LE LIVRE D’IMAGE (2018), di Jean-Luc Godard

Film disponibile in streaming legale e gratuito su RaiPlay
«Nel principio era la Parola e la Parola era presso Dio,
e la Parola era Dio. Egli (la Parola) era nel principio con Dio.
Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui (la Parola),
e senza di lui nessuna delle cose fatte è stata fatta.
In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini.
E la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa»
.
Giovanni, 1:1-14
«Tutte le immagini da inquadrare nascono uguali e libere:
i film non sono che la storia della loro oppressione»
Jean-Luc Godard, da “Introduction à une véritable histoire du cinéma”, 1980

Parola e luce (dunque immagine, ciò che vediamo). Otto anni fa, con Film Socialisme, Godard inaugurava questa che oggi potremmo definire come una specie di trilogia terminale, qualcosa che traghettasse la (sua) visione nel nuovo millennio, tra immagini e parole; senza dubbio il più importante e seminale progetto audiovisivo del primo scorcio di questo secolo. Era un film di riflessi sull’acqua e tra le acque, un viaggio quasi impercettibile sul vuoto delle ideologie e sulla riscrittura della storia. La sinossi di allora parlava di sinfonia in tre movimenti. Il primo, una crociera sul Mediterraneo, con conversazioni in varie lingue (astratte nella presenza di Alain Badiou, Patti Smith, Bernard Maris e altre figure assai emblematiche). Il secondo, il ritratto di un bimbo che, nella campagna francese, voleva candidarsi alle elezioni – solo per comprendere il reale significato di Liberté, Égalité e Fraternité – scatenando l’interesse dell’opinione pubblica e mediatica. Il terzo, una deriva di impressioni – tra immagini vecchie e nuove – sulle antiche capitali del Mediterraneo (l’Egitto e la Palestina, Odessa e la Grecia, Napoli e Barcellona). “Le idee ci separano, i sogni ci avvicinano”. Descrizione ridotta all’osso, sempre a togliere e sempre a limare quest’ultimo Godard, tre capitoli distantissimi dalla pseudo-ascesi di Notre Musique (2004) – in cui Inferno, Purgatorio e Paradiso fungevano da punto di fuga ideale rispetto alla guerra, espressione di ciò che rimane invisibile – e proiettati verso un nuovo secolo da scoprire (ed in un certo senso ahinoi già scoperto). Film Socialisme è una selva di associazioni e sguardi, che trova il suo essere in un complessissimo rapporto di verosimiglianza oscillando nella costruzione di un’ immagine (mai vista), attraverso l’estetica del frammento. Così, i tre movimenti, si intersecavano tra loro (la Grecia, ed il Mediterraneo tutto, la memoria che lì abita ed i diritti d’autore che dovrebbe ricevere per avere pensato il mondo contemporaneo prima di noi; il ritorno a quella/e civiltà antica/he per riaffermare il senso pieno delle parole cardine, quelle che il bimbo vorrebbe conoscere, su cui si basavano democrazie e rivoluzioni sociali); con la percezione continua di un’immagine formatasi con la nostra coscienza – dice Badiou attorno ad Husserl – e che gioca con il tempo come con la luce, con il vuoto come con le geometrie (sempre assimetriche). “Des choses comme ça”, Patti Smith menestrella solitaria nello spazio che dalla crociera giunge ai porti di un tempo, nelle culle mediterranee della civiltà (anche espanse, se pensiamo alla scalinata di Ejzenstejn), rivis(su)te attraverso un montaggio verticale, anarchico ed ermetico, di fratture ed interstizi, una pratica fisica che oltrepassa l’idea del luogo. Nascosta dietro a questa sintesi c’è una riscrittura divertita della storia (come affermato da Martial Pisani e Arthur Mas), nella sua impossibilità di interpretazione come di descrizione, attorno capitalismo e socialismo; un’opera aperta e indefinita (nella sua non-finitezza di apparenze come nell’infinitezza dei possibili significati). In fondo resta un film (almeno così dice il titolo), o forse – come afferma Jean Douchet – solamente un’opera che deve interrogarci sulla modalità della nostra ricezione, di cosa possano significare per noi quelle immagini e quelle parole. Quattro anni dopo sarà Adieu au Language. Questa volta la sinossi parla di un incontro tra una donna sposata e uno scapolo, mentre un cane si aggira tra città e campagna; passano le stagioni e loro si rincontrano – “Un secondo film inizia, uguale al primo, ma forse no. Dalla razza umana passiamo alla metafora. Finisce in abbai e pianti di bimbo.” – anche se poco resta da vedere, nell’umano dell’oggi. Proprio perché Godard, il regista che più combacia con l’occhio e con la sua deriva, decide di non farci più vedere. Nella stereoscopia artigianale e vorticosa di Adieu au Langage c’è la scelta di parte, quella che favorisce la vista di un occhio e condanna quella dell’altro. Non possiamo vedere tutto, dobbiamo sapere da che parte guardare (e quindi stare). Cinema dell’invisibile, cinema del non-visibile, cinema che non si vede. “La realtà è solo il rifugio per chi non ha immaginazione”. L’idea del linguaggio che si fa lingua, la sperimentazione di un supporto (il 3D) mai realmente ridiscusso fino ad ora, un chiodo piantato nel futuro. Tra i colori di Adieu sopravvive una più che mai sterminata serie di citazioni (si vede addirittura Valverde scalare l’Alpe d’Huez e si ascolta persino Alfredo Bandelli invitare alla lotta), perché l’immagine ormai prolifera a dismisura e così perde il suo immaginario, si fonde con quello della realtà come della storia. Dualismi: destra e sinistra, vivere e raccontare, sentimenti e corpo, lingua e linguaggio; l’impressione è quella della resistenza delle stagioni (tutto declinato tra Natura e Metafora), dello sguardo di Roxy – il cane che vaga nei boschi di Rolle senza meta – più puro di qualsiasi umano, dell’affermazione di una speranza vaga e multiforme attraverso il cinema come “operazione di lutto e riconquista della vita” (da un intervista del ’96). Qui l’interstizio e la frattura esistono proprio nell’attimo in cui due immagini tridimensionali vengono sovrapposte, creando una sospensione e una duplicazione possibilmente infinita dei doppi che stiamo guardando; è il nostro sguardo a ricreare lo spazio interno attraverso un’altra dimensione, è il nostro occhio a vedere qualcosa che non c’è, a tendere verso l’invisibile (nel troppo visibile). In un certo senso potremmo dire che Le Livre d’Image parte da qui, e dalle ultime due sezioni dell’Histoire(s) du Cinéma. La 4A (Le controle de l’univers) dove, citando Denis de Rougemont, si parla della vera condizione dell’uomo legata al pensare con le mani; la 4B (Les signes parmi nous) in cui, dopo l’esperienza empirica, c’è lo sfuggire della storia stessa nel tentativo di cercarla, decodificarla, ricostruirla. Ed ecco i segni, tra gli interstizi, quelli inspiegabili.

Già nelle Histoire(s) Godard fa notare come l’immagine rischi di soccombere, schiacciata in un certo senso dalla parola, nel rinnegamento della sua libertà; perché la parola mai deve definire e rifinire, in maniera esplicativa, l’immagine; non deve unirsi a lei perché ciò non sarebbe segno. Dunque possiamo porre in relazione alla parola ciò che stiamo guardando? Il primo tentativo è quello di una rapida catalogazione (provvisoria quanto, probabilmente, inutile) di alcuni degli elementi che Godard usa per la ricostruzione di questa nuova storia; una sorta di detournement estremo (su cui torneremo), eccessivo e vorticoso, senza appigli. Un’odissea di segni. Le mani e gli occhi (la moviola – la spilla con cui legare un fotogramma ad un altro – e Buñuel), il pensiero passa attraverso la fisicità, così come il segno che appare ancora tra noi. Profeti e/o profezie. Laurence Olivier e l’apocalisse di Aldrich, Murnau e Ray (il blu degli occhi di Vienna), l’idea del Re/im(ak)es possibile e infinito (citazione/i e recitazione/i). La poesia. I primi neri e i primi fuori campo, Franju e Rossellini, l’Isis, cos’è guerra e cosa non lo è? Con Vigo il tempo si dilata e si respira (paradossalmente sott’acqua) prima di rigettarsi tra Ejzenstejn, Lang ed Hitler, si torna al finale dell’Histoire(s) – forse oggi nemmeno un’eternità servirebbe per la storia di un giorno – e all’orrore della società. Non c’è più nessun palazzo (d’Inverno, San Pietroburgo) da prendere, ma cos’è servito averlo preso in questa prospettiva? La reazione dell’oggi. La Luxembourg e Pudovkin, Mizoguchi e Masaccio. Adamo ed Eva lasciano il paradiso terrestre, così la deriva accelera, la percezione diventa quasi impercettibile. Arriva il treno (al cinema), Keaton e Von Strernberg. Solo l’arte può sopravvivere alla sua epoca, forse un sogno che va accettato, Straub e i morti di fame, Vigo tra convogli africani e nazisti, americani e sovietici. Il treno senza una meta è l’incerto destino dall’umanità. Barnet e Ophuls, appare Gabin e si vira verso lo spirito della legge. Le rivoluzioni, ancora Rossellini, l’oggi e la Palestina, poi Ford e Browning (a ridere del sesso), la Giovanna/Ingrid e il rogo di Dreyer. La democrazia perduta, i crimini della contemporaneità, il senso dell’Europa (c’è ancora una Sarajevo?), l’asfissia della politica; la violenza dello Stato si contrappone a quella dei popoli contro l’impero. Ed ecco la nostra Region Centrale, quella di Snow, dell’Orwell catalano e di Hitchcock. Quella altra, dell’Arabia gioiosa di Dumas, tra miti e pirati; quella dell’oggi di terrore e paura. La lunga digressione sul distopico romanzo di Cossery (Une ambition dans le desert), Dofa e il suo piccolo mondo nuovo; la genesi del terrorismo e delle nuove battaglie. Immagini nuove, tramonti corrosi dal sole, tonalità sempre più sature. La sfilza di nomi e opere qui presenti, e poi ciò che resta fuori. Welles e ancora Straub, la trasformazione della realtà attraverso la parola e le immagini, la voce della Mieville. Tutto si accelera ancora una volta, i volti trasfigurati di ciò che fu la Nouvelle Vague. La speranza, il nero, la voce dello stesso Godard che esplode dopo Brecht. “Et même si rien ne devait être comme nous l’avions espéré / cela ne changerait rien à nos espérances / elles resteraient une utopie nécessaire / et le domaine des espérances est plus vaste que notre temps / de même que le passé était immuable / de même les espérances resteraient immuables.” Torna Ophuls, il piacere del lasciarsi cadere. “Ardent espoir”. Stop. La serie di appunti rivisti e scritti nella continua diretta delle visioni provvisorie appare subito come un altra lacerazione al tessuto del film, come un’enorme serie di frammenti da riconsiderare e condensare nell’abnorme totalità.

“Aller e Retour”, attorno al movimento, come se tutto questo fosse solamente un viaggio al termine dell’immagine per ritrovarne un punto di partenza. Già ai limiti delle Histoire(s) Godard rifletteva su come il cinema non fosse riuscito ad essere l’arte del Novecento perché compresso dalla/nella parola (e dalla, sua, legge); la parola viene prima dell’immagine ma oggi non ha più linguaggio, mentre l’immagine ora conosce solo la “violenza della rappresentazione” – l’atto del rappresentare e del ridurre coinvolge con violenza il soggetto rappresentato e crea il contrasto tra la violenza dell’atto stesso e la calma interiore della rappresentazione, ritorcendosi sull’immagine (verbale, visiva o meno) del soggetto – da cui deve emanciparsi per (ri)trovare la propria identità. Liberata dal potere, dalla morale, dal dogma e forse dal cinema stesso (almeno quello dell’oggi, così vicino alle accademie, così lontano dalle cineteche). “Ti ricordi ancora come nascevano i nostri pensieri? Il più sovente cominciavano con un sogno…”. Romanticismo e iconoclastia, il rapporto dell’immagine come calco del reale guarda l’incompiuto e il sospeso, già in apertura, dove la pellicola si ossida e si incrosta, resta invisibile celando per sempre il suo contenuto. L’impossibilità reale di unità tra immagine e parola è il punto sintattico di partenza del film, Godard cerca il segno che nasce dal loro antagonismo (l’interstizio su cui torneremo), una nuova lingua dei segni in attesa di una nuova rivoluzione (o rivelazione). C’è il trauma e c’è il sogno, c’è la pittura analogica e il codice digitale, c’è un reale penetrabile oramai solo attraverso il colore (l’occhio ai Fauves ancora radicalizzato) soprattutto nelle sequenze recenti, dai toni violenti e sovraesposti, estremamente definiti quasi a redimere l’immagine sporca con cui pensiamo il Medioriente. Siamo nella vertigine che trasla continuamente lo spazio dell’immagine e il tempo della parola, in una dimensione altra (simbolica e poetica) che ribalta i rapporti, che fluisce senza apparente inizio o fine, che svela il senso per poi superarlo. Cinque capitoli – per (ri)capitolare: 1) «Remakes», 2) «les Soirées de Saint-Pétersbourg», 3) «Ces Fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages», 4) «l’Esprit des lois», 5) «la Région centrale» – le cinque dita della mano o forse i cinque sensi, quasi come se potesse esistere una specie di traccia narrativa sommersa attorno al flusso. L’andare al cinema (l’infanzia, nell’infanzia dell’arte), lasciarlo per la guerra e per l’utopia di una rivoluzione, aspettare il treno come il viaggio (la citazione sublime di Rilke). E poi la giustizia al cospetto della legge (l’uomo che non sa regolare l’uomo), infine la regione centrale – già presente in Godard nel misterioso e affascinante Scénario du film “Passion” (1982), come luogo cosmogonico dell’invenzione del mare come della luce, dell’immagine come del cinema – in quell’Arabia (da noi conosciuta solo, quasi ontologicamente, in rapporto con l’Occidente) dove può esistere un nuovo rapporto tra immagine e parola che vada oltre al contrasto (uno/altro); dove il verbo non possa più dividere e l’icona possa unire, dove forse può abitare una redenzione (anche d/nel nostro sguardo) o solo un’ ultima speranza. Così le mani scorrono i libri e le pellicole, scrivono e pensano. La verità è l’altra faccia della bugia (al cinema e non solo), il primo capitolo è poesia e quindi incomunicabilità; chi tenta di capire un’immagine inevitabilmente ne crea un’altra (così come un’altra realtà). “Nessuna attività diventa un’arte prima che la sua epoca, il suo tempo, non sia finito, e allora scompare”. La solitudine dell’artigiano prima che dell’artista, il dolore del dover lavorare su una materia viva che gioca a nascondersi attraverso la storia, la speranza di chiedersi ancora ogni giorno cosa le proprie mani stiano toccando. Quella domanda che sconfina nel guardare come oggi, dopo tutto il cinema possibile, possiamo vedere e ascoltare questo mondo e questa umanità. Non solo con l’occhio. La tridimensionalità di questo Livre è affidata a ciò che ascoltiamo, a una stereofonia estrema, che avvolge la proiezione, che delocalizza lo spazio uditivo alterandone il tempo percettivo (il sonoro che “critica” le immagini); le voci sono fantasmi, si cercano e si incrociano, si attraversano e si scontrano, le frequenze dei toni come dei volumi a tratti ribollono (un missaggio che, nella sua teoria, dovrebbe esser provvisorio e mai uguale a sé stesso nelle prossime proiezioni del film). Anche questo fa parte della politica (come poetica) del frammento – “solo nel frammento può risiedere l’autenticità” (Brecht) – che diventa estetica quasi invisibile dal trattamento dei materiali lacerati, quasi violentati (e così terribilmente amati) al montaggio. Ciò che ascoltiamo amplifica ciò che vediamo, lo trafigge. Nel footage – frammenti d/nel cinema, stralci sconosciuti dal web come dalla tv, quadri come libri, illustrazioni come disegni, pennellate come sbavature; la definizione è quasi sempre volutamente minima, copie “sgranate, decomposte, bruciata dal sole, colate a picco, non più supportate dal supporto, smagnetizzate, graffiate, sradicate” – sublimato e portato ad una vertigine cromatica estremamente contrastata si colgono solo i bordi delle figure che abitano le immagini, le si possono intuire e percepire quasi mai vedendole chiaramente. Così cambiano mascherini e proporzioni, quadri e formati, nel momento in cui l’immagine è nel momento di esser vista; dal 4:3 al 16:9, dallo scope all’anamorfico, dal cinema alla televisione passando per il desktop e lo smartphone.

Perché il vedere va sfiorato con le dita, l’immagine va abbracciata e portata a riva (ecco che torna anche la visione demiurgica dello Scenario, la Région Centrale dove tutto è possibile) perché impenetrabile nell’atto di costruire una rappresentazione, non potendola essere per essenza. I primi quattro capitoli sono apparentemente formali, attraversati dallo sguardo dell’Occidente, sull’Occidente, un viaggio di pura fantasia, che abbaglia, stordisce e terrorizza. Una serie di proposizioni aperte. La legge è diventata orrore, i ricchi continuano ad accusare i poveri di rovinare il mondo, la democrazia non può più riconoscersi nelle proprie radici, l’immagine è una dimensione al di là del potere, il riscatto degli oppressi non può passare attraverso la parola. E l’Europa? Non si parla di fattoidi (allucinazioni mediali), nemmeno del conflitto – tanto caro a Rancière – di un’immagine contro la parola, e nemmeno di un contrasto in opposto, come realtà altra. Si parla della rottura dell’immagine con il suo significato diretto, dello straniamento – vedi anche i sottotitoli che costituiscono di per sè un altro sottotesto, lacerazione e altro segno – che i nuovi linguaggi trovano in rete, nella mastodontica proliferazione dell’immagine (anche terroristica) senza alcun segno. Godard invece guarda ai segni, torna alla lotta, il suo (cine)occhio è ancora incendiario – ben diverso da quello che quasi mezzo secolo fa portò al Gruppo Vertov, e così distante dal Caméra-Oeil (1967) -, un qualcosa che possa ribaltare l’immaginario che codifica il reale. Rimasto unico nel chiedersi/ci come l’immagine voglia e possa testimoniare l’oggi, in un periodo in cui tutto è mostrato, e resister è forse possibile solo nell’interstizio dell’invisibile. La tensione, tra la violenza della rappresentazione e la calma dell’immagine, è al centro del film e la fa esplodere il digitale – pare quasi saltare una scheda video e dentro intravederci un Brakhage o forse uno Sharits – (qualcosa che ha a che fare con il dito, almeno nella etimologia) in quel terreno di scontro e lotta che è il montaggio. Il montaggio, appunto, pur matto e disperatissimo, mai portatore di verità, è solo una ricostruzione del ricordo che colpisce il cuore dei sensi come del senso, si appoggia a neri e silenzi per poi guardare ciò che rimane sconosciuto, che non possiamo più vedere, l’estetica della materia. Nella continua invenzione pittorica di ciò che guardiamo, sopravvive il rapporto dialettico con la parola, non nell’espansione dei sensi (verso un possibile non-senso), ma nel dare respiro ad essi; un film che pensa non tanto a ciò che è stato, ma al mancante, all’atto non vissuto (ovvero alla catastrofe del reale). Ma è nel passaggio di sguardi, inizialmente dell’Occidente sull’Oriente e poi quasi ribaltato, che il rapporto trova nuova linfa. Anche attraverso Michael Snow, che non si vede ma si percepisce nel suo squarcio, il tempo ritorna nella stessa maniera (ma al suo opposto) rispetto all’apertura. Ecco “Aller e Retour”, uno dei motti godardiani dello Scenario. Non ci sono i libri del verbo (Bibbia, Tavole della Legge, Torah, Corano ecc ecc. come lui stesso dice) perché l’Arabia non è (solo) l’Islam come l’Occidente non è solo iconofilia del Cristianesimo. Ma lì, in quell’Arabia gioiosa, qualcosa si muove ancora – le parole del filologo americano/palestinese Edward Said (In the Shadow of the West) completano la visionarietà di Cossery – soprattutto se riusciamo a recidere la rappresentazione dalla sua violenza. L’Isis uccide come i nazisti facevano con i partigiani (lo stacco di montaggio più vertiginoso tra un video del Daesh trovato sul web e il sesto episodio del Rossellini di Paisà), ma gli arabi oggi possono parlare? Noi non conosciamo la loro vera immagine come loro spesso non conoscono la loro vera parola (secondo il nostro sguardo), la lucidità e la dolcezza di Godard è ancora una volta spiazzante. Così tutte le proposizioni messe in campo da JLG diventano il tentativo estremo di attentare al sistema delle immagini dominanti, e tutto si conclude con l’emergere in un’altra splendida impossibilità – aderente alla citazione di Borges nel finale dell’Histoire(s) – che è l’utopia di una realtà ancora da immaginare, da sognare, in cui sperare. Rimane l’idea che noi stessi parliamo solo attraverso l’altro, un’enorme presa di posizione in difesa del vero nella soggettività (l’unica che possa difenderci dal dogma e dal terrore); per un cinema che ri-guarda (a) sé stesso mostrandone il vuoto e l’oblio, un’apparente distruzione, tracciandone una nuova libertà che non vuole rinunciare all’utopia. Nella voce di Godard rimane scritta quest’ultima pagina, a nero, del Livre d’Image; una voce che soffre, che urla lo sforzo della necessità dell’espressione. Tracce che si sovrappongono, variando continuamente il canale, fino all’inascoltabile. Epigrammi, profezie e visioni nel buio. Colpi di tosse, sussuri e grida. La caduta del piacere, il lasciarsi andare, l’esser liberi. Il vivere (ancora), l’esserci dopo l’esserci stati.

Già Deleuze ci mostrava come il cinema di Godard fosse, dalla sua nascita, un completo esercizio di interstizio tra le immagini (“una spaziatura che fa sì che ogni immagine si strappi al vuoto e ci ricada”), esercizio che diventerà metodo oltrepassando la stessa idea di attrazione. Si vede in Ici et ailleurs (1976) – vicino anche al Livre, nello sguardo sul mondo arabo – come nel suo trasferimento televisivo di Six fois dueux (1977), l’esperimento del “differenziare” e “disparare” le immagini liberandole dalla loro schiavitù dell’esser in catena; qualcosa che vada oltre all’idea del cinema dell’uno come a quello dell’essere (la dispersione del fuori e/o la vertigine della spaziatura di Blanchot), qualcosa che chieda allo spettatore un ruolo essenzialmente nuovo. Dove esisteva il falso raccordo ora c’è il taglio reciso della sequenza, quell’emozione spezzata prima del climax come pratica radicale del (far) vedere oggi, a dimostrazione dell’inesistenza attuale di un fuori campo – nella proliferazione dell’immagine e del nostro consumo legato ad essa – affermando unicamente l’interstizio. In questo Livre d’Image torna prepotentemente l’idea del rapporto tra gli interstizi come tra l’immagine sonora e quella visiva; lo studio di più tracce (nella loro profondità spesso divisiva) che si intersechi con il montaggio determinando nuovi rapporti dell’immagine-tempo in accordi dissonanti e interruzioni irrazionali (l’immagine s-concatenata di Artaud). Così come con il colore movimento e immagine, un simbolismo cromatico che amplia e supera l’effetto del mero visibile, uno spazio in cui riflettere e nascondere ciò che vediamo in apparenza; radicalizzazione dell’invenione pittorica e visiva nei confronti di qualcosa mai visto prima. Il montaggio è autonomo rispetto al film, ma organico nei confronti del cinema. Per Godard era stata, nel suo primo periodo, l’invenzione di una visione libera e diretta alla radice del senso dell’autorialità baziniano; oggi quell’idea sulla successione di immagini riflessa in un genere (la serialità rispetto allo stesso film, la possibilità che esso ne possa contenere linguaggi infiniti) approda ad una pratica di montaggio apparentemente definitiva. Fu sempre Deleuze a paragonare la moviola di Godard ad una specie di “tavolo della categorie”, dalla verosimiglianza ai paradossi della logica, partendo da Aristotele e Aragon, mutabili e reinventate; una pratica che ha trovato la sua più completa e complessa radicalità dai tempi della rivoluzione di Ejzenstejn. Singolare per colui che negli anni ’60 “ridonava al cinema la potenza del romanzo” – attraverso una linea (mai retta) che univa l’autore al mondo esterno attraverso i personaggi – e negli anni ’80 ribadiva al cinema un ruolo altro rispetto alla cultura, oggi cercare con esso nuovi rapporti verso il pensiero lasciando all’archivio quella linea di ricerca. Un rapporto che è progressivo scardinamento secondo il potere della domanda, un qualcosa che ci lasci solo credenza e suggestione di questo mondo. Un genere di discorso che rinvia sempre ad un discorso di altro genere (Daney), lasciando al cinema la specificità d’accogliere immagini che non fanno più parte del cinema stesso, di immagini che ora ci possano restituire la credenza del mondo attraverso il pensiero. In tutto ciò Godard rimane l’ultimo autore che mostra la nostra nuova incapacità di una lettura “visiva” dell’immagine, del nostro non esser in grado di assimilare una profonda disperazione sul presente, che possa portare ad un vero atto di ribellione (come transfert dal nostro occhio alla nostra mano). Ecco il bisogno di un libro di/per/tra immagini, personalissimo e collettivo, che possa contenere paradossalmente i fotogrammi di Warburg, le costellazioni di Benjamin come il museo immaginario di Malraux (come nota Angèl Quintana); un libro che sia anarchico, non dogmatico come quello fatto di parole della grandi religioni (privi di immagini), perché mostra lo spirito del pensiero, come quello della domanda. Le domande a cui siamo chiamati sono già nostre, ma non abbiamo il coraggio di concepirle. Perché in intimità ciò che guardiamo è un’ opera di continuo (auto)sabotaggio del film, dell’immagine e del cineasta – come scrive Lorenzo Esposito “con cui Godard sembra voler ritrovare nell’apparente disfunzionalità del corpo del film il corpo vivo, se è ancora da qualche parte vivo, dello spettatore, chiamato non certo a decifrare la folla di segni parmi nous, quanto piuttosto a liberarsi della propria normatività di decifratore o interprete, e invece fare esperienza della continua disfatta dell’immagine per giungere a essere un’immagine” – in attesa della resurrezione/rivoluzione e di ciò che oggi si sforza a rimanere utopia, il segno del nostro passaggio. Come lo stesso Godard, nel periodo dei Cahiers, intendeva la regia nell’atto dello scoprire e precisare contemporaneamente – attorno al western americano -, oggi questo intento si coniuga con il tempo, consumato inesorabilmente, che torna a farci visita; l’idea della finzione che si (ri)traforma in una specie di realtà altra. Da scoprire e precisare. Risuonano così anche gli echi di Vent d’Est (1969) per struttura e affezioni, di Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (1986) per satira e critica, di Dans le noir du temps (2002) per analisi e visioni. Dunque si torna a Deleuze che, parlando del primo Godard, si chiedeva in che modo si potesse sprigionare da tutto ciò un’ immagine sola, mentale e autonoma all’interno del cliché. Come non pensare a ciò adesso? Oltre all’idea più pura di un’ immagine mentale (che prenda per oggetto di pensiero gli oggetti che hanno un’esistenza fuori dal pensiero, dalla teoria di Pierce), figlia delle relazioni percettive, ora c’è altro. L’immagine che chiudeva il vorticoso De l’origine du XXIe siècle (2000), il vecchio claudicante di Ophüls, lì sonoro e qui muto, torna a ballare, forse per un’ ultima volta; il tempo si struttura ed oscilla tra i secoli, il XX oramai è solo apparenza e calco di ciò che sarà il XXI (ma il cinema non potrà più esser la sua arte). L’interstizio è anche la frattura tra i secoli come tra i millenni, quella della conversione tra mondo analogico e digitale, quella della lingua e non del linguaggio. L’interstizio è la domanda aperta, come una ferita (anche d’assenza).

Il senso della presenza/assenza di Godard a Cannes è assai espanso. Nei manifesti, quest’anno, troneggiava il bacio appassionato tra Belmondo e la Karina di Pierrot le Fou (1965), saturato in allucina(n)ti tonalità pop da Trucolor. Nel ricordo del mezzo secolo da quel ’68 quando, al grido di “Il festival è marcio, dobbiamo demolire le strutture”, il concorso fu sospeso; allora il nostro mostrava la sua solidarietà (con Truffaut, Lelouch, Polanski, Malle e Léaud, e poi Resnais, Saura e Forman che ritirarono i propri film) a Henri Langlois, appena rimosso da André Malraux come direttore della Cinémathéque, e a tutte le proteste del Quartiere Latino di Parigi nel Maggio Francese. Da quel giorno il rapporto tra l’autore e la Croisette è stato più che mai conflittuale. Infine dunque la sorpresa, la sua presenza in (video)conferenza FaceTime, sublime e impossibile, creando subito un’istallazione alt(r)a e continua di cellulari che fotografano un altro cellulare, simulacro e oracolo. Non parlavano i suoi collaboratori (Jean-Paul Battaggia, Fabrice Aragno e Nicole Brenez), e non si è limitato a raccontare il suo film; era lui con la sua immagine e la sua parola, quasi in confessione privatissima con gli avventori (come il sottoscritto), con la voce tremante nel domandare. Qualcosa di difficile da descrivere, anche nella sua essenza, qualcosa che poeticamente dava quasi l’impressione di provenire dal monolite di 2001 Odissea nello Spazio (e ritorna, con Kubrick, un’altra tangente folle del Sessantotto) come dal profondo di una caverna. Ma cos’ha detto Godard? Troppa densità per esser srotolata (qui l’incontro completo), al massimo forse ridotta a qualche spunto di riflessione. Ha ricordato quegli amici del tempo, quelli che nella quasi totalità oggi non ci sono più. Ha parlato dell’Arabia che dovremmo veder sbocciare, lasciata in pace nelle sue enormi possibilità di sviluppo, senza il nostro ingombrante aiuto. Ha guardato la fossilizzazione di film che vogliono tentare di mostrare il futuro e il presente in maniera convenzionale, che hanno l’ambizione di vedere cosa succederà, come cosa stia succedendo; mentre nessuno oramai sa guardare a ciò che non succede (e qui si mostra la fallibilità della nostra intelligenza e sensibilità). Ha descritto ancora una volta l’autonomia del montaggio, la libertà di costruire un film attraverso le mani (che pensano, ma disegnano e scrivono), strumento che convoca pensiero e amore. Ha sottolineato come l’audio debba ancora essere dialogo, mai commento, distante dall’immagine (“il modo perfetto di vedere questo film sarebbe sullo schermo di un bar, simile alla proiezione di un film muto, con il suono che viene dalle casse posizionate ai lati opposti del locale”); così come ha ridiscusso il ruolo di attori che contribuiscono oramai al totalitarismo – il parallelo con molte (pseudo)democrazie dell’oggi è doveroso – di immagini senza pensiero. Ha raccontato come quel passato in cineteca mostrava loro film modernissimi di epoche precedenti, mentre ora poco abbiamo da imparare dalle immagini. “Perché il cinema è, in fondo, oramai una piccola Catalogna che ha difficoltà di esistere”. Un Godard sereno, quasi da superstite miracoloso di un’epoca, che non si nasconde dietro alle sue immagini disciolte e indistinguibili; mai dissolto a nero, mentre la traccia della sua voce è sempre più roca e stanca, nei tre quarti d’ora di profezie e visioni. Idee ancora più libere del suo tecnicismo libertario, delle categorie della sua riflessione, delle didascalie che fissano il senso dei suoi misteri come del colore dei suoi sguardi. La sua lingua anche svuotata da ciò che è pittorico e musicale produce una melodia, come se fosse una specie di altra traccia di Le Livre d’Image, un’eco dell’interruzione che ricerca una nuova armonia possibile, dopo l’oblio della maceria. L’ultima parte della sua presenza (assente) a Cannes, Godard la lega al finale del suo film, all’oggetto, alla provvisorietà che altri libri di immagini imporrebbero. “Continuerò finché ne ho la possibilità; fino al momento in cui potrò fare affidamento sulle mie gambe, i miei occhi, ma soprattutto le mie mani. Perché oggi alla maggior parte delle persone, anche ai giovani, manca il coraggio di immaginare le loro vite. Io invece quel coraggio ce l’ho.” Il segreto di Godard come quello delle immagini a contatto con le parole; dove le nostre speranze di una vita (come di quelle passate e future), rimarranno immutabili.

P.s. Difficile dire cosa sia questo scritto, soprattutto per chi l’ha scritto. Quasi come quelle lettere d’amore giovanili (e infantili) sul far fluire parole vergognate che poi provvedi a cancellare rapidamente, non convinto di ciò che avresti voluto esprimere (per poi tornare a scriverle innumerevoli volte e chiuderle in un cassetto) tra intimità e fantasia (se avete voglie di leggere una lettera degna, qui c’è quella splendida di Eisenchitz proprio a Godard). Una specie di cut-up tra altre parole, letture, incontri, sguardi, immagini (in serie o più probabilmente in circuito), che da più un mese fluttuano nel sistema percettivo delle cose che affrontiamo (parlo probabilmente per tutti coloro che hanno avuto la fortuna – o sfortuna – di vederlo). Difficile dire quando abbia iniziato a pensarlo, perché è come se in un certo senso non sia nemmeno stato pensato da me, ma da una serie di relazioni e rapporti; se lo sguardo fosse affogato nel pensiero, così vivo d’aspettare il momento in cui si potesse raffreddare, cosa potremmo vedere oggi? C’è stato un momento che forse più di altri hanno ridiscusso questa visione e che ritorna alla prima parola di questo testo, ovvero parola. Pochi giorni dopo la visione/le visioni del Livre, a Torino si è svolta una serata a ricordo di Guy Debord, motivo il restauro della sua opera, con presenti Olivier Assayas, Roberto Turigliatto e Enrico Ghezzi. Si parlava di Debord e/o di Godard, e viceversa, andata e ritorno. Si parlava del detournament (cosa su cui cerca miseramente di riflettere anche questo testo), del passaggio del tempo, dell’attraversare l’epoca, della discontinuità rispetto alla continuità apparente del cinema. Pare proprio esser Godard a ritrovare Debord, forse proprio dai tempi dell’Histoire(s). “I grandi cineasti sono in grado di riassumere ed estendere tutto quello che si può dire del cinema, ma non è abbastanza quando il cinema tocca il cinema” (egh dixit); eccoli Godard e Debord camminare sullo stesso crinale, di una nuova corporeità fisica e vocale di elaborare e giocare con le immagini per parlare di tutto quello che avviene nella flagranza del loro momento. Immaginatori e pittori, distantissimi nella pratica (vedi le critiche dello stesso Debord a Le gai savoir, 1968), eppure così vicini. Fu Agamben – potrebbe esser stato addirittura Bataille, poco cambia – già ad avvicinarli (e scontrarli) ai tempi dell’Histoire(s) – l’interruzione trascendentale del montaggio praticata da entrambi, Valery ed Holderlin, l’esitazione prolungata tra immagine e senso che mostra la potenza d’interruzione dell’immagine stessa per poterla sottrarre dal potere narrativo ed esporla in quanto tale – proprio su quella superficie dell’interstizio su cui abbiamo cercato di soffermarci. Labarthe mostrava come già film più narrativi di Godard nascessero da lunghissimi détours, da idee accumulate come maniaco della classificazione, e invitava per ciò a fabbricare degli strumenti di pensiero propri a tutti gli avventori del suo cinema. Così Douchet, secondo cui Godard è oramai l’unico che in modo costante rilavora il cinema, lo ripensa, lo considera non solo in quanto arte ma anche in quanto tecnica, mezzo di comunicazione, strumento; tanto da soffermarsi sulla colata lavica delle immagini d’Histoire(s) – “strappate al diario del secolo” – che ricoprono oramai tutto il reale, in attesa di qualcosa che le solidifichi (il nostro occhio?). Come Bressane e l’idea dell’autore dislocato nel tentativo di oltrepassarsi, disombrarsi, inquietarsi, per tornare immagine. Come Rousseau che guarda al materiale sonoro e al materiale pittorico così pulsanti e inviolabili nella loro compresenza, o Eisenchitz davanti alla carnalità di Godard, segnata dallo scarto tra memoria e oblio che produce la vera finzione. Una sfilza di parole e impressioni dei giganti (lettori e produttori di immagini) sull’ultimo Godard – in gran parte dall’Histoire(s) a Film Socialisme – che inevitabilmente paiono riflettersi sulle intuizioni più intime di Debord. Ed è proprio sulle parole di In girum imus nocte et consumimur igni (1978) che possiamo trovare una traiettoria: “La sensazione dello scorrere del tempo è sempre stata molto viva in me, e ne sono sempre stato attratto come altri sono attratti dal vuoto o dall’acqua. In questo senso, ho amato la mia epoca, che ha visto perdersi ogni sicurezza esistente e disperdersi e scorrere via ogni elemento dell’ordine sociale. Ecco alcuni piaceri che la pratica della più grande arte non mi avrebbe dato. Quanto a quello che abbiamo fatto, come si potrebbe valutarne oggi il risultato? Ora attraversiamo un paesaggio devastato dalla guerra che una società porta avanti contro sé stessa, contro le sue stesse possibilità. L’imbruttimento di tutto era indubbiamente il prezzo inevitabile del conflitto. È stato perché il nemico ha spinto così lontano i suoi errori che abbiamo cominciato a vincere.” Questa è forse l’idea ultima alla base del Livre d’Image, di qualcosa che possa sopravvivere al destino come all’apocalisse; tra durata e attimo, paura e desiderio, lotta e sconfitta, politica e filosofia, realtà e sogno. L’idea di testimonianza umana più profonda possibile, che possa (r)esistere anche al nulla, che oltrepassi lo scorrere del tempo come dell’acqua. E se proprio Debord ci mostrasse quell’interstizio di questo Godard? “So che c’è il mare” è il titolo dello straordinario, per rigore di ricerca e intensità emotiva, scritto con cui Roberto Turigliatto apre il libro sugli atti del convegno di Udine nel febbraio 2010 – contenente il discorso del 1995 dello stesso Godard “A proposito di cinema e di storia” – che vi invito a leggere. Forse è davvero l’acqua, l’unico interstizio possibile tra immagine e parola, quell’acqua da cui nasce la vita e in cui si riflette il mondo. L’acqua contenuta nella diga di Operation Beton (1954) e quella giocosa di Une histoire d’eau, in co-regia con Truffaut (1958). L’acqua della crociera di Film Socialisme come del lago di Rolle in Adieu au Langage. L’acqua mistica di Scénario du film “Passion” dove dalla pagina bianca si trapassa al mare per giungere al raggio di sole; e ora quella araba di speranza e morte, in quelle che potrebbero essere le ultime immagini filmate di/a Godard. L’acqua di un cinema unico, quasi anfibio, che quando si scopre cambia la forma della propria vita. Il cinema che non si nega mai, che si mostra nella sua nudità più pulsante, a cuore aperto. L’acqua delle nostre ombre, come se sul fondo della caverna di Platone ci fosse un piccolo stagno per creare un doppio del nostro doppio. Forse solo attraverso ciò potremmo aver il coraggio di libearci dalla catene di questa contemporaneità, dopo esser riemersi dall’abisso di una visione simile, a ripercorre quell’abissale strada a ritroso che solo Godard oramai pare conoscere. Avete presente quando nessuno saprà più mostrarcela? “Che cos’è ancora possibile filmare? Ma forse è il contrario: tutto comincia”, Michel Delahaye ci risponde, attraverso JLG ovviamente, sempre che ce ne fosse ancora bisogno. «si un homme / si un homme traversait le paradis en songe / qu’il reçût une fleur comme preuve de son passage / et qu’à son réveil il trouvât cette fleur dans ses mains / que dire alors / j’étais / cet homme. » (Borgès, Livre des rêves,1976 / Godard, Histoire(s) du Cinéma – 4B, Les signes parmi nous -, 1998). Tutte le storie, una storia sola.

Erik Negro

Un grazie a tutti coloro con cui mi son confrontato su questo (e altri) film, e in special modo a Barbara che ha potuto rendere tutto questo vagamente leggibile. E, ovviamente, grazie a chi lo leggerà.
Riflessioni, citazioni e spunti tratti da:
– Passion Godard, Il cinema (non) è il cinema / a cura di Roberto Turigliatto
(interventi di: Jean Douchet, André S. Labarthe, Bernard Eisenchitz
Jean-Claude Rosseau, Julio Bressane, Arthur Mas e Martial Pisani)
– JLG par JLG / Jean-Luc Godard
– Archéologie du cinéma et mémoire du siècle / Jean-Luc Godard
– L’immagine movimento (Cinema1), L’immagine tempo (Cinema2) / Gilles Deleuze
– Jean-Luc Godard (Il Castoro Cinema) / Alberto Farassino
– Paura e desiderio, cose (mai) viste / enrico ghezzi
– In girum imus nocte et consumimur igni / Guy Debord
– Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo, Donatello Fumarola e Alberto Momo
– volume a cura di Rinaldo Censi per Histoire(s) du Cinéma, Cineteca di Bologna
– Cannes 2018 / Le speranze resteranno immutabili, Lorenzo Esposito per alfabeta2
Un’importante intervista recente a Godard: http://www.debordements.fr/Jean-Luc-Godard-2018