IL LIBRO DELLE SOLUZIONI (2023), di Michel Gondry
C’è sempre un «piano B» a cui votarsi, nei continui imprevisti e nelle brillanti trovate del divertentissimo Le livre des solutions. C’è sempre nuova strada da aprirsi e da tentare di esplorare, c’è sempre una possibilità di cambio in corsa per salvare il salvabile, c’è sempre una regola ancora tutta da scrivere, magari opposta alla precedente perché ogni differente ispirazione ha la sua personale parabola e in realtà non esistono leggi granitiche ma solo intuizioni, con cui riuscire in qualche modo a portare comunque avanti l’atto creativo e il proprio amore puro, fanciullesco, viscerale nei confronti del cinema. Se otto anni fa il francese Michel Gondry aveva voluto in qualche modo realizzare, con i sogni motoristici un po’ magici e i segnanti ritorni a una realtà in cui scoprirsi cresciuti di Microbo e Gasolina, una sorta di suo personalissimo I quattrocento colpi, nel suo atteso ritorno dietro alla macchina da presa guarda ancora più esplicitamente a Truffaut e al suo Effetto notte, al metacinema (questa volta non tanto sul set quanto nelle fasi di riscrittura del montaggio e della postproduzione) e alle infinite implicazioni del mestiere (quando non della personalità) del regista. Una commedia folle, tracimante, esplosiva, e al contempo pienamente teorica, sognante e utopistica sulle infinite possibili variazioni dello stesso film e sul doverlo finire a ogni costo, in una miscela irrefrenabile di paranoie e di sbalzi d’umore, di egocentrismo e di reazioni bipolari, di istanti vicini allo slapstick e di improvvisi intermezzi in passo uno, di frasi uscite male in cui doversi scusare anche per le scuse e di errori che non si vorranno mai ammettere eppure ai quali si deve in qualche modo rimediare. Di continue soluzioni – narrative, dialettiche, visive, linguistiche – con cui mettere in scena una continua ricerca di soluzioni. Quelle dell’omonimo quaderno bianco, Le livre de solutions, che da sempre il meta-regista Marc conserva in un cassetto. Un blocco di appunti ancora tutto da scrivere, fra annotazioni, disegni, foglie bucate, fotografie, pensieri, enunciati dei quali convincersi e poi da abiurare, nel quale inventare, cercare e ritrovare le vie d’uscita e i possibili cambi di direzione del suo film nel film che sembra non riuscire a definire la sua forma. È assoluta la bocciatura dei produttori, nel momento in cui ne visionano il girato e le prime sequenze montate. Tanto che Marc, per salvare la sua creatura e finirla come gli pare, non potrà fare altro che rubarla e fuggire, in una sorta di ritiro spirituale, insieme alla alla direttrice di produzione, alla montatrice e al suo assistente che non smette nemmeno per un attimo di tossire, presso una vecchia zia in uno sperduto paesino di campagna, dove magari nell’unico studio di registrazione di zona il proprietario ti viene ad aprire con il pisello che gli esce dai pantaloni, ma nel quale essere abbastanza isolati per ritrovare la passione, le idee, la creatività, le soluzioni di un tempo e l’impossibilità di seguire regole certe di oggi e di domani.
La comicità travolgente di Gondry lavora sul paradosso, sull’esasperazione, sull’arguzia, sulla continua invenzione, sul ritmo vulcanico della comica e del cartone animato. Ma anche sulla crescente paranoia del suo evidente alter ego meta-registico, nel quale esacerbare, prendere apertamente in giro, ridicolizzare e così esorcizzare nelle gag ogni insicurezza, ogni difetto, ogni egocentrismo, ogni nevrosi, ogni narcisismo congenito e ogni pretenziosità d’autore. In un film che è un’inesauribile fabbrica di sempre nuove e geniali trovate, fra camion-montaggio in cui usare volante, clacson e frecce come comandi sulla timeline, viaggi in auto rigorosamente in seconda «perché in seconda non ci sono incidenti» senza curarsi della coda di vetture incazzate che si forma alle proprie spalle, movimenti sgraziati e ridicoli del corpo che guardano apertamente al cinema muto per voler dirigere senza essere minimamente capaci un’orchestra e «creare la musica dal silenzio: qualcosa di unico e mai fatto, ma rimango umile». Ma pure cani animati che passando per incidenti automobilistici e orecchie taglienti si ritroveranno ad aprire un negozio di parrucchiere, insensati progetti paralleli da progettare su un muro o nei quali filmare per giorni una sola formica, orribili catapecchie diroccate in cui inspiegabilmente decidere di volere assolutamente porre il proprio quartier generale, allucinazioni in stop motion in cui scoprirsi un mostro di psicofarmaci e bipolarismo, richieste contraddittorie alla montatrice (e assurdamente dittatoriali alla produzione) nell’immaginare la struttura del meta-film prima al contrario e poi palindroma con l’innesto di quello stesso cortometraggio centrale che effettivamente spezzerà in due Les livre des solutions. Fino alla geniale apparizione di Sting, salutata da un vero e proprio boato in occasione della prima mondiale del film alla Quinzaine des Cinéastes di Cannes 2023, al quale riuscire a correggere i pitch della colonna sonora, ma anche a quella giovane assistente con cui finalmente innamorarsi e diventare grande, o forse scoprirsi ancora troppo egoriferito e sognante per crescere fino in fondo, nel cinema come nella vita. Una dichiarazione d’amore alla settima arte e alla sua imprevedibilità in cui non contano i soldi, non contano le imposizioni, non contano i consigli ricevuti, non conta l’effettiva lucidità, e non conta nemmeno avere ragione o torto. Quello che conta la purezza del gesto creativo, quello che conta è cercare e ritrovare ancora il senso di meraviglia, quello che conta è la sua utopia. Quello che conta è non smettere mai di progettare e poi imparare facendo, anche a costo di fingere capacità che non si hanno, anche a costo di perdersi nelle troppe ambizioni, anche a costo di sbagliare e di allungare la lista di persone alle quali dover chiedere scusa. Quello che conta è l’appassionata capacità artigianale di arrangiarsi sopperendo alla mancanza di mezzi con l’intuizione, come quando, in pieno sole, saranno due doccette dell’innaffiatoio gestite a mano direttamente da Marc dietro alla sua handycam a creare – per ore – la pioggia dove non esiste. O come quando, esattamente all’opposto, proverà più volte a mettersi a lavorare personalmente al montaggio del film, ma non sarà psicologicamente in grado di guardarlo fino alla prima e forse anche oltre, e dovrà per forza affidarsi alla montatrice e al lavoro di gruppo o magari semplicemente sprofondare, chissà, in attesa dell’idea successiva con la quale riemergere. Una miscela esplosiva, in cui non c’è una sola situazione o inquadratura che non trascini nel suo vortice d’assurdo, in cui la comunicazione interpersonale e dialettica è come sempre impossibile, in cui l’immaginazione, l’innocenza e le incomprensioni sono sempre quelle dei bambini anche se un po’ cresciuti, e in cui il meta-film nient’altro è che l’ennesima memoria da salvare (poco importa se questa volta su chiavetta anziché nella testa elisa di Eternal sunshine on a spotless mind o sui nastri vuoti di Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm) del cinema di Michel Gondry. Un cinema da sempre fresco, visionario, iconoclasta, innovativo, onirico, ossessivo, profondo, e questa volta più che mai autoriflessivo, coinvolgente, spassoso, impetuoso, geniale. Una furia ipercinefila e folleggiante nel suo ritmo forsennato di gag e linguaggi, in cui non smettere mai di ridere né di pensare a quanto possa essere puro, semplice e magico il (fare) cinema.
Marco Romagna