più i soldi per mantenerla è finita in mano prima alla mafia bulgara e in seguito a russi sconosciuti. Una ferita insanabile forse, l’unica di una vita nutrita da una realtà estrema, di ostinazioni e speranze. Rimane il collo di una bottiglia spezzata, quella del varo, reliquia inestimabile, scrigno di tracce e memorie, punto di partenza unico nel definire una storia e nel credere che ne possano esistere altre e infinite. Non può così non venire alla mente il mio ultimo viaggio (seimila chilometri andata a ritorno verso Lisbona, con qualsiasi mezzo escluso ovviamente l’aereo) proprio sulle tracce dei navigatori di mezzo millennio fa. Non può non venire in mente la colonna sonora continua di quello spostamento infinito, un pezzo di Neil Young che parla del più controverso e terribile, ma allo stesso modo affascinante, dei conquistadores. A un certo punto della canzone, il testo passa improvvisamente dalla terza alla prima persona singolare: “E so che lei vive lì / E lei mi ama ancora oggi. / Non riesco ancora a ricordare come / o dove ho perso la mia strada”. Sarà lo stesso Cortez (the Killer) a parlare, di un amore o di un ricordo, di un oceano o di una terra, di un sogno continuo probabilmente. Come se il mare appiattisse prospettive storiche e geografiche, rappresentasse l’approdo impossibile verso ogni nudità interiore, rompesse la ferrea distinzione tra giusto e sbagliato innescando un rapporto pulsante di fragilità e deliri, di solitudine estrema, ma di ancor più estrema liberazione. Seguire il vento e aspettarlo, esserne trascinati perché il senso di qualsiasi metafisica possibile è proprio abbandonarsi a lui in una resa incondizionata e inerme, che rende ogni navigatore semplice marinaio e impavido esploratore. La tensione verso il limite e il desiderio di ciò che non si conosce: tutti coloro che hanno preso il mare a questo hanno dedicato gli ultimi pensieri prima del largo, nella cosciente paura che non tutti torneranno a vedere la terra, ma che il diritto a quel sogno supera qualsiasi ansia come qualsiasi razionalità. Perché il mare può essere un idioma come un miracolo, ma senza dubbio rappresenta come null’altro il fantasma inafferrabile della vita. Come il sogno di Moitissier e di Blake, di Colombo e di Cortez, di Ulisse e di Melville e in fondo anche del nostro piccolo ma straordinario Nikolay. Se da una parte ci può esser solo la strada, dall’altra ci può esser solo l’onda. Facile, no?

Erik Negro

“Le Rêve de Nikolay” (2016)
Documentary | Bulgaria / Belgium
Regista Maria Karaguiozova
Sceneggiatori Maria Karaguiozova
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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